Escatologia/Il castigo eterno

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Il castigo eterno

La Bibbia rende chiara testimonianza al fatto che il peccato è un’infrazione alla legge divina e che esso merita un giusto castigo (Da. 12:2; Mt. 10:15; Gv. 5:28,29; Ro. 5:12-21). La durata di questo castigo è talvolta espressa nel NT dall’uso di aion od uno dei suoi derivati (es. Mt.18:18; 25:41; 46; 2 Ts. 1:9). Aion significa “un’età”, ed era usato per “età a venire” che non terminerà mai, che generò l’aggettivo aionion con il significato di “eterno”, “senza fine”. Queste parole sono usate per “il Re eterno” (2 Ti. 1:17), “l’eterno Iddio” (Ro. 16:26), e quando si attribuisce a Dio una gloria eterna, (Egli è il “benedetto in eterno” 2 Co. 11:31). Il concetto di durata eterna non potrebbe essere espresso meglio: l’uso di queste espressioni per denotare l’eternità di Dio mostrano chiaramente come esse non significano una durata limitata. E’ importante che lo stesso aggettivo sia usato sia per il castigo eterno, sia per la vita eterna: “Questi se ne andranno a punizione eterna; ma i giusti a vita eterna” (Mt. 25:46). Il castigo è altrettanto eterno che la vita. L’uno non è più limitato dell’altro.

Un’idea simile è espressa con l’uso di una terminologia diversa. Gesù disse: “Se la tua mano ti fa cadere in peccato, tagliala; meglio è per te entrare monco nella vita, che avere due mani e andartene nella geenna, nel fuoco inestinguibile” (Mr. 9:43; cfr. Lu. 3:17), e ancora: “Se l'occhio tuo ti fa cadere in peccato, cavalo; meglio è per te entrare con un occhio solo nel regno di Dio, che avere due occhi ed essere gettato nella geenna, dove il verme loro non muore e il fuoco non si spegne” (Mr. 9:47,48). Gesù parla della necessità di temere Dio, perché Lui “… dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella geenna. Sì, vi dico, temete lui” (Lu. 12:5). Egli disse che esiste un peccato che non prevede perdono: “A chiunque parli contro il Figlio dell'uomo, sarà perdonato; ma a chiunque parli contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato né in questo mondo né in quello futuro” (Mt. 12:32). Allo stesso modo Giovanni scrive: “Chi crede nel Figlio ha vita eterna, chi invece rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l'ira di Dio rimane su di lui” (Gv. 3:36). Le terribili ammonizioni di Gesù implicano un castigo dal carattere permanente. Egli parla di una porta definitivamente chiusa (Mt. 25:10), di “essere gettati nelle tenebre di fuori” (Mt. 8:12; cfr. Lu. 12:28), di “una grande voragine” (Lu. 16:26). Spesso non ci si rende conto di come Gesù parli dell’inferno più di chiunque altro nel Nuovo Testamento, ed in nessuno di questi brani vi è il minimo accenno che si tratti di qualcosa di reversibile.

Si potrebbero citare altri testi, ma contro le ampie evidenze nel Nuovo Testamento che vi sarà un castigo permanente per il peccatore non possiamo trovare nemmeno un detto che implichi che il castigo dell’impenitente possa avere termine. Coloro che vorrebbero trovare nel Nuovo Testamento un insegnamento differente devono indicare possibili deduzioni e interpretazioni alternative. Se Gesù avesse voluto insegnare qualcosa di diverso dalla retribuzione eterna, è curioso che Egli non abbia lasciato indicazione alcuna che chiaramente lo affermi. Nel Nuovo Testamento non c’è indicazione alcuna che possa cessare la punizione del peccatore.

Alla luce della croce possiamo essere certi che la misericordia di Dio si estende fintanto che essa può. Dio fa tutto il possibile per la salvezza della creatura umana. Oltre a questo, e l’insegnamento sulla permanenza del destino dell’empio, noi non possiamo andare. La realtà è spesso più dura ancora di quanto noi ci si possa immaginare. Bisogna rammentarci, poi, che la Bibbia usa necessariamente termini simbolici quando si riferisce a realtà ultraterrene. Le immagini che i cristiani hanno teso ad accentuare è quello di “Geenna del fuoco” (Mt. 5:22). Vi sono pure riferimenti, però, al “fuoco inestinguibile” (Mr. 9:43), “le tenebre di fuori” (Mt. 8:12), il “verme” che non muore (Mr. 9:48), “pianto e stridore di denti” (Lu. 13:28), “risurrezione di giudizio” (Gv. 5:29), il “giudizio della geenna” (Mt. 23:33), al ricevere “molte percosse” (Lu. 12:47), all’essere “perduto” (Mt. 10:6), a “quelli che periscono” (1 Co. 1:18), alla “morte” come salario del peccato (Ro. 6:23), al “perdere” la propria vita (Lu. 9:24). Con tale varietà di termini, non è saggio forzare sulla Bibbia ciò che essa chiaramente ed in più posti contraddice. Dobbiamo guardarci dalle semplificazioni: è impossibile immaginarci esattamente ciò che è descritto in modo così vario, ma dovremmo pure guardarci da quel sentimentalismo che ci spinge ad annacquare tali espressioni. Che la Scrittura parli di una realtà dai tratti spaventosi e permanenti non c’è dubbio.

Sin dal principio, però, alcuni cristiani hanno respinto questa dottrina. Origene, padre della Chiesa, scrive che alla fine tutti saranno salvati. Tali concezioni non attrassero vasto seguito se non nei tempi moderni. Un gruppo di poeti nel 19° secolo rese popolare questa linea (cfr. Tennyson e “la vasta speranza”), ed in quest’ultimo secolo l’universalismo è accettato ampiamente.

La ragione di fondo è che non è facile riconciliare l’idea di inferno con quella dell’amore di Dio. Si sostiene che l’amore di Dio sarebbe sconfitto se solo un peccatore fosse lasciato a soffrire per l’eternità. Un tale approccio deve essere trattato con rispetto, ma non sik trova nelle Scritture. Si adducono alcuni brani come quelli che esprimono la disponibilità di Dio verso di tutti (1 Ti. 2:4; 2 Pi. 3:9), lo scopo universale della croce (2 Co. 5:19; Cl. 1:20; Tt. 2:11; Eb. 2:9; 1 Gv. 2:2) e l’ampio raggio dell’opera redentrice di Cristo (Gv. 12:32; Ro. 5:18; Ef. 1:10). Interpretare, però, questi testi come se volessero dire che alla fine tutti saranno salvati, significa andare oltre a ciò che dicono questi scrittori ed ignorare il fatto che nel loro contesto di solito ci sono chiari riferimenti alla condanna comminata da Dio sui malvagi, od alla separazione finale fra bene e male, o simili.

Un’altra idea è che l’uomo sia solo potenzialmente immortale. Se egli ripone la sua fiducia in Cristo ed accede alla salvezza, egli ottiene vita eterna. Se non lo fa, egli semplicemente muore e scompare del tutto. Questo potrebbe accordarsi con brani che parlano della “morte” come del destino dell’empio, ma non con quelli che parlano della Geenna o simili. Se vogliamo essere fedeli all’insegnamento complessivo della Scrittura, dobbiamo giungere alla conclusione che il destino ultimo dell’empio è il castigo eterno, sebbene dobbiamo aggiungere che non abbiamo modo di sapere esattamente in che cosa consista questo castigo.

 

Leon Morris, in “Evangelical Dictionary of Theology”, a cura di W. A. Elwell, Baker Book House, Grand Rapids, Michigan, 1991, p. 370