Corsi/Essere cristiani/48

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Indice generale

Essere cristiani (J. I. Packer)

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Il Credo, o Simbolo apostolico. Credo in Dio padre onnipotente, creatore del cielo e della terra. E in Gesù Cristo, suo figlio unigenito, Signor nostro, il quale fu concepito di Spirito santo, nacque da Maria vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto. Discese nel soggiorno dei morti, il terzo giorno risuscitò, salì al cielo, siede alla destra di Dio, padre onnipotente.  Di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito santo, la santa chiesa universale, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione dei corpi e la vita eterna. Amen.

Cuore a cuore

48. …e la gloria

Nel Nuovo Testamento, la parola “gloria” contiene in sé stessa due significati strettamente uniti l’uno all’altro, ciascuno dei quali presuppone l’altro. Il primo è il fatto manifesto che Dio è sommamente degno, come Creatore, d’essere lodato; il secondo è la lode che questo suscita dalle Sue creature, vale a dire la Sua gloria implicita e quella che riceve dalle Sue creature. Quali di questi significati debba avere la preminenza dipende se ci si riferisce alla gloria che Dio ha e manifesta e dà, oppure se ci si riferisce a quella che gli è accordata. Se noi, infatti, con gratitudine, benediciamo il Dio che nella Sua grazia ci ha benedetto, questo significa glorificare Chi in questo stesso momento ci glorifica rimodellandoci all’immagine di Cristo (vedi 2 Co. 3:18; Ef. 1:3; cfr. Ro. 1:21 con 8:17,30). Ciò per il quale, però, gli uomini danno gloria a Dio, è sempre già qualcosa di glorioso, mentre le glorie che Dio manifesta all’uomo, sono sempre intese a suscitare la lode.

Una gloria manifesta

Nell’Antico Testamento, Dio manifestava la Sua gloria in tipica forma visiva, come uno splendore di luce che suscitava timore e meraviglia (la shekinah, come la chiamava il tardo Giudaismo). Questo era il segno della Sua presenza benefattrice sia nel tabernacolo del deserto che nel tempio (Es. 40:34; 1 Re 8:10ss). La rivelazione essenziale e permanente della gloria di Dio, però, si manifestava nei Suoi grandi atti di meritato giudizio e d’immeritato amore, come pure nel Suo “nome” – che non era una semplice etichetta, come i nostri nomi, ma una manifestazione della natura e del carattere di Dio. Jahweh (o Geova, come si diceva un tempo), significa “io sono (e sempre sarò) ciò che io sono (e sempre sarò)” (v. Es. 3:13-15), e la piena affermazione del “nome” di Dio dichiara precisamente ciò che Egli è e sempre sarà. Questa affermazione era stata fatta a Mosè. Quando Mosè aveva chiesto a Dio: “Fammi vedere la Tua gloria”, Iddio gli aveva risposto non solo con una manifestazione visiva, ma pure dichiarando: «Il SIGNORE! il SIGNORE! il Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, ricco in bontà e fedeltà, che conserva la sua bontà fino alla millesima generazione, che perdona l'iniquità, la trasgressione e il peccato ma non terrà il colpevole per innocente; che punisce l'iniquità dei padri sopra i figli e sopra i figli dei figli, fino alla terza e alla quarta generazione!» (Es. 33:18-34:7). Questo carattere morale è essenziale alla gloria di Dio.

Così, quando la Parola divenne carne nell’umiltà della condizione umana, essendosi svuotata della gloria che condivideva con Dio Padre prima della Creazione, lo stupefacente splendore della shekinah era nascosto, salvo che nell’avvenimento isolato della trasfigurazione. Ciononostante i discepoli di Gesù potevano testimoniare e dire: “E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come d’unigenito dal Padre” (Gv. 1:14; cfr. 17:5; Fl. 2:7). Altrettanto grande quanto la gloria fisica della luce della shekinah, la gloria morale dell’amore redentore di Dio è ancora più grande. Coloro che oggi Iddio illumina per comprendere l’Evangelo, non vedono mai la shekinah, ma contemplano la gloria di Dio che rifulge sul volto di Gesù Cristo (2 Co. 4:6).

Una gloria accordata

Quando nella dossologia tradizionale del Padre nostro, noi attribuiamo la gloria, insieme alla sovranità regale, a Dio, per sempre, noi diciamo a Dio (e rammentiamo a noi stessi), dapprima che Egli, il nostro Creatore e Redentore è, e sarà sempre, glorioso in tutto ciò che compie, specialmente nei Suoi atti di grazia (“noi Ti ringraziamo per la Tua gran gloria). In secondo luogo noi consacriamo noi stessi, ora e per sempre, a adorarlo per tutto questo (“Sia gloria a Dio nell’alto dei cieli”). La dossologia, quindi, fa terminare il Padre nostro nella lode, proprio come la stessa vita cristiana deve fare. Infatti, sebbene le nostre richieste terminino in questa vita, il felice compito di dare gloria a Dio durerà per tutta l’eternità.

Gloria a chi?

Mettiamo ora alla prova le nostre qualità spirituali.

Il principio del peccato nell’uomo (che rappresenta l’immagine in lui del diavolo) è questo: la gloria non appartiene a Dio, ma a me. Di conseguenza, noi facciamo sfoggio di quello che noi pensiamo come la nostra gloria, tanto che coloro che ci guardano e ci ammirano possano glorificarci. Questo è un aspetto della nostra arroganza: si chiama vanità. Le persone vane si pavoneggiano affinché gli altri possano ammirarle: fattezze fisiche, abiti, capacità, posizione, influenza, casa, cervello, conoscenze, o qualunque cosa di cui essi siano fieri. Si aspettano di essere applaudite, e si sentono risentite ed offese se la gente non risponde loro come si aspettano e ne siano impressionate.

I cristiani, però, sanno che la vanità è una menzogna, perché presume che dovremmo essere noi ad essere lodati ed ammirati per ciò che noi siamo, e questo non è così. La fede cristiana ci insegna non a far finta di non avere quelle qualità che sappiamo molto bene di avere, ma a riconoscere che tutto ciò che abbiamo è un dono che Dio ci ha fatto, tanto che Egli, e non noi, dovrebbe essere lodato e ammirato per esso.

La verifica che dobbiamo fare è quella di chiederci quanto diventiamo compiaciuti o dispiaciuti se Dio – e non noi – è lodato. Il cristiano maturo non si aspetta che gli si dia personalmente gloria, ma gli dispiace moltissimo che non si glorifichi Iddio. A Richard Baxter, il puritano, il famoso scrittore devozionale del suo tempo, dispiaceva quando i visitatori lo lodavano per i suoi libri. Diceva: “Non sono altro che una penna nelle mani di Dio, e che lode si può mai fare ad una penna?”. Questo mostra quale dev’essere la mentalità del cristiano maturo. In ogni momento egli è pronto a dire: “Date gloria a Dio, perché a Lui e solo a Lui è dovuta”. Che cosa direbbe di noi stessi questa verifica?

Per lo studio biblico ulteriore

La via della dossologia: Ro. 11:33-36; Ef. 3:20ss; 1 Ti. 6:13-16; Eb. 13:20ss; Giuda 24ss; Ap. 1:4-7.

Domande per la riflessione e la discussione

  • Quali sono i due significati del termine “gloria” e quale rapporto vi è fra loro?
  • Che cos’ha a che fare il carattere di Dio con la Sua gloria?
  • Forse che la nostra capacità di vedere la gloria di Dio è limitata per l’assenza della shekinah?
  • Perché si, o perché no?

(15, continua)