Letteratura/Istituzione/2-05

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Indice generale

Istituzioni della religione cristiana (Calvino)

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CAPITOLO V

GLI ARGOMENTI PORTATI A DIFESA DEL LIBERO ARBITRIO SONO PRIVI DI VALORE

1. Potremmo considerare sufficientemente dibattuto il problema della servitù dell'animo umano, se argomentazioni contrarie non venissero addotte da coloro che cercano di sedurlo con una falsa concezione della libertà.

In primo luogo vengono raccolte alcune assurdità per fare apparire odiosa questa servitù, quasi ripugnasse al senso comune. Si ricorre poi alla testimonianza della Scrittura. Risponderemo seguendo lo stesso ordine.

Essi argomentano, dunque, che se il peccato è commesso necessariamente non è più peccato; e se è volontario si può evitare. Con quest'arma Pelagio combatteva contro sant'Agostino; pure queste tesi vanno prese in considerazione finché non siano state refutate.

Io nego che il peccato cessi di essere considerato tale per il fatto che è inevitabile. Nego d'altra parte che si possa concludere che, considerandolo volontario, lo si possa evitare. Qualcuno volendo criticare Dio, ricorre al sotterfugio di pretendere l'impossibilità a fare altrimenti? La risposta è pronta: se gli uomini, asserviti come sono al peccato, l'abbiamo già detto, non possono che volere il male, questo non deriva dalla loro creazione originaria, ma dalla corruzione che è sopravvenuta. Donde viene l'infermità di cui i malvagi si prevarrebbero volentieri, se non da Adamo che spontaneamente si è sottomesso alla tirannia del Diavolo? Questa è l'origine della perversità che ci tiene tutti vincolati nei suoi lacci: il primo uomo si è ribellato al suo Creatore. Se tutti sono considerati a buon diritto colpevoli di tale ribellione, non pensino di giustificarsi con la scusa della necessità, nella quale è la causa evidentissima della loro condanna. Questo l'ho illustrato precedentemente ed ho citato l'esempio dei diavoli, dal quale risulta che chi pecca per necessità non cessa di peccare volontariamente; come inversamente, sebbene gli angeli abbiano una volontà che non può declinare dal bene, essa non cessa peraltro di essere volontà. Questo è stato rettamente inteso da san Bernardo, il quale dice che siamo tanto più miserabili in quanto la necessità è volontaria: ed essa tuttavia ci costringe sotto il suo giogo, di sorta che siamo servi del peccato.

La seconda parte della loro argomentazione, vale a dire la pretesa che quanto è compiuto volontariamente sia compiuto in piena libertà, non è valida. Abbiamo precedentemente dimostrato che molte azioni sono compiute volontariamente pur senza essere scelte liberamente.

2. Inoltre i nostri avversari sostengono che se i vizi e le virtù non dipendono dalla libera scelta, non ha senso che l'uomo ne sia remunerato oppure punito. Questa considerazione è ripresa da Aristotele ed è talvolta utilizzata, lo riconosco, da san Crisostomo e da san Girolamo. Girolamo non nasconde che essa è corrente presso i Pelagiani e cita queste loro parole: Se la grazia di Dio agisce in noi, essa sarà remunerata e non noi che non operiamo. Per quanto riguarda le punizioni di Dio contro il malfatto, faccio notare che esse ci sono inflitte giustamente perché la colpa del peccato risiede in noi. Poco importa se pecchiamo per determinazione libera o condizionata dato che lo facciamo per cupidità volontaria; l'uomo si riconosce peccatore in quanto vive sotto la servitù del peccato.

D'altra parte, quale assurdità parlare di premio per il vivere bene, se riconosciamo che esso ci viene attribuito dalla benignità di Dio e non per i nostri meriti! Molte volte sant'Agostino ripete che Dio non corona i nostri meriti, bensì i suoi doni in noi, e che il salario che riceviamo non è definito in questo modo perché sia dovuto ai nostri meriti, ma perché è dato quale retribuzione delle grazie precedentemente conferiteci. Essi comprendono rettamente che i meriti non hanno più ragion d'essere se non procedono dalla forza propria dell'uomo. Stupirsene è ridicolo!

Sant'Agostino non teme di proporre come realtà certa quanto essi considerano così irragionevole. Egli dice: "Quali sono i meriti di tutti gli uomini? Gesù Cristo viene non con un salario dovuto ma con la sua grazia gratuita e li trova tutti peccatori; egli che è libero da ogni peccato e che libera gli altri"; e: "Se ti fosse dato il dovuto, dovresti essere punito. Ma cosa avviene? Dio non ti rende la pena che ti era dovuta, ma ti dà la grazia che non ti spettava affatto. Se vuoi escluderti dalla grazia di Dio, vantati dei tuoi meriti"; e ancora: "Da solo non sei nulla, i peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio. Devi essere punito e quando Dio ti darà il salario della vita, coronerà i suoi doni, non i tuoi meriti". In questo senso altrove insegna che la grazia non viene dal merito, ma il merito viene dalla grazia. E subito dopo conclude che Dio precede tutti i meriti con i suoi doni affinché i suoi altri meriti seguano; che egli dà completamente e gratuitamente quanto dà, perché non c'è nessuna ragione per salvarci. Ma è superfluo continuare in questa enumerazione, dato che i suoi scritti sono pieni di queste affermazioni.

L'Apostolo stesso li libererà da questa idea assurda e fole se vorranno prendere in considerazione i princìpi da cui egli deduce la nostra felicità e la gloria eterna da noi attesa: "Quelli che Dio ha eletti" egli dice "li ha pure chiamati: quelli che ha chiamati, li ha pure giustificati: e quelli che ha giustificati, li ha pure glorificati", (Ro 8.30). Perché dunque i credenti sono incoronati? Perché sono stati eletti, chiamati e giustificati dalla misericordia del Signore e non per il loro impegno.

Si superi dunque questa paura assurda che non vi sarà più alcun merito senza il libero arbitrio. : È stoltissimo voler cercare di sfuggire alle conclusioni cui ci conduce la Scrittura: "Se hai ricevuto ogni cosa" dice san Paolo "perché ti glorifichi come se non l'avessi affatto ricevuta?" (1 Co. 4.7). Vediamo che toglie ogni forza al libero arbitrio, per distruggere tutti i meriti. Tuttavia Dio è ricco e generoso nella benevolenza e la sua generosità non si esaurisce mai: egli dunque rimunera le grazie che ci ha conferito come se fossero virtù provenienti da noi, perché dandocele, le ha fatte nostre.

3. Successivamente sollevano una obbiezione, che sembra essere ripresa da san Crisostomo: se non fosse in nostro potere scegliere il bene o il male, tutti gli uomini dovrebbero essere buoni oppure cattivi, dato che hanno la stessa natura. Con questo concorda l'affermazione dell'autore del libro Della vocazione dei Gentili, attribuito a sant'Ambrogio, secondo cui nessuno mai perderebbe la fede se la grazia di Dio non lasciasse alla volontà dell'uomo possibilità di modificarsi.

Mi meraviglio che a questo proposito personaggi così illustri siano caduti in errore. Come infatti non è venuto in mente a Crisostomo che è l'elezione di Dio a discriminare gli uomini? Non dobbiamo vergognarci di dichiarare quanto san Paolo afferma con tanta certezza: tutti sono perversi e dediti alla malvagità (Ro 3.10); ma aggiungiamo anche, assieme a lui, che la divina misericordia aiuta alcuni, onde non tutti rimangano nella perversione. Così dunque per natura siamo tutti colpiti dalla stessa malattia e ne sono esenti solo quelli che Dio si compiace di guarire. Gli altri, abbandonati per il suo giusto giudizio, rimangono nel proprio marciume fino alla consumazione. Ecco perché alcuni perseverano fino alla fine, altri vengono meno a metà strada. La perseveranza infatti è un dono che Dio non elargisce a tutti indiscriminatamente, ma solo a chi vuole. Non si troverà altra ragione di questa differenza, per cui gli uni perseverano e gli altri sono instabili; i primi sono sostenuti dalla forza di Dio, onde non periscano: i secondi non hanno la stessa forza, perché egli vuol mostrare in loro l'esempio della incostanza umana.

4. Obbiettano anche che tutte le esortazioni sono superflue, gli ammonimenti sono ridicoli, o inutili qualora il peccatore non abbia la possibilità di ottemperarvi.

Queste osservazioni furono rivolte, nel passato, a sant'Agostino che si vide costretto a pubblicare il libro intitolato: Della correzione e della grazia. Quivi, pur rispondendo ampiamente a tutto, riassume la questione in questi termini: "O uomo, riconosci nel comandamento ciò che devi fare, nel rimprovero per non averlo fatto, riconosci che la forza ti manca, per colpa tua, pregando Dio riconosci donde devi ricevere quel che ti manca",. Il libro che ha intitolato: Dello Spirito e della lettera sostiene la stessa tesi. Dio non ha commisurato i suoi comandamenti alle forze umane, ma dopo aver ordinato quello che era giusto, dà gratuitamente ai suoi eletti la facoltà di potere ottemperare. Questo punto non richiede ulteriori discussioni.

Prima di tutto non siamo soli a sostenere questa tesi, ma con noi sono Cristo e tutti i suoi apostoli. Badino dunque i nostri avversari a quali antagonisti si fanno incontro! Sebbene Cristo abbia dichiarato che senza di lui non possiamo far nulla (Gv. 15.5) , tuttavia non tralascia di rimproverare quanti fanno il male senza di lui e non tralascia di esortare tutti alle buone opere. Con quale violenza san Paolo riprende aspramente i Corinzi perché non vivevano in spirito di carità (1 Co. 3.3) ! E successivamente prega Dio di renderli caritatevoli.

Dichiara ai Romani che la giustizia non dipende dal volere né dall'affannarsi umano, ma dalla misericordia di Dio (Ro 9.16); tuttavia non tralascia in séguito di ammonirli, esortarli e correggerli. Perché dunque i nostri avversari non invitano il Signore a non sprecare le proprie forze, chiedendo senza scopo agli uomini quello che lui solo può dare e rimproverandoli di quello che fanno per semplice mancanza della sua grazia? Perché non ammoniscono san Paolo a perdonare a coloro che non hanno la volontà di fare il bene dato che senza la misericordia di Dio non si può che sbagliare?

Tutte queste assurdità non hanno ragion d'essere: se considerato con attenzione l'insegnamento divino si rivela, infatti, fondato su solidissime motivazioni.

San Paolo ammette, è vero, che l'insegnamento, le esortazioni e gli incitamenti non servono, da soli, a cambiare il cuore dell'uomo, quando afferma che chi pianta non è nulla, né chi annaffia, ma tutta l'efficacia risiede nel Signore che fa crescere (1 Co. 3.7). Vediamo anche con che severità Mosè prescriva i precetti della Legge; con che insistenza i profeti minaccino i trasgressori; non per questo cessano di riconoscere che gli uomini iniziano a comprendere quando vien loro data l'intelligenza, che è compito proprio di Dio circoncidere i cuori e convertirli da pietra in carne, che egli scrive la sua legge nelle nostre interiora, in breve, che rinnovando le anime nostre egli dà efficacia al suo insegnamento.

5. A cosa servono dunque le esortazioni? domanderà qualcuno. Rispondo che se un cuore ostinato le sprezza, esse gli saranno di testimonianze per convincerlo quando sarà davanti al giudizio di Dio. E la cattiva coscienza ne è toccata e stimolata nella vita presente. Per quanto infatti se ne faccia beffe, non le può invalidare.

Si obbietta: che dunque farà il povero peccatore dato che gli è negata la prontezza del cuore che è necessaria per obbedire? Rispondo: come potrà tergiversare dato che può imputare la durezza del cuore solo a se stesso? Per quanto i malvagi, sebbene vogliano prendere possibilmente alla leggera i precetti e gli avvertimenti di Dio, sono tenuti in scacco dalla potenza divina, lo vogliano oppure no.

Ma l'utilità principale delle esortazioni è nei riguardi dei credenti: il Signore agisce in loro con il suo Spirito, ma adopera anche lo strumento della sua parola e lo adopera con efficacia. Sia dunque chiaro, come deve essere chiaro, che l'unica forza dei giusti è situata nella grazia di Dio, secondo l'affermazione del Profeta: "Darò loro un cuor nuovo per camminare nei miei precetti" (Ez. 11.19) , e se poi qualcuno domanda perché li si incita al loro dovere e non li si abbandona alla guida dello Spirito Santo; perché li si spinge con l'esortazione, dato che non possono essere stimolati più di quanto lo Spirito li spinga; perché li si corregge quando hanno sbagliato, dato che sono necessariamente impediti dall'infermità della loro carne, dobbiamo rispondere: Uomo, chi sei tu da voler imporre la legge a Dio? Se vuole prepararci con l'esortazione a ricevere la grazia di obbedire alla sua esortazione, cosa hai da rispondere o da ribellarti a questo sistema? Se anche le esortazioni non servissero ad altro che a rimproverarci i credenti per i peccati, non dovrebbero essere reputate inutili. Ma dato che esse fruttuosamente infiammano i cuori all'amore della giustizia e inversamente all'odio del peccato, visto che lo Spirito Santo adopera questo strumento esterno per agire all'interno in vista della salvezza dell'uomo, chi oserà respingerle come superflue?

Se poi qualcuno desidera una risposta più chiara, la sintetizzo così: Dio opera in noi in due modi, all'interno con il suo Spirito, all'estero con la sua parola. Illuminando le menti con il suo Spirito, formando i cuori all'amore della giustizia e dell'innocenza, rigenera l'uomo in una nuova creatura. Con la sua parola stimola l'uomo e lo incita a desiderare e cercare questo rinnovamento. Manifesta la potenza della sua mano nell'uno e nell'altro strumento, secondo l'economia della sua dispensazione.

Rivolgendo la stessa parola agli iniqui ed ai reprobi, sebbene essa non li conduca a correggersi, le conferisce tuttavia forza in un altro modo: esercita ora una pressione sulle loro coscienze e nel giorno del giudizio saranno tanto più inescusabili.

Per questo motivo il nostro Signore Gesù, sebbene dichiari che nessuno può andare a lui se non venga guidato dal Padre (Gv. 6.44-45) , non tralascia tuttavia di attuare il suo compito di insegnamento e invita con la sua voce quanti hanno bisogno di essere istruiti dallo Spirito Santo e traggono profitto di quanto odono. Quanto ai reprobi, san Paolo dichiara che la dottrina non è inutile perché per loro essa è odore di morte a morte, pur essendo odor soave dinanzi Dio (2 Co. 2.16).

6. Si affannano a raccogliere valide testimonianze nella Scrittura e sperano di poterci confutare almeno con la quantità delle citazioni non potendo farlo ricorrendo a testi validi e pertinenti. Agiscono come un capitano che, radunando un grande esercito di uomini inadatti alla guerra, si illuda di spaventare il nemico. Bel colpo d'occhio per una parata! Tutti in fuga al primo scontro.

Ci sarà facile rovesciare tutte le obbiezioni di questi avversari non essendo altro che vuota apparenza. I passi che essi citano possono essere raccolti e classificati in alcuni gruppi, li disporremo in ordine e successivamente affronteremo ogni gruppo con una sola risposta, evitando di esaminarli tutti ad uno ad uno.

Il primo grande argomento è dato dai comandamenti di Dio che essi considerano proporzionati alle nostre forze sì che potremmo metterli in pratica. Ne elencano un gran numero e misurano così le forze umane. Ragionano in questi termini: ovvero Dio si beffa di noi quando ci ordina santità, pietà, obbedienza, castità, amore e mansuetudine e ci proibisce impudicizia, idolatria, inverecondia, ira, rapacità, orgoglio e via dicendo, ovvero ci chiede di attuare solo quanto è in nostro potere.

Tutti i comandamenti, cui essi alludono, possono essere raccolti in tre categorie: gli uni prescrivono che l'uomo si converta a Dio, gli altri semplicemente raccomandano l'osservanza della Legge, gli altri ancora prescrivono di perseverare nella grazia di Dio già ricevuta. Esaminiamoli prima tutti in generale, poi dettagliatamente secondo questi tre tipi.

Riconosco che oramai da molto tempo si accetta correntemente di misurare le facoltà dell'uomo sulla base dei comandamenti di Dio e questo ha una parvenza di ragionevolezza. Tuttavia, affermo che questo è frutto di grande ignoranza. Quanti vogliono dimostrare che sarebbe assurdo parlare in questo modo se l'osservanza dei comandamenti fosse impossibile all'uomo, si basano su un ragionamento invalido pretendendo che altrimenti la Legge sarebbe stata data invano. Quasi san Paolo non avesse mai parlato di questo: che significano le affermazioni seguenti: la Legge è stata data per aumentare le trasgressioni (Ga 3.19); dalla Legge viene la conoscenza del peccato (Ro 3.20); la Legge genera il peccato (Ro 7.7); è sopravvenuta per moltiplicare il peccato (Ro 5.20). Intendeva dire che essa doveva corrispondere alle nostre forze per non essere inutile? Al contrario san Paolo mostra in tutti questi passi che Dio ci ha ordinato qualcosa al di sopra della nostra capacità per convincerci della nostra impotenza. Certo lo scopo e il coronamento della Legge è la carità, secondo la definizione che egli stesso ne dà (1 Ti. 1.5); e prega Dio di riempirne il cuore dei Tessalonicesi (1 Ts. 3.12). Con questo significa che la Legge colpirebbe le nostre orecchie invano e senza frutto se Dio non ispirasse nei nostri cuori quanto essa insegna.

7. Se la Scrittura insegnasse che la Legge è solo norma di vita cui devono essere misurate le nostre opere, accetterei volentieri l'opinione dei miei avversari, essa però ce ne rivela molteplici aspetti. È dunque opportuno prestare attenzione a questi piuttosto che alle nostre fantasie.

Per quanto riguarda l'argomento in discussione, non appena la Legge ci ha prescritto quel che dobbiamo fare, immediatamente aggiunge che la capacità di obbedire proviene dalla grazia di Dio. Di conseguenza ci insegna a domandarla in preghiera. Se ravvisiamo nella Legge solo comandamenti, senza promessa alcuna, allora dovremmo mettere alla prova le nostre forze per vedere se sono sufficienti ad adempierli; ma ai comandamenti sono congiunte le promesse ed esse manifestano che abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio e che tutta la nostra forza è nella sua grazia. Esse mostrano dunque che non solo siamo insufficienti ma anche assolutamente incapaci di osservare la Legge.

Non ci si fermi dunque a questa correlazione tra le nostre forze e i comandamenti di Dio; come se egli avesse commisurato la norma di quella giustizia, che voleva stabilire, con la nostra debolezza e la nostra piccolezza! Consideriamo piuttosto alla luce delle promesse di Dio quanto siamo impreparati, dato che in tutto e per tutto abbiamo tanto bisogno della sua grazia. Dio ha forse rivolto la sua legge a dei pezzi di legno o a delle pietre? Nessuno li vuol convincere di questo.

I malvagi non sono né pietre né tronchi quando, resi consapevoli dalla Legge che le loro concupiscenze dispiacciono a Dio, si rendono colpevoli di fronte alle loro stesse coscienze: né i credenti quando, coscienti della propria debolezza, ricorrono alla grazia di Dio. In questo senso sant'Agostino afferma: "Dio comanda quel che non sappiamo fare, onde sappiamo quel che dobbiamo chiedergli", e: "L'utilità dei precetti è grande se si valuta il libero arbitrio in modo che la grazia di Dio ne sia maggiormente onorata", ancora: "La fede chiede quel che la Legge comanda"; infatti la Legge comanda onde la fede chieda quel che la Legge ha comandato. "Dio richiede anche la fede da noi; e non trova quello che chiede fino a quando non l'abbia dato per poterlo trovare": "Dio conceda quel che ordina e ordini quello che vuole,".

8. Questo risulterà più chiaro considerando i tre tipi di comandamenti a cui abbiamo accennato. Spesso il Signore richiede, nella Legge come nei Profeti, che ci convertiamo a luì (Gl. 2.12). Ma il Profeta d'altra parte risponde: "Convertimi, Signore, e sarò convertito. Dopo che mi hai convertito, ho fatto penitenza ecc." (Gr. 31.18). Ci ordina anche di circoncidere il nostro cuore (De 10.16); ma per bocca di Mosè dichiara che questa circoncisione è operata dalla sua mano (De 30.6). Più volte richiede agli uomini un cuor nuovo, ma afferma di essere il solo a poterlo rinnovare (Ez. 36.26). Ora, come dice sant'Agostino, quello che Dio promette, non lo facciamo per natura né per libera scelta, ma egli lo fa con la sua grazia. La quinta regola della dottrina cristiana da lui enunciata consiste nel distinguere chiaramente nella Scrittura tra Legge e promesse, tra comandamenti e grazia. Che diranno ora quanti si richiamano ai comandamenti di Dio per glorificare la potenza umana e sminuire quella grazia di Dio, per mezzo della quale invece i precetti sono osservati?

Il secondo tipo di comandamenti che abbiamo menzionato è semplice: onorare Dio, servire ed accettare la sua volontà, osservare le sue prescrizioni, seguire la sua dottrina. Ma vi sono infinite testimonianze secondo cui tutta la giustizia, santità, pietà, purezza che possediamo sono dono gratuito proveniente da lui.

Quanto al terzo tipo, un esempio ci è dato nell'esortazione di Paolo e Barnaba ai credenti di perseverare nella grazia di Dio (At. 13.43). Ma in un altro passo san Paolo mostra donde provenga questa forza: "State saldi" dice "fratelli miei, mediante la potenza del Signore," (Ef. 6.10). D'altra parte vieta di contristare lo Spirito di Dio, dal quale siamo suggellati in attesa della nostra redenzione (Ef. 4.30). Quanto è qui prescritto, altrove è domandato al Signore in preghiera, non fa dunque parte delle possibilità umane: infatti l'Apostolo supplica il Signore di rendere i Tessalonicesi degni della propria vocazione, di compiere in essi quanto aveva determinato nella sua bontà e di condurre al compimento l'opera della fede (2 Ts. 1.2). Similmente nella seconda ai Corinzi, trattando delle elemosine, loda molte volte la buona volontà dei destinatari; ma successivamente rende grazie a Dio perché ha incoraggiato Tito nel compito di esortarli (2 Co. 8.11- 16). Se Tito non ha neanche potuto aprire la bocca per esortare gli altri senza che Dio glielo abbia suggerito, come gli uditori sarebbero stati indotti ad agire bene se Dio non avesse toccato loro il cuore?

9. I più abili e smaliziati mettono in dubbio queste testimonianze sostenendo che esse non escludono l'unione delle nostre forze con la grazia di Dio, che sovviene così alla nostra debolezza. Menzionano alcuni passi dei profeti in cui il merito della nostra conversione sembra suddiviso fra noi e Dio; ad esempio: "Convertitevi a me e io mi convertirò a voi" (Za. 1.3).

Abbiamo indicato precedentemente in che consista l'aiuto di Dio e non c'è bisogno di ripeterci. Si tratta di mostrare qui che erroneamente i nostri avversari attribuiscono all'uomo la capacità di adempiere la Legge basandosi sul fatto che Dio ci comanda di obbedirvi; è infatti evidente che la grazia di Dio è necessaria per adempiere il comandamento divino ed essa ci è promessa a questo fine. Ne deriva che siamo impegnati a fare più di quanto possiamo. E nessun cavillo permette ai disputatori di sfuggire all'affermazione di Geremia secondo cui il patto di Dio con il popolo antico non ha avuto forza ed è decaduto perché si basava solamente sulla lettera; ed essa non può avere forza che quando lo Spirito venga aggiunto alla dottrina, per farci obbedire ad essa (Gr. 31.32).

Per quanto concerne la frase: "Convertitevi a me e mi convertirò a voi", essa non convalida affatto il loro errore. Per conversione di Dio non bisogna intendere la grazia con cui rinnova i nostri cuori in vista di una vita santa, ma quella con cui manifesta la sua volontà buona e il suo amore verso noi facendoci prosperare; inversamente è detto che si allontana da noi allorché ci punisce. Poiché dunque il popolo d'Israele che aveva à lungo sofferto si lamentava che Dio si fosse allontanato, il Signore risponde che il suo favore e la sua generosità non mancheranno loro se si convertiranno alla dirittura di vita e si avvicineranno a colui che è la sorgente di ogni giustizia. Intendere il passo come se spartisse il merito della nostra conversione tra Dio e noi, significa distorcerlo.

Abbiamo trattato rapidamente la questione perché bisognerà riprenderla affrontando il problema della Legge.

10. Il secondo ordine delle loro considerazioni non differisce molto dal primo. Menzionano le promesse secondo le quali Dio sembra associarsi alla nostra volontà. Per esempio: "Cercate la rettitudine e non il male, e voi vivrete!" (Am 5.14) : "Se mi ascolterete, vi darò il benessere: ma se non lo farete, vi farò perire per la spada" (Is. 1.19-20) : "Se toglierai le tue abominazioni, non sarai cacciato". "Se ascolti la voce del Signore il tuo Dio per eseguire e mantenere i suoi comandamenti, farò di te il popolo più eccellente della terra" e altri consimili (Gr. 4.1; De 28.1; Le 26.3).

Pensano che Dio si farebbe beffe di noi affidando alla nostra volontà queste cose che non ci è possibile compiere. Umanamente questa considerazione ha qualche peso. Se ne potrebbe dedurre che Dio agisce crudelmente fingendo che dipenda interamente da noi il ricevere la sua grazia e ogni bene, mentre non abbiamo invece alcun potere in merito; che sarebbe ridicolo mostrarci con tanta insistenza la sua liberalità senza che ne possiamo fruire. In breve, si può obbiettare che le promesse di Dio non avrebbero alcuna certezza se dipendessero da una impossibilità di esecuzione.

Parleremo altrove delle promesse che dipendono da una condizione impossibile e risulterà chiaro non esservi nulla di assurdo nonostante l'impossibilità di realizzazione.

Quanto al problema in discussione, io nego che il Signore sia crudele o inumano verso di noi quando ci esorta a meritare le sue grazie e i suoi benefici pur sapendoci impotenti a farlo. Le promesse sono rivolte ai credenti e ai malvagi; sono pertanto utili tanto nei riguardi degli uni che degli altri. Il Signore con questi precetti punge e sveglia la coscienza degli iniqui onde non si trastullino nei loro peccati, incuranti del suo giudizio: nello stesso tempo con le sue promesse attesta loro quanto siano indegni della sua benignità. Chi vorrà negare a Dio il diritto di beneficare chi l'onora e di vendicarsi rigorosamente di chi sprezza la sua maestà? Il nostro Signore rettamente dunque propone agli iniqui, tenuti prigionieri sotto il giogo del peccato, questa condizione: se abbandoneranno la malvagità, egli invierà loro ogni bene; e da questo possano intendere che a buon diritto sono esclusi dai beni dovuti ai servitori di Dio.

D'altra parte non bisogna stupirsi perché, volendo stimolare i credenti a implorare la sua grazia, Dio agisce con le sue promesse come agisce con i suoi comandamenti, come abbiamo già visto. Facendoci conoscere la sua volontà per mezzo dei suoi comandamenti, egli ci rende consapevoli della nostra miseria mostrandoci che siamo contrari ad ogni bene: insieme ci spinge a invocare il suo Spirito per esserne indirizzati sul buon cammino. Ma dato che la nostra pigrizia non è abbastanza smossa dai suoi precetti, vi aggiunge le promesse con la cui dolcezza ci induce ad amare quanto ci comanda. Quanto più amiamo la giustizia, tanto più siamo zelanti nella ricerca della grazia di Dio. In questo modo Dio, nelle dichiarazioni summenzionate, non ci attribuisce la facoltà di mettere in pratica le sue richieste, e tuttavia non si beffa della nostra debolezza; al contrario agisce per il bene dei suoi servitori e rende gli iniqui più condannabili.

2. La terza serie di testi ha qualche affinità con le precedenti. I miei contraddittori citano i passi in cui Dio rimprovera al popolo d'Israele di non aver saputo vivere in obbedienza. Ad esempio: "Amalec e i Cananei sono davanti a voi, sarete uccisi dalla loro spada perché non avete voluto obbedire al Signore" (Nu. 14.43);"Perché vi ho chiamato e non avete risposto, vi distruggerò come ho fatto con Silo" (Gr. 7.13);"Questo popolo non ha ascoltato la voce del suo Dio e non ha accettato la sua dottrina: per questo è rigettato" (Gr. 7.28);"Poiché avete indurito il vostro cuore e non avete voluto obbedire al Signore, tutti questi mali vi sono venuti addosso" (Gr. 32.23). Che significato avrebbero questi rimproveri se gli interessati sono in grado di ribattere, immediatamente: Non chiedevamo altro che prosperare, e temevamo la sventura; se non abbiamo obbedito al Signore, non abbiamo ascoltato la sua voce per evitare il male e avere sorte migliore, è unicamente perché, essendo detenuti nella prigionia del peccato, non siamo liberi. A torto dunque Dio ci rimprovera il male cui siamo sottomessi e che non era in nostro potere evitare.

Lasciando da parte la frivola e infondata scusa della necessità chiedo loro se possono dimostrare di non essere colpevoli. Se sono convinti di aver mancato, allora non senza ragione Dio afferma che è da imputarsi alla loro perversità il fatto che egli non li abbia benedetti. Possono forse negare che la causa della loro ostinazione sia stata una volontà perversa? Se la sorgente del male è in loro stessi, a che pro cercare cause esterne per far credere di non essere i responsabili della propria rovina?

Se è dunque vero che i peccatori sono per colpa loro privi dei benefici di Dio e ricevono la punizione della sua mano, a buon diritto egli li rimprovera; e se persistono nel male, imparino a deprecare la propria iniquità quale causa della propria miseria, anziché biasimare l'eccessiva severità di Dio. Se non sono completamente induriti e possono essere addolciti, concepiscano dispiacere e odio per i propri peccati, a causa dei quali si vedono in distretta, e così ritornino sulla buona strada e riconoscano la fondatezza dei rimproveri di Dio. Dalla preghiera di Daniele (Da 9) appare che questi rimproveri sono riusciti utili per i credenti. Ne vediamo un esempio negli Ebrei a cui Geremia indica per ordine di Dio le cause delle loro sventure; sebbene sia accaduto solo quanto Dio aveva predetto, vale a dire che non ascolterebbero le divine parole, e che non risponderebbero ai divini appelli (Gr. 7.27).

A che scopo parlare ai sordi? dirà qualcuno. Perché loro malgrado comprendano la verità di quanto odono: è sacrilegio abominevole imputare a Dio la causa delle calamità che risiedono in loro stessi.

Con queste tre risposte tutti potranno facilmente orientarsi tra le infinite testimonianze collezionate dai nemici della grazia di Dio, tanto dei comandamenti che delle promesse della Legge e dei rimproveri di Dio ai peccatori, i quali vogliono garantire all'uomo un libero arbitrio che non esiste.

Il Salmo afferma, per confondere gli Ebrei, che essi sono una nazione perversa, dal cuore ribelle (Sl. 78.8). In un altro passo il Profeta esorta gli uomini del suo tempo a non indurire i loro cuori (Sl. 95.8). Questo è ben detto, dato che tutta la colpa della ribellione risiede nella perversità umana. Ma è sciocco dire che il cuore dell'uomo, preparato da Dio, si volge di per se in un senso o nell'altro. Il Profeta dice: "Ho inclinato il mio cuore a osservare i tuoi comandamenti" (Sl. 119.112) perché si era dato a Dio con coraggio franco e gioioso; ma non si vanta di essere l'autore di questa inclinazione che nello stesso salmo riconosce essere un dono di Dio.

Dobbiamo di conseguenza ricordare l'ammonimento di san Paolo: egli ordina ai credenti di compiere la loro salvezza con timore e tremore, poiché Dio opera in loro il volere e il fare (Fl. 2.13). Attribuisce loro il compito di mettere mano all'opera, affinché non si lascino andare all'incuria; ma aggiungendo che questo deve avvenire, con timore e tremore, li umilia e ricorda che quanto ordina loro è l'opera propria di Dio. Con questo mezzo esprime la necessità che i credenti operino "passivamente", se posso esprimermi in questo modo: vale a dire agiscano in quanto sono spinti, e la facoltà è data loro dal cielo.

Per questa ragione san Pietro esortandoci ad aggiungere alla fede la virtù (2 Pi. 1.5) non ci attribuisce una parte dell'azione, quasi facessimo qualcosa separatamente e per conto nostro: ma risveglia solamente la pigrizia della nostra carne, che spesso soffoca la fede. Simile suona la frase di san Paolo: "Non spegnete lo Spirito!" (1 Ts. 5.19). La pigrizia qualora non sia repressa s'insinua in continuità in noi.

Se qualcuno replica ancora che è dunque in potere dei credenti custodire la purezza data loro, si può facilmente rispondere che questa perseveranza, richiesta da san Paolo (2 Co. 7.1) proviene solo da Dio. Ci è spesso richiesto infatti di purgarci di ogni macchia: e tuttavia lo Spirito Santo si riserva il vanto di consacrarci nella purezza.

Risulterà chiaro dalle parole di san Giovanni che quanto appartiene a Dio solamente ci è dato sotto forma di concessione: "Chi è da Dio"egli dice"stia in guardia!" (1 Gv. 5.18). I predicatori del libero arbitrio prendono alla leggera questo avvertimento, come se fossimo salvati in parte dalla virtù di Dio e in parte dalla nostra, quasi lo stare in guardia non ci venisse dal cielo. Ecco perché Gesù Cristo prega il Padre di guardarci dal male o dal maligno (Gv. 17.15). E sappiamo che i credenti combattendo contro Satana sono vittoriosi solo con le armi che Dio fornisce loro. Per questo san Pietro dopo aver ordinato di purificare le anime nell'obbedienza alla verità, aggiunge subito a modo di correzione: "in virtù dello Spirito", (1 Pi. 1.22).

Per concludere, san Giovanni mostra in breve come tutte le forze umane non siano che vento o fumo nella lotta spirituale, affermando che chi è generato da Dio non può peccare perché la semenza di Dio dimora in lui (1 Gv. 3.9). E in un altro passo ne precIs. la ragione: perché la nostra fede è la vittoria che vince il mondo (1 Gv. 5.4).

12. Essi citano però una testimonianza della Legge di Mosè che sembra del tutto contraria alla nostra interpretazione. Dopo aver fatto conoscere la Legge, Mosè affermò davanti al popolo quanto segue: "Il comandamento che ti do oggi non è nascosto, non è lontano da te, non s'innalza nel cielo, ma è presso di te, nella tua bocca e nel tuo cuore, affinché tu lo pratichi" (De 30.11- 14).

Riconosco che sarebbe molto difficile rispondere se questo fosse detto dei soli comandamenti. Si potrebbe certo intendere l'affermazione nel senso che qui si parla della facilità di intendere i comandamenti più che di metterli in pratica: ma qualche dubbio rimarrebbe. Abbiamo però un commentatore che ci toglie ogni dubbio: è san Paolo il quale afferma che Mosè parlava della dottrina dell'Evangelo (Ro 10.8). Se qualche ostinato replicasse che san Paolo ha travisato il significato naturale del passo per riferirlo all'Evangelo, difendere l'esegesi dell'Apostolo è possibile, anche se si deve respingere una simile calunnia. Se Mosè avesse parlato solamente dei comandamenti, avrebbe ingannato il popolo. Non avrebbe infatti potuto fare altro che cadere in rovina, avendo la pretesa di osservare la Legge con le proprie forze, quasi fosse cosa facile! Dov'è questa facilità, visto che la nostra natura soccombe a questo compito e nessuno può camminare senza inciampare?

È dunque certo che con queste parole Mosè ha inteso il Patto di misericordia che aveva reso manifesto nella Legge. Infatti aveva dichiarato poco prima che i nostri cuori devono essere circoncisi da Dio affinché lo amiamo (De 30.6). Non vede dunque questa "facilità" nelle forze dell'uomo ma nell'aiuto e nel soccorso dello Spirito Santo, il quale agisce con potenza nella nostra infermità.

Non bisogna dunque riferire il passo solamente ai comandamenti ma piuttosto alle promesse evangeliche che, lungi dall'attribuirci il potere di procurarci la giustizia, mostrano al contrario che ne siamo del tutto privi. La salvezza ci è presentata nell'Evangelo non nella forma dura e difficile, addirittura impossibile, usata dalla Legge: in base cioè all'adempimento di tutti i comandamenti, ma in forma facile ed agevole: in base a questa convinzione san Paolo applica la testimonianza di cui stiamo parlando per confermare che la misericordia di Dio ci è generosamente messa in mano. Questa testimonianza non serve dunque affatto a garantire una libertà della volontà umana.

13. Sono soliti menzionare alcuni altri passi in cui è mostrato che talvolta Dio ritrae la sua grazia dagli uomini, per vedere da che parte si volgeranno. i: detto per esempio in Osea: "Mi tirerò da parte fino a quando delibereranno nei loro cuori di seguirmi" (OS 5.15). Sarebbe ridicolo, essi dicono, che il Signore stesse a vedere quale sarà la loro via se essi non avessero la possibilità di volgersi dall'una o dall'altra parte con le proprie forze. Dio non ha forse l'abitudine di dire costantemente, per mezzo dei suoi profeti, che rigetterà il popolo e lo abbandonerà finché questo non si corregga?

Vediamo quali conclusioni ne vogliono trarre. Se dicono che il popolo, lasciato a se stesso, può convertirsi da solo, tutta la Scrittura li contraddice. Se riconoscono che la grazia di Dio è necessaria alla conversione dell'uomo, questi passi non li aiutano a combattere contro di noi.

Ma essi diranno che la riconoscono necessaria in modo tale però che le forze dell'uomo vi abbiano parte in qualche misura. Donde lo deducono? Certo non da questo passo né da altri simili: infatti è ben diverso che Dio tolga la sua grazia all'uomo per vedere che cosa questi faccia, oppure che sovvenga alla sua infermità e ne confermi le deboli forze.

Ma domanderanno: che significano allora queste espressioni? Rispondo che esse suonano come se Dio dicesse: Siccome non riesco a nulla con questo popolo ribelle, né con le esortazioni, né con le ammonizioni, né con le riprensioni, mi tirerò da parte per un tempo e tacendo sopporterò che sia afflitto. Così vedrò se dopo lungo patimento si ricorderà di me e mi cercherà. Quando è detto che Dio si ritirerà, si intende che ritirerà la sua parola. Quando è detto che osserverà quanto faranno gli uomini in sua assenza, si vuol dire che senza mostrarsi li affliggerà per qualche tempo. Una cosa e l'altra fa per umiliarci. Potrebbe spezzarci mille volte con i castighi e le punizioni senza poterci correggere; per questo è necessario che ci renda docili con il suo Spirito.

Stando così le cose è erroneo dedurre che l'uomo abbia qualche merito nel convertirsi a Dio. È detto al contrario che Dio, offeso dalla nostra durezza ed ostinazione, ritira da noi la sua parola (attraverso la quale ci comunica la sua presenza) ed esamina quel che faremo da soli. Lo scopo di tutto questo è di farci riconoscere che da soli non siamo nulla e non possiamo nulla.

14. Prendono lo spunto anche da una espressione corrente non solo tra gli uomini, ma anche nella Scrittura: le buone opere sono dette"nostre", ed è affermato che facciamo il bene come il male. Ora, se i peccati ci sono giustamente imputati, in quanto provengono da noi, per la stessa ragione ci dovrebbero essere attribuite le buone opere. Non sarebbe infatti ragionevole dire che facciamo le cose, cui Dio ci spinge, come pietre, non potendole fare per nostra propria volontà. In séguito ne concludono che, sebbene la grazia di Dio abbia il merito principale, tuttavia queste locuzioni indicano che abbiamo qualche capacità naturale di fare il bene.

Se ci fosse solo la prima obbiezione, vale a dire che le buone opere sono chiamate "nostre", risponderei che chiamiamo nostro il pane quotidiano che pure chiediamo a Dio di concederci. Questa parola indica dunque quel che non ci era in alcun modo dovuto ma che diventa nostro in virtù della infinita generosità di Dio. Dovrebbero dunque rimproverare al Signore questo modo di esprimersi: oppure non considerare strano che siano dette "nostre" buone opere in cui non c'è nulla di nostro, se non in quanto ci è dato dalla generosità di Dio.

La seconda obiezione ha maggior peso: la Scrittura afferma spesso che i credenti servono Dio, conservano la sua giustizia, obbediscono alla sua Legge e applicano la loro diligenza a compiere il bene. Se questi sono i compiti propri della mente e della volontà umana, come potrebbero essere attribuiti contemporaneamente allo Spirito di Dio e a noi, se non vi fosse un qualche legame tra le nostre facoltà e la grazia di Dio?

Sarà facile risolvere questi dubbi considerando rettamente il modo in cui Dio agisce nei suoi servi.

In primo luogo, la similitudine con cui vogliono metterci in difficoltà non è pertinente. Chi infatti è così insensato da pensare che l'uomo sia sospinto da Dio nello stesso modo che una pietra è gettata? Nulla di simile deriva dalla nostra dottrina. Noi diciamo esservi una facoltà umana naturale di approvare, respingere, volere, non volere, sforzarsi, resistere; vale a dire lodare la vanità, respingere il vero bene, volere il male, non volere il bene, sforzarsi di peccare, resistere alla dirittura. Qual è la parte del Signore in tutto questo? Se vuole adoperare la perversità umana come uno strumento della sua ira, la volge e la in dirizza dove meglio gli pare per realizzare le sue opere giuste e buone attraverso una mano cattiva. Quando dunque vedremo un malvagio servire Dio in questo modo mentre obbedisce alla propria malvagità, lo paragoneremo ad una pietra che è mossa da una forza esterna senza alcun movimento proprio, né sentimento, né volontà? Vediamo che c'è una bella differenza!

Che diremo dei buoni, di cui trattiamo particolarmente qui? Quando il Signore vuol edificare in loro il suo Regno, frena e modera la loro volontà perché non sia travolta dalla concupiscenza disordinata, secondo la sua tendenza naturale. D'altra parte la piega, la forma, la dirige e la riconduce alla regola della sua giustizia, per farle desiderare santità ed innocenza. Infine la conferma e la fortifica con la forza del suo Spirito perché non vacilli né cada.

Per questo motivo sant'Agostino scrive: "Mi dirai: Siamo dunque condotti dall'esterno e non facciamo nulla per conto nostro?". Le due cose sono vere: sei condotto e ti conduci: e ti conduci bene se ti fai condurre da colui che è buono. Lo Spirito di Dio che opera in te è quello che aiuta chi opera. Questa parola "aiutare" mostra che anche tu fai qualcosa". Ecco le sue parole.

Riguardo al primo punto egli indica che l'operare dell'uomo non è eliminato dalla guida e dalla direzione dello Spirito Santo, perché la volontà, che è guidata all'aspirazione del bene, è naturale. Riguardo all'aggiunta della parola"aiutare"si può dedurre che facciamo anche qualcosa, ma non bisogna intenderla come se egli ci attribuisse qualcosa indipendentemente e senza la grazia di Dio; piuttosto, per non favorire la nostra pigrizia, concilia l'opera di Dio con la nostra di modo che il volere sia per natura e il voler bene per grazia. D'altronde aveva detto poco prima: "Se Dio non ci aiuta, non solo non potremo vincere ma neanche combattere".

15. Da questo risulta che la grazia di Dio, nel significato attribuito alla parola quando si parla della rigenerazione, è come la regola e la briglia dello Spirito per dirigere la volontà dell'uomo. Ora non può dirigerla senza correggerla, riformarla e rinnovarla: per questo motivo diciamo che il principio della nostra rigenerazione sta nell'abolizione di quanto è nostro. Similmente non può correggerla senza smuoverla, spingerla, condurla, trattenerla. Per questo diciamo che tutte le buone azioni che ne derivano, dipendono da lui.

Non neghiamo tuttavia la verità di quanto afferma sant'Agostino: la nostra volontà non è annullata dalla grazia di Dio ma piuttosto è riparata. Non vi è contraddizione tra il dire che la volontà dell'uomo è riparata quando, corretta la perversità, essa è indirizzata alla giustizia; e il dire che nel processo una nuova volontà è creata nell'uomo. Infatti la volontà naturale è talmente corrotta e pervertita da dover essere totalmente rinnovata.

Nulla impedisce, a questo punto, di dire che compiamo le opere che lo Spirito Santo compie in noi, sebbene la nostra volontà non apporti nulla di proprio che sia indipendente dalla grazia. Ricordiamoci dunque della citazione già menzionata di Agostino: molti si adoperano invano a trovare nella volontà dell'uomo qualche bene che gli sia proprio, qualsiasi elemento si pretenda aggiungere alla grazia di Dio per rivendicarne il libero arbitrio, non è che corruzione; come se si allungasse del buon vino con acqua sporca e amara. Tutti i sentimenti buoni provengono dal solo impulso dello Spirito; tuttavia, dato che il volere è naturalmente radicato nell'uomo, è detto a buon diritto che facciamo le cose di cui Dio si riserva il merito. In primo luogo perché tutto quanto Dio compie in noi Egli vuole sia nostro, a condizione che comprendiamo che non ha origine in noi; in secondo luogo, perché abbiamo nella nostra natura l'intelletto, la volontà e la perseveranza che egli dirige al bene per farne uscire qualcosa di buono.

16. Le altre argomentazioni che i miei avversari raccolgono qua e là non sono tali da turbare molto le persone di intelligenza che abbiano ben assimilato le risposte sin qui esposte.

Menzionano quanto è scritto nella Ge : "Il tuo desiderio sarà sotto di te e tu lo dominerai", (Ge 4.7) , intendendolo detto del peccato, come se Dio promettesse a Caino che il peccato non potrà dominare nel suo cuore se vorrà adoperarsi a vincerlo! Al contrario questo deve essere piuttosto riferito ad Abele. Nel passo l'intenzione di Dio è infatti di rimproverare l'invidia che Caino aveva concepito verso suo fratello. Questo per due ragioni. In primo luogo si sbagliava pensando di primeggiare sul fratello davanti a quel Dio che apprezza solamente la giustizia e l'integrità. In secondo luogo si dimostrava ingrato nei riguardi del dono ricevuto da Dio, non potendo sopportare il fratello che era più giovane e che doveva curare.

Ammettiamo pure che Dio parli del peccato, affinché non si creda che scegliamo questa interpretazione perché l'altra ci è contraria. Se è così, o Dio gli promette che sarà superiore, oppure gli ordina di esserlo. Se glielo ordina, abbiamo visto che su questo non si può fondare il libero arbitrio. Se si tratta di una promessa, dove ne è l'adempimento visto che Caino è stato vinto dal peccato, che avrebbe dovuto dominare?

Forse diranno che la promessa aveva una condizione implicita, come se Dio avesse detto: "Se combatti riporterai la vittoria "Ma chi potrà tollerare questi sotterfugi? Se si riferisce questa dominazione al peccato non v'è dubbio trattarsi di una esortazione rivolta da Dio, nella quale non si illustra quali siano le facoltà dell'uomo, ma quale sia il suo dovere, anche se non può compierlo.

La realtà di fatto e la grammatica postulano un paragone tra Caino e suo fratello Abele: questi, il primogenito, non sarebbe stato umiliato nel sottomettersi al fratello minore, ma ha rovinato la situazione con il suo delitto.

17. Ricorrono anche alla testimonianza dell'Apostolo, il quale afferma che la salvezza non è in mano di chi vuole o di chi corre, ma risiede nella misericordia di Dio (Ro 9.16). Ne deducono esservi nella volontà e nel comportamento dell'uomo qualche parte di per se debole, a cui la misericordia di Dio supplisce affinché raggiunga un felice risultato.

Ma se si considera attentamente il problema affrontato dall'Apostolo in quel testo, non ci si può ingannare così sconsideratamente sulla sua intenzione. È: vero che possono citare Ori gene e san Girolamo per difendere la loro spiegazione, Io potrei, al contrario, contraddirli con l'autorità di sant'Agostino. Ma non dobbiamo preoccuparci di quello che costoro ne hanno pensato, quanto piuttosto di intendere quel che san Paolo voleva dire; vale a dire che otterrà salvezza solo colui al quale Dio farà misericordia, mentre rovina e confusione sono preparate per tutti coloro che non avrà eletto. Con l'esempio di Faraone aveva indicato la condizione dei reprobi. Aveva dimostrato l'elezione gratuita dei credenti con la testimonianza di Mosè, laddove è detto: "Avrò pietà di chi avrò accolto misericordiosamente". Conclude che non dipende da chi vuole o da chi corre, ma da Dio che fa misericordia. È una sciocchezza arguire da queste parole l'esistenza nell'uomo di una qualche forma di volontà e di capacità ad agire, come se san Paolo dicesse che la volontà e l'attività umana da sole non bastano. Bisogna dunque respingere questa argomentazione priva di fondamento.

Che senso infatti avrebbe il dire: la salvezza non è nelle possibilità di chi vuole o di chi corre, come se vi fosse una forma di volontà o di corsa! La frase dell'Apostolo è più semplice: non vi è né volontà né corsa per condurci alla salvezza, ma in questo campo solamente la misericordia regna. Non parla qui diversamente dall'altro passo, in cui afferma: la bontà e la benevolenza di Dio verso gli uomini sono apparse, non attraverso le opere di giustizia che abbiamo fatte, ma attraverso la infinita misericordia divina (Tt 3.5). Se volessi dedurre che abbiamo compiuto alcune buone opere, dal momento che san Paolo nega che abbiamo ottenuto la grazia di Dio con le opere della giustizia da noi compiute, loro stessi mi deriderebbero. E tuttavia la loro argomentazione è di questo tipo. Riflettano a quello che dicono per non basarsi su argomenti così inconsistenti.

Infatti l'argomentazione di sant'Agostino è pienamente valida: se fosse detto che non dipende da chi vuole né da chi corre perché il volere e il correre da soli non bastano, si potrebbe rovesciare completamente il ragionamento e affermare che non dipende dalla misericordia, perché neanch'essa opera da sola. È chiaro come questo sia irragionevole. Perciò sant'Agostino conclude che san Paolo lo ha detto perché non vi è nell'uomo alcuna buona volontà che non sia preparata da Dio. Non che non dobbiamo volere e correre, ma Dio opera l'una e l'altra cosa in noi.

Non è meno sciocco il ragionamento di quanti affermano che san Paolo definisce gli uomini: cooperatori di Dio (1 Co. 3.9). È evidente che si riferisce ai Dottori della Chiesa, di cui Dio si serve e che mette all'opera per costruire l'edificio spirituale, che è opera sua in modo esclusivo. E difatti i ministri non sono chiamati suoi compagni, come se avessero qualche facoltà di per se stessi; Dio opera per loro mezzo dopo averli resi idonei a farlo.

18. Inoltre menzionano la testimonianza dell'Ecclesiastico, libro notoriamente privo di autorità sicura. Ma anche se non la rifiutassimo, e potremmo farlo a buon diritto, che aiuto reca alla loro tesi? Afferma che l'uomo, dopo essere stato creato, è stato lasciato alla propria volontà e Dio gli ha dato dei comandamenti, osservando i quali, ne sarà protetto, che la vita e la morte, il bene e il male sono stati messi dinanzi all'uomo affinché scegliesse quanto preferisce (Ecclesiaste 15.14).

Ammettiamo che l'uomo all'atto della creazione abbia ricevuto la facoltà di scegliere la vita o la morte. Ma che ne sarà se rispondiamo che l'ha perduta? Non voglio certo contraddire Salomone, il quale afferma che l'uomo è stato creato buono dal principio ed ha prodotto da solo invenzioni malvagie (Ecclesiaste 7.29). Dato dunque che l'uomo degenerando ed allontanandosi da Dio ha perduto se stesso con tutti i suoi beni, quanto è detto della sua prima creazione non può essere esteso alla sua natura viziosa e corrotta. Rispondo dunque non solo ai miei oppositori, ma anche all'Ecclesiastico, chiunque esso sia, in questo modo: Se vuoi spingere l'uomo a cercare in se la capacità di acquistare la salvezza, la tua autorità non ha sufficiente forza da poter portare pregiudizio alla parola di Dio, la quale evidentemente vi si oppone. Se vuoi solamente far tacere la bestemmia della carne che cerca di giustificarsi attribuendo a Dio i propri vizi, e a questo fine insegni che l'uomo ha ricevuto una natura buona da Dio ed è stato causa della propria rovina, te lo concedo volentieri purché ci accordiamo insieme su questo punto, di riconoscere che attualmente egli è spoglio degli ornamenti della grazia ricevuti originariamente da Dio; così insieme riconosciamo che ora ha bisogno non di avvocato, ma di medico.

19. I nostri avversari citano con maggior frequenza la parabola di Cristo in cui si parla dell'uomo lasciato mezzo morto per strada dai briganti (Lu 10.30). So bene che comunemente si ravvisa. in quest'uomo l'immagine della sventura del genere umano. Ne prendono lo spunto per dire che l'uomo non è stato mutilato dal peccato e dal Diavolo al punto di non avere ancora un qualche soffio di vita: infatti è detto essere mezzo morto. In che consiste questa mezza vita, essi dicono, se non nel fatto che gli è rimasto un residuo di retta intelligenza e volontà?

In primo luogo, che faranno se rifiuto la loro allegoria? Non v'è alcun dubbio infatti che essa è stata escogitata dai padri antichi, oltre il significato letterale e naturale del testo. Le allegorie devono essere accettate solo se fondate sulla Scrittura: da sole esse non possono fondare alcuna dottrina.

Per di più non ci mancano le ragioni per refutare le loro dichiarazioni. La parola di Dio infatti non lascia una mezza vita all'uomo ma lo considera del tutto morto per quanto concerne la vita beata. Quando san Paolo parla della nostra redenzione, non dice affatto che siamo stati guariti da una mezza morte, ma che siamo stati risuscitati dalla morte (Ef. 2.5; 5.14). L'invito a ricevere la grazia di Cristo non è rivolto a quanti sono semi viventi, ma a quanti sono morti e sepolti (Ef. 5.14). Con questo concorda l'affermazione del Signore che l'ora è venuta per i morti di risuscitare alla sua voce (Gv. 5.25). Hanno il coraggio di contrapporre questa vacua allegoria a testimonianze così esplicite?

Ma quand'anche la loro allegoria fosse valida, cosa possono concluderne che risulti contro di noi? L'uomo, diranno, è vivo a metà; dunque ha una qualche traccia di vita. Riconosco certo che ha un'anima capace di intelligenza, sebbene incapace di penetrare fino alla sapienza celeste di Dio, ha in qualche misura la percezione del bene e del male, ha qualche intuizione dell'esistenza di un Dio, sebbene non ne abbia la retta conoscenza; ma dove conducono tutte queste cose? Esse non possono inficiare l'affermazione di sant'Agostino: i doni gratuiti relativi alla salvezza sono stati tolti all'uomo dopo la sua caduta; i doni naturali, incapaci di condurlo a salvezza, sono stati corrotti e macchiati.

Questa affermazione irrefutabile rimanga dunque ferma e certa: l'intelletto dell'uomo è completamente estraneo alla giustizia di Dio, al punto di non poter immaginare, né concepire, né comprendere null'altro che cattiveria, iniquità e corruzione. Similmente il suo cuore è avvelenato dal peccato al punto di non poter produrre che perversità. E se accade che ne esca qualcosa di buona apparenza, tuttavia l'intelletto rimane sempre mascherato dall'ipocrisia e dalla vanità e il cuore dedito ad ogni malvagità.