Confessioni di fede/Augustana/27

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Indice generale

Confessione augustana (1530)

Prefazione - Confessioni_di_fede/Augustana/01/I Dio - Il. Il peccato originale - III. Il Figlio di Dio - IV. La giustificazione- V. Il ministero della chiesa - VI. La nuova obbedienza - VII. La chiesa - VIII. Che cos’è la chiesa? - IX. Il battesimo - X. La cena del Signore - XI. La confessione - XII. La penitenza o conversione - XIII. Funzione dei sacramenti - XIV. L’ordine ecclesiastico - XV. I riti della chiesa - XVI. La vita nella società civile XVII. Il ritorno di Cristo per il giudizio - XVIII. Il libero arbitrio - XIX. La causa del peccato - XX. Fede e buone opere - XXI. Il culto dei santi - XXII. La cena del Signore con ambedue le specie - XXIII. Il matrimonio dei preti - XXIV. La messa - XXV. La confessione - XXVI. La distinzione degli alimenti - XXVII. I voti monastici - XXVIII. Il potere ecclesiastico - Conclusione

XXVII. I voti monastici

Che cosa si insegni presso di noi sui voti dei monaci, lo si può capire meglio se si tiene presente quali fossero le condizioni dei monasteri e quante cose contrarie ai canoni vi si com mettessero ogni giorno. Al tempo di Agostino [ monasteri] erano libere associazioni; poi, quando la disciplina degenerò, furono aggiunti i voti, affinché, come in seguito all’istituzione di un carcere, la disciplina vi fosse ristabilita. E a poco a poco, oltre ai voti, furono aggiunte molte altre regole. E con queste catene molti furono avvinti, anche se non avevano ancora l’età richiesta, contro le disposizioni dei canoni. Così si trovarono coinvolti, per errore o per ignoranza, in questo genere di vita, molti fedeli che, per quanto avessero raggiunto l’età richiesta, erano incapaci di una corretta valutazione delle proprie forze. E, irretiti in tal modo, essi erano costretti a rimanere [monasteri], benché alcuni avessero la possibilità di liberarsi per motivi ammessi dai canoni. E questo accadde ancor più spesso nei monasteri femminili che non nei conventi maschili, per quanto si dovesse avere maggiore riguardo al sesso più debole.

Prima di questo nostro tempo tale rigore non piacque a molti uomini onesti i quali vedevano che fanciulle e adolescenti venivano rinchiusi nei monasteri solo perché il loro mantenimento fosse assicurato, notavano anche a quali risultati deplorevoli approdasse quella decisione, quali scandali producesse, in quali lacci avviluppasse le coscienze. Lamentavano che l’autorità dei canoni, in materia tanto delicata e pericolosa, fosse completamente trascurata e disprezzata. A questi mali si aggiungeva una tale convinzione, a proposito dei voti, che un tempo — come è ben noto — non era gradita neppure agli stessi monaci, quando se ne trovarono alcuni un po’ più comprensivi e sensibili. Dicevano infatti che i voti equivalevano al battesimo<ref>Cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa theol. 11. 2, q. 189, a. 3 ad 3.</ref>, insegnavano che con quel genere di vita si meritava la remissione dei peccati e la giustificazione dinanzi a Dio. Anzi aggiungevano ancora che la vita monastica non merita soltanto la giustizia dinanzi a Dio, ma molto di più, poiché osserva ed applica non soltanto i «precetti» evangelici, ma anche i «consigli» evangelici<ref>La distinzione fra «precetti», obbligatori per tutti, e «consigli» evangelici, riservati a una determinata categoria di credenti, è alla base dell’istituzione monastica.</ref>. In tal modo riuscivano a convincere che la professione di vita monastica era molto più lodevole del battesimo, che la vita monastica aveva più meriti della vita dei magistrati, dei pastori e simili, i quali, senza quelle pratiche artificiose, obbediscono alla loro vocazione negli incarichi che Dio ha loro affidato. Nessuna di queste loro affermazioni può essere negata, perché si possono leggere chiaramente nei loro libri.

Che cosa avveniva poi nei monasteri? Un tempo vi erano delle scuole dove si studiavano le sacre Scritture e altre discipline utili alla chiesa e di lì si traevano pastori e vescovi; ora è tutta un’altra cosa; non crediamo sia necessario ripetere cose note. Un tempo si riunivano nei conventi per imparare; ora inventano che quel genere di vita è stato istituito per meritare la grazia e la giustizia; predicano pertanto che quello è lo stato di perfezione e lo innalzano di gran lunga al di sopra di tutti gli al tri generi di vita stabiliti da Dio. Abbiamo riportato tutto ciò senza nessuna esagerazione polemica, affinché si potesse com prendere meglio quel che i nostri insegnano in questo campo.

In primo luogo, a proposito di quelli che contraggono matrimonio, insegnano che a tutti coloro che non sono adatti al celibato è lecito contrarre matrimonio, poiché i voti non possono annullare l’ordine stabilito da Dio e il suo comanda- mento. E questo è il comandamento di Dio: «Ogni uomo abbia la propria moglie per evitare la fornicazione» [7:2]. E non solo il comandamento di Dio, ma anche la creazione di Dio e l’ordine che egli ha stabilito costringono al matrimonio coloro che non ne sono stati esentati grazie ad un particolare intervento di Dio, secondo quel detto: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Ge. 2:18). Non peccano dunque coloro che obbediscono a questo comandamento e all’ordine stabilito da Dio.

Che cosa si può obiettare a questi argomenti? Esalti pure qualcuno l’impegno del voto quanto vuole; non potrà tuttavia far sì che il voto annulli il comandamento di Dio. I canoni insegnano che per ogni voto è richiesto, come condizione di validità, il consenso di un superiore<ref>Decr. Grat. Il. C. 20. q. 4, c. 2.</ref>; molto meno dunque avranno valore questi voti contro l’esplicito ordine di Dio.

Che se poi il vincolo dell’impegno ai voti non avesse alcun valido motivo per essere modificato, neppure i pontefici romani avrebbero concesso dispense. Non sarebbe lecito infatti ad un uomo sciogliere un vincolo che fosse esclusivamente di diritto divino. Ma i pontefici romani ritennero invece saggiamente che per questi vincoli si dovesse dar prova di moderazione; perciò si legge che hanno accordato spesso delle dispense dai voti. È nota infatti la vicenda del re d’Aragona<ref>Ramiro lI di Aragona (1134-1137) fu sciolto dai voti monastici per poter succedere al fratello morto senza eredi.</ref> richiamato dal monastero, né mancano esempi nella nostra epoca.

In secondo luogo, per qual motivo i nostri avversari esagerano l’importanza del vincolo, ossia l’effetto del voto, mentre tacciono del tutto sulla natura stessa del voto, che deve riguardare cosa realizzabile, essere volontario, spontaneamente scelto e ben ponderato? Ora: nessuno certo ignora quanto rientri nelle capacità dell’uomo di vivere in castità perpetua! E quanti pronunciarono i voti spontaneamente e dopo matura riflessione? Le fanciulle e gli adolescenti vengono convinti a pronunciare i voti prima dell’età della ragione, e talvolta vi sono perfino costretti! Perciò non è giusto disputare con tanta rigidità sull’obbligo [voti], quando tutti ammettono che è contro la natura stessa del voto il fatto che sia stato promesso non spontaneamente e senza matura riflessione.

La maggior parte dei canoni<ref>Decr. Grai. Il, C. 20, q. 1, e. 10 e c. 5.</ref> scioglie i voti contratti prima del quindicesimo anno di età, poiché, prima di quell’età, non ritiene vi sia un discernimento sufficiente per decidere dell’intera vita. Un altro canone, più indulgente verso la debolezza umana, aggiunge qualche anno in più: vieta infatti di pronunciare i voti prima dei diciotto anni. A quale dei due ci si deve attenere? La grande maggioranza di coloro che abbandonano i monasteri è dunque pienamente giustificata, dal momento che moltissimi hanno pronunciato i voti prima di questa età.

In ultimo, anche se si potesse rimproverare loro la rottura del voto, non sembra che ne debba conseguire immediata mente lo scioglimento dei matrimoni contratti da quelle persone. Infatti Agostino dice che non li si deve sciogliere (27, quest. I, cap. Nuptiarum) e la sua autorità nella chiesa non è di poco conto, anche se altri in seguito la pensarono diversamente<ref>La citazione di Agostino, tratta dal Decr. Grat. (11. C. 27. q. 1, c. 41), si trova nel De bono yiduitatis. c. 9: PL 40. 437s.</ref>.

Per quanto il comandamento di Dio sul matrimonio sembri liberare un buon numero dai voti, tuttavia i nostri adducono anche un altro motivo per cui i voti sono invalidi: ed è che ogni atto di culto a Dio istituito dagli uomini senza un ordine di Dio e scelto per meritare la giustificazione e la grazia, è un’empietà, come dice Cristo: «Invano mi rendono il culto con precetti di uomini» [ 15.9]. Anche Paolo insegna ovunque che non bisogna cercare la giustizia mediante le nostre pratiche e i nostri atti di culto, poiché queste cose sono state inventate da gli uomini, ma che la giustizia è attribuita per fede a coloro che credono di essere ricevuti nella grazia da Dio per l’opera di Cristo.

È pure noto che i monaci hanno insegnato che le loro pratiche artificiose avrebbero dato soddisfazione per i peccati, meritato la grazia e la giustificazione. Cos’altro è questo se non uno sminuire la gloria di Cristo, oscurare e negare la giustizia che proviene dalla fede? Ne consegue dunque che codesti voti entrati nell’uso sono stati degli atti di culto empi e sono per tanto invalidi. Infatti un voto empio e contrario ai comanda menti di Dio non ha alcun valore; poiché il voto non deve essere un vincolo che conduce all’iniquità, come dice il canone<ref>Decr. Grar. 11. C. 22, q. 4. c. 22.</ref>.

Paolo afferma: «Voi che volete essere giustificati per la legge, avete rinunciato a Cristo; siete scaduti dalla grazia» [5:4]. Quindi anche coloro che vogliono essere giustificati per i loro voti hanno rinunciato a Cristo e scadono dalla grazia. Per ciò anche coloro che attribuiscono ai voti la giustificazione, attribuiscono alle proprie opere quel che appartiene soltanto alla gloria di Cristo.

E in verità non si può negare che i monaci abbiano insegnato che, mediante l’osservanza dei loro voti e delle regole della vita monastica, essi sarebbero giustificati e meriterebbero la remissione dei peccati; anzi hanno inventato cose ancora più assurde, vantandosi di applicare ad altri le loro buone opere. Se qualcuno volesse metterne in rilievo tutti gli aspetti negativi, senza alcun riguardo, quante cose potrebbe ci tare di cui i monaci stessi oggi si vergognano! Oltre a ciò con vinsero pure i fedeli che le loro pratiche artificiose fossero lo stato di perfezione cristiana: e questo non equivale forse ad attribuire la giustificazione alle opere? Ed è uno scandalo di non lieve portata nella chiesa proporre al popolo una determinata forma di culto inventata dagli uomini, senza ordine di Dio, e insegnare che tale culto possa giustificare gli uomini al cospetto di Dio!

Così infatti la giustizia che proviene dalla fede (che è necessario sia insegnata come prima cosa nella chiesa) viene oscurata, mentre invece quelle mirabolanti pratiche religiose da «angeli», quella simulazione di povertà, di umiltà e di celibato, sono ampiamente propagandate dinanzi agli occhi de gli uomini!

Inoltre, quando i fedeli sentono dire che solo i monaci sono nello stato di perfezione, vengono lasciati nell’ombra i comandamenti di Dio e il vero culto che gli è dovuto. La perfezione cristiana, infatti, consiste nel temere seriamente Dio e, d’altra parte, nell’aprire l’animo ad una grande fede e confidare, per l’opera di Cristo, che siamo stati riconciliati con Dio; nel chiedere aiuto a Dio e attendercelo con certezza in tutte le cose che dobbiamo fare secondo la nostra vocazione, e intanto nel compiere diligentemente, agli occhi di tutti, le buone opere e impegnarci nella nostra vocazione. In queste cose è la vera perfezione e il vero culto di Dio, non nel celibato o nella mendicità o nel portare vesti consunte.

Perciò il popolo si è fatto molte idee dannose ascoltando quei falsi panegirici sulla vita monastica. Sente lodare fuor di misura il celibato: e pertanto vive il matrimonio con forti scrupoli di coscienza. Sente dire che solo chi vive di elemosine è perfetto: e pertanto possiede i suoi beni ed esercita attività economiche con grossi scrupoli di coscienza. Sente dire che il consiglio evangelico è di non vendicarsi: e pertanto alcuni, nella loro vita privata, non esitano a vendicarsi, poiché sentono dire che il divieto della vendetta è un «consiglio» non un comandamento. Altri invece cadono in un errore ancora più grave perché sono convinti che ogni magi stratura e ogni carica civile siano indegne dei cristiani e contrastino con il consiglio evangelico.

Si raccontano così i casi di certi uomini che, dopo aver abbandonato moglie e figli, o la gestione degli affari pubblici, si sono rinchiusi nei conventi. E la chiamavano fuga dal mondo e ricerca di un modo santo di vivere; non capivano che si deve servire Dio in quegli incarichi che egli stesso ci ha dato e non in quelli inventati dagli uomini. Buono e perfetto è il genere di vita che ha come fondamento l’ordine di Dio. E necessario dunque istruire bene il popolo su queste cose.

Prima di questi ultimi tempi, anche Gerson biasimava l’errore dei monaci e, a proposito della perfezione, attesta che ai suoi tempi era nuova la diceria che la vita monastica fosse lo stato di perfezione<ref>Cf. in particolare, il De consiliis evangelicis ci stato perJectionis. in Opera. lI, 680.</ref>.

Quante empie opinioni sono collegate ai voti monastici! Si dice che essi rendano giusti, che siano la perfezione cristiana, che i monaci ottemperino sia ai «consigli» sia ai «precetti» evangelici, che dispongano di meriti supererogatori<ref>«Supererogatorie» sono ritenute le opere compiute dai santi i cui meriti possono essere attribuiti ad altri</ref>. Ma dato che tutte queste cose sono false e vuote, rendono invalidi i voti monastici.

Note