Letteratura/Conforto del cristiano/Sapersi accontentare

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Il conforto del cristiano, di A. W. Pink, cap. 16

Sapersi accontentare

"Ho imparato ad esser contento nello stato in cui mi trovo" (Filippesi 4:11).

Il malcontento! C'è mai stato un tempo in cui c'era così tanta irrequietezza nel mondo come ce n’è oggi? Ne dubitiamo molto. Nonostante il nostro vantato progresso, il vasto aumento della ricchezza, il tempo e il denaro spesi quotidianamente nel piacere, il malcontento è ovunque. Nessuna classe è esente. Tutto è in uno stato di mutamento e quasi tutti sono insoddisfatti. Molti anche tra il popolo di Dio sono colpiti dallo spirito malvagio di quest'epoca.

Sapersi accontentare! Una cosa del genere è realizzabile, o non è altro che un bellissimo ideale, un mero sogno del poeta? È raggiungibile sulla terra o è limitato agli abitanti del cielo? E’ possibile qui e ora praticarlo? Alcuni brevi momenti o ore di appagamento sono il massimo che possiamo aspettarci in questa vita? Domande come queste trovano risposta, almeno una risposta, nelle parole dell'apostolo Paolo: «Non lo dico perché io mi trovi in bisogno; giacché ho imparato ad essere contento nello stato in cui mi trovo» (Filippesi 4,11).

La forza dell'affermazione dell'apostolo sarà meglio apprezzata se si tiene conto della sua condizione e delle circostanze al momento in cui l’aveva espressa. Quando l'apostolo scrive (o molto probabilmente detta) quelle parole, non si stava godendo una speciale suite nel palazzo dell'imperatore, né veniva ospitato in qualche famiglia cristiana di grandi risorse, i cui membri erano caratterizzati da insolita pietà. Invece era «in catene» (cfr. Filippesi 1:13-14); era "prigioniero" (Efesini 4:1), come dice in un'altra lettera. Ciononostante, si dichiara soddisfatto!

Ora, c'è una grande differenza tra precetto e pratica, tra l'ideale e la sua realizzazione. Ma nel caso dell'apostolo Paolo il suo accontentarsi era un'esperienza reale, e doveva essere continua, perché dice, "nello stato in cui mi trovo”, in qualunque stato lui fosse.

Come allora Paolo è faceva questa esperienza. In che cosa consisteva? La risposta alla prima domanda si trova nella parola: "Ho imparato ... ad essere contento". L'apostolo non dice: "Ho ricevuto il battesimo dello Spirito, e quindi posso essere contento. Né attribuisce questa benedizione alla sua perfetta "consacrazione". Altrettanto chiaro è che non era il risultato di una sua disposizione naturale o del suo temperamento. È qualcosa che aveva imparato alla scuola dell'esperienza cristiana. Va anche notato che questa affermazione si trova in un'Epistola che l'apostolo scrive verso la fine della sua carriera terrena!

Da quanto abbiamo rilevato, dovrebbe risultare evidente che la contentezza di cui godeva Paolo non era il risultato di un ambiente congeniale e confortevole. E questo dissipa subito una concezione volgare. La maggior parte delle persone suppone che l'appagamento sia impossibile a meno che non si siano soddisfatti i desideri del nostro cuore carnale. Una prigione è l'ultimo posto in cui andrebbero se cercassero un uomo contento della sua condizione. Questo, dunque, è chiaro: la contentezza viene dall'interno, non dall'esterno; va cercata da Dio, non nelle comodità delle creature.

Ma cerchiamo di andare un po' più a fondo. Che cos'è questo "sapersi accontentare"? È l'essere soddisfatto di ciò che sovranamente la provvidenza di Dio ha disposto per noi. È l'opposto del mormorare, che è lo spirito di ribellione: l'argilla che dice al Vasaio: "Perché mi hai fatto così?". Invece di lamentarsi della sua sorte, un uomo contento è grato che le sue condizioni e le sue circostanze non siano peggiori di come sono. Invece di desiderare avidamente qualcosa di più di ciò che riceve per il suo attuale bisogno, si rallegra che Dio si prenda ancora cura di lui. Una tale persona è "contenta" di ciò che ha, come dice la lettera agli ebrei: “… siate contenti delle cose che avete; poiché Egli stesso ha detto: Io non ti lascerò, e non ti abbandonerò” (Ebrei 13:5).

Uno degli ostacoli fatali al sapersi accontentare è la cupidigia, che è un cancro che mangia e distrugge la soddisfazione presente. Non è dunque senza ragione che nostro Signore aveva dato ai suoi seguaci il solenne comandamento: “Badate e guardatevi da ogni avarizia; perché non è dall'abbondanza dei beni che uno possiede, che egli ha la sua vita”, tradotta anche come “cupidigia” (Luca 12:15). Poche cose sono più insidiose.

Spesso si pone sotto il bel nome di parsimonia, ovvero la saggia salvaguardia dell'economia futura per prepararsi ai "giorni di vacche magre". La Scrittura dice: “Fate dunque morire le vostre membra che son sulla terra: fornicazione, impurità, lussuria, mala concupiscenza e cupidigia, la quale è idolatria” (Colossesi 3:5), cioè l'affetto del cuore rivolto alle cose materiali piuttosto che a Dio. Il linguaggio di un cuore avido è quello espresso dal versetto di Proverbi che dice: “La sanguisuga ha due figlie, che dicono: 'Dammi' 'dammi!” (Proverbi 30:15). L'uomo avido desidera sempre di più, che abbia poco o molto. Quanto sono diverse le parole dell'apostolo: "… avendo di che nutrirci e di che coprirci, saremo di questo contenti" (1 Timoteo 6:8). Una parola tanto necessaria è quella di Luca 3:14: "contentatevi della vostra paga!”. “La pietà con animo contento del proprio stato, è un gran guadagno” (1 Timoteo 6:6). Negativamente, libera dalla preoccupazione e dalla frenesia, dall'avarizia e dall'egoismo. In positivo, ci lascia liberi di godere di ciò che Dio ci ha dato.

Che contrasto si trova nella parola che segue: “…. quelli che vogliono arricchire cadono in tentazione, in laccio, e in molte insensate e funeste concupiscenze, che affondano gli uomini nella distruzione e nella perdizione. Poiché l'amore per il denaro è radice d'ogni sorta di mali; e alcuni che vi si sono dati, si sono sviati dalla fede e si son trafitti di molti dolori” (1 Timoteo 6:9-10). Dobbiamo chiedere al Signore che nella sua grazia ci liberi dallo spirito di questo mondo e ci renda "contenti di ciò che abbiamo”.

Il sapersi accontentare, quindi, è il prodotto di un cuore che riposa in Dio. È il godimento dell'anima di quella pace che supera ogni comprensione. È il risultato del fatto che la mia volontà è stata assoggettata alla volontà divina. È la benedetta certezza che Dio fa tutte le cose bene e, anche ora, sta facendo cooperare tutte le cose insieme per il mio bene ultimo.

Questa esperienza deve essere «imparata». Infatti: « … siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà» (Romani 12:2). Ci sapremo accontentare solo se coltiviamo e manteniamo quell'atteggiamento di accettare tutto ciò che entra nella nostra vita come proveniente dalla Mano di Colui che è troppo saggio per sbagliare e troppo amorevole per causare una lacrima inutile a uno dei Suoi figli.

La nostra ultima parola sia questa: il vero appagamento è possibile solo stando molto alla presenza del Signore Gesù. Questo risulta chiaramente nei versetti che seguono il nostro testo di apertura: “Io so essere abbassato e so anche abbondare; in tutto e per tutto sono stato ammaestrato ad essere saziato e ad aver fame; ad esser nell'abbondanza e ad essere nella penuria. Io posso ogni cosa in Colui che mi fortifica” (Filippesi 4:12, 13). È solo coltivando l'intimità con Colui che non è mai stato scontento che saremo liberati dal peccato di lamentarci. È solo attraverso la comunione quotidiana con Colui Che si è sempre compiaciuto della volontà del Padre che impareremo il segreto del saperci accontentare. Possa lo scrittore e il lettore contemplare così nello specchio della Parola la gloria del Signore che saremo «trasformati nella stessa immagine di lui, di gloria in gloria, secondo che opera il Signore, che è Spirito» (2 Corinzi 3:18).