Confessioni di fede/Augustana/26

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Indice generale

Confessione augustana (1530)

Prefazione - Confessioni_di_fede/Augustana/01/I Dio - Il. Il peccato originale - III. Il Figlio di Dio - IV. La giustificazione- V. Il ministero della chiesa - VI. La nuova obbedienza - VII. La chiesa - VIII. Che cos’è la chiesa? - IX. Il battesimo - X. La cena del Signore - XI. La confessione - XII. La penitenza o conversione - XIII. Funzione dei sacramenti - XIV. L’ordine ecclesiastico - XV. I riti della chiesa - XVI. La vita nella società civile XVII. Il ritorno di Cristo per il giudizio - XVIII. Il libero arbitrio - XIX. La causa del peccato - XX. Fede e buone opere - XXI. Il culto dei santi - XXII. La cena del Signore con ambedue le specie - XXIII. Il matrimonio dei preti - XXIV. La messa - XXV. La confessione - XXVI. La distinzione degli alimenti - XXVII. I voti monastici - XXVIII. Il potere ecclesiastico - Conclusione

XXVI. La distinzione degli alimenti

Vi è stata in passato la generale convinzione, e non solo nel popolo ma anche in coloro che insegnavano nelle chiese, che le distinzioni dei cibi e simili tradizioni umane siano opere utili per meritare la grazia e dare soddisfazione per i peccati. E che tutti siano stati di quest’opinione lo dimostra il fatto che ogni giorno venivano istituite nuove cerimonie, nuovi ordini religiosi, nuove festività, nuovi digiuni e i dottori nei templi esigevano queste opere come atti di culto necessari per meritare la grazia, anzi atterrivano fortemente le coscienze se tralascia vano qualcuna di queste pratiche. Da questa convinzione sul valore delle tradizioni ne sono derivati molti inconvenienti nella chiesa.

In primo luogo, fu oscurata la dottrina della grazia e della giustizia che proviene dalla fede, che è la parte principale del Vangelo e che bisogna far emergere e mettere in risalto nella chiesa, affinché si conosca bene il merito di Cristo e affinché la fede che crede che i peccati ci sono rimessi per i meriti di Cri sto, sia posta molto al di sopra delle opere e di ogni altro atto di culto. Per questo motivo anche Paolo insiste moltissimo su questo punto, rimuove la legge e le tradizioni umane per dimostrare che la giustizia cristiana è qualcosa di diverso dalle opere di questo genere, e precisamente è fede che crede che noi siamo accolti nella grazia di Dio per i meriti di Cristo. Ma questa dottrina di Paolo è stata quasi del tutto soffocata dalle tradizioni, le quali generarono la convinzione che, per mezzo della distinzione dei cibi e altre simili pratiche di culto, si dovesse meritare la grazia e la giustizia. Al momento della penitenza non si faceva alcun accenno alla fede, ma veni vano proposte solo quelle opere ritenute atte a dare soddisfazione; si pensava che tutta la penitenza consistesse in quelle opere.

In secondo luogo, queste tradizioni oscurarono il comandamento di Dio, perché erano preferite di gran lunga ai suoi ordini. Si pensava che tutto il cristianesimo si esaurisse nell’osservanza di certi giorni festivi, di certi riti, digiuni, modi di vestirsi. A queste osservanze era stata attribuita un’altissima qualifica: quella di essere la vita spirituale e perfetta. Ma, allo stesso tempo, i compiti che Dio assegnava a ciascuno secondo la sua vocazione, cioè che il padre di famiglia educasse la prole, che la madre partorisse, che il principe governasse lo stato, non meritavano alcun riconoscimento. Si pensava che queste fossero opere mondane e imperfette e di gran lunga inferiori a quelle tanto esaltate osservanze religiose tradizionali. Questa errata opinione tormentò fortemente le coscienze pie che si dolevano di dover condurre un genere di vita imperfetto, come lo stato matrimoniale, la magistratura o le altre funzioni civili, e che perciò ammiravano i monaci e i loro simili, ed erronea mente credevano che le osservanze di costoro fossero più gradite a Dio.

In terzo luogo, le tradizioni misero in grave pericolo le coscienze perché era impossibile rispettare tutte le tradizioni e pur tuttavia i fedeli continuavano a pensare che queste osservanze fossero atti di culto indispensabili. Gerson<ref>Jean Charher, detto de Gerson, fu cancelliere dell’università di Parigi (1363-1429).</ref> scrive che molti precipitarono nella disperazione, che alcuni si diedero pure la morte perché si erano resi conto di non poter soddisfare alle tradizioni e nel contempo non avevano udito neanche una parola di consolazione sulla giustizia che proviene dalla fede e sulla grazia. E vediamo che i compilatori di summae e certi teologi, nell’elencare le pratiche tradizionali, cercano degli adattamenti e attenuazioni (epiekeias)<ref>Il termine greco ha il senso di «equità», di adattamento inteso a mitigare il rigore dell’osservanza della legge.</ref> nell’osservanza di esse alfine di sollevare le coscienze; eppure non riescono a svincolarle a sufficienza, anzi talvolta le prendono ancor più al laccio. Nel raccogliere le tradizioni, le varie scuole e i predicatori furono così occupati che non ebbero tempo di at tingere alla Scrittura per cercarvi un insegnamento ben più utile sulla fede, sulla croce, sulla speranza, sul valore delle professioni civili e sulla consolazione delle coscienze nelle grandi tentazioni. E così Gerson<ref>Nel De vita spirituali animae. Iect. 2 (GERSON. Opera, 2, ed. 1729, III, 16s).</ref>, ed alcuni altri teologi, si sono for temente lamentati per il fatto che queste aspre contese sulle pratiche e sulle tradizioni li hanno distolti dal potersi dedicare a un migliore genere di dottrina. Anche Agostino vieta di aggravare le coscienze con osservanze di quel tipo e saggiamente istruisce lanuario per fargli comprendere che esse sono da osservarsi come cose indifferenti, non necessarie. Questo infatti afferma<ref>Agostino, Epist. 54, 2, 2, ad Ianuarium: PL 33. 200; Epist. 55, 19, 35: PL 33, 221ss.</ref>.

Non sembri perciò che i nostri abbiano affrontato sconsideratamente questo argomento, o per odio verso i vescovi, come alcuni sospettano ingiustamente. Era grande la necessità di mettere in guardia le chiese contro quegli errori nati da una cattiva comprensione delle tradizioni. Infatti l’Evangelo ci costringe ad insistere nella chiesa sulla dottrina della grazia e della giustizia che proviene dalla fede, la quale tuttavia non può essere compresa se i fedeli continuano a pensare di meri tarsi la grazia mediante l’osservanza di certe pratiche scelte da loro stessi.

Pertanto insegnarono che, con l’osservanza delle tradizioni umane, non possiamo meritare la grazia o dare soddisfazione per i nostri peccati; perciò non bisogna credere che simili osservanze costituiscano un atto di culto indispensabile. Si ag giungono le testimonianze tratte dalla Scrittura. Cristo, in Matteo 15:5, scusa gli apostoli che non avevano rispettato un’usanza tradizionale, che tuttavia sembrava di una certa importanza in quanto si riferiva alle abluzioni della legge giudaica, e aggiunge: «Invano mi rendono il loro culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» [15:9]. Non pretende dunque una forma di culto inutile. E poco dopo afferma: «Non è quel che entra nella bocca che contamina l’uomo» [15:11]. E così Paolo, in Romani 14:17: «Il regno di Dio non consiste in cibo o bevanda», e in Colossesi 2:16: «Nessuno vi giudichi quanto al mangiare, o al bere, o rispetto a feste, o a sabati...». In Atti 15:10, Pietro dice: «Perché tentate Dio mettendo sul collo dei discepoli un giogo che né i padri nostri né noi abbiamo potuto portare? Anzi noi crediamo di essere salvati per la grazia del Signore Gesù nello stesso modo che loro’>. Qui Pietro proibisce di aggravare le coscienze con un gran numero di riti, siano essi prescritti da Mosè o da altri. E 1 Timoteo 4:1-3 definisce «dottrina diabolica» la proibizione di usare certi alimenti, perché è assolutamente contrario al Vangelo istituire o fare tali opere alfine di meritare con esse la grazia, o come se non si potesse dare una giustizia cristiana senza tali atti di culto.

A questo punto i nostri avversari obiettano che i nostri vietano la disciplina e la mortificazione della carne al pari di Gioviniano<ref>Gioviniano, asceta vissuto a Roma alla fine del IV sec., rifiutava le ten denze monastiche del suo tempo. le quali riconoscevano un grande valore meri tono alle pratiche ascetiche, ma non — come lo accusava Girolamo la discipli na e la mortificazione.</ref>. Ma in realtà dagli scritti dei nostri si ricava ben altro; ci hanno infatti sempre insegnato, riguardo alla croce, che i cristiani devono sopportare le afflizioni. Una vera, seria mortificazione e non simulata è questa: essere travagliati da varie afflizioni e crocifissi con Cristo.

Insegnano inoltre che ogni cristiano deve esercitarsi e imparare a contenersi mediante una disciplina del corpo, con esercizi corporali e con fatiche in modo tale che la sazietà o l’o zio non lo ecciti al peccato, senza però che mediante quegli esercizi noi meritiamo la remissione dei peccati o diamo soddisfazione per i peccati. E si deve sempre attendere con zelo a questa disciplina del corpo e non soltanto in pochi giorni stabiliti, come insegna Cristo: «Badate a voi stessi, che talora i vostri cuori non siano appesantiti dalla crapula». E ancora: «Questa specie di demonio non si può far uscire in altro modo che con la preghiera» [21:34 e Mr. 9:29]. E Paolo dice: «Tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù» [9:27]. Qui indica chiaramente che egli reprime il corpo non per meri tare con quella disciplina la remissione dei peccati, ma per avere un corpo obbediente, adatto alle cose dello Spirito e pronto a fare il proprio dovere secondo la vocazione di ciascuno. Pertanto non sono condannati i digiuni in sé, ma le tra dizioni che prescrivono certi giorni e certi cibi con grave peri colo delle coscienze, come se tali opere costituissero forme di culto indispensabili.

Sono tuttavia mantenute presso di noi varie tradizioni, come l’ordine delle letture bibliche nella messa, i giorni festivi e altre utili usanze che contribuiscono al mantenimento del buon ordine nella chiesa. Ma nel contempo i fedeli sono avvertiti che tali atti di culto non giustificano nessuno al cospetto di Dio e che la loro omissione (salvo che sia causa di pubblico scandalo) non è da considerarsi peccato<ref>Da qui la teoria degli adiaphora, cioè delle cose indifferenti, che non sono nè buone né cattive e che si possono quindi fare o non fare.</ref>. Questa libertà, per quanto riguarda i riti introdotti dagli uomini, non fu ignota ai padri. Così in Oriente celebravano la Pasqua in un giorno di verso da quello stabilito a Roma, e poiché i romani, per questa diversità, accusarono l’Oriente di scisma, furono ammoniti da gli altri che non era affatto necessario che tali usanze fossero simili ovunque. Ireneo dichiara: «Una dissonanza nel digiuno non spezza la consonanza nella fede"<ref>Vescovo di Lione del I! sec. Il riferimento è tratto da Eijsea,o. Historia ecclesiastica, V. 24,13.</ref> e, nella distinctio 12, papa Gregorio fa capire che una tale diversità non intacca l’unità della chiesa<ref>Decr. Grat. I, dist. 12, e. 10.</ref>. E nella Storia tripartita, libro 9, sono raccolti molti esempi di differenze rituali e si conclude con queste parole: «L’intenzione degli apostoli non fu quella di istituire dei giorni festivi, ma di predicare un buon modo di vivere fra gli uomini e un corretto rapporto con Dio"<ref>Cassiodoro, Historia tripartita 9. 38: PL 69. 1154.</ref>.

Note