Letteratura/Istituzione/3-11

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Indice generale

Istituzioni della religione cristiana (Calvino)

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CAPITOLO 11

LA GIUSTIFICAZIONE MEDIANTE LA FEDE: DEFINIZIONE DEL TERMINE E DELLA COSA

1. Mi pare di aver esposto precedentemente con abbastanza diligenza come non rimanga agli uomini che un solo rifugio di salvezza: la fede, poiché secondo la Legge tutti sono maledetti. Mi pare anche di aver sufficientemente illustrato la natura della fede, quali grazie di Dio essa comunichi all'uomo, quali frutti produca in lui. La conclusione è che riceviamo e possediamo Gesù Cristo per mezzo della fede, come ci è presentato dalla bontà di Dio; essendone partecipi, ne riceviamo una duplice grazia. La prima perché, riconciliati con Dio per mezzo della sua innocenza, Invece di avere un giudice in cielo per condannarci abbiamo un Padre molto clemente. La seconda, perché siamo santificati dal suo Spirito per meditare santità ed innocenza di vita. Della rigenerazione, che è la seconda grazia, ho parlato nel modo che mi pareva opportuno.

La giustificazione è stata trattata più superficialmente, poiché era necessario capire anzitutto quanto la fede non sia oziosa e priva di buone opere, benché per mezzo suo otteniamo giustizia gratuita nella misericordia di Dio; poi era necessario capire quali siano le buone opere dei santi, a cui si riferisce una parte del problema da trattare.

Ora dobbiamo dunque soffermarci più a lungo sulla giustificazione per fede, e considerarla in modo tale da ricordarci bene che è la dottrina fondamentale della religione cristiana, affinché ognuno metta maggior impegno e diligenza per conoscerne il contenuto. Come non abbiamo alcun fondamento per accertare la nostra salvezza, non conoscendo la volontà di Dio a nostro riguardo, così manchiamo di ogni fondamento per edificarci nella pietà e nel timor di Dio. Ma la necessità di ben comprendere questo argomento sarà più evidente quando lo avremo esposto.

2. Per non inciampare fin dai primi passi (il che accadrebbe se entrassimo in discussione su un problema incerto ) dobbiamo anzitutto spiegare il significato delle locuzioni: "essere giustificati davanti a Dio ", e "essere giustificato per fede "o "per opere ".

È giustificato davanti a Dio colui che è ritenuto giusto dinanzi al giudizio di Dio, ed è gradito per la sua giustizia. Come l'iniquità è abominevole a Dio, anche il peccatore, in quanto tale, non può trovar grazia dinanzi a lui. Di conseguenza, dovunque c'è peccato, lì si manifesta l'ira e la vendetta di Dio. È dunque giustificato colui che non è considerato peccatore, ma giusto, e per questo motivo può rimanere in piedi dinanzi al tribunale di Dio, là dove tutti i peccatori cadono e sono confusi. Come di qualcuno che, accusato a torto, dopo esser stato esaminato dal giudice, assolto e dichiarato innocente, si dirà che è giustificato dalla giustizia, così diremo che è giustificato dinanzi a Dio l'uomo che, separato dal numero dei peccatori, ha Dio come testimone e garante della sua giustizia.

Allo stesso modo diremo che è giustificato dinanzi a Dio per mezzo delle sue opere l'uomo nella cui vita ci sarà tal purezza e santità da meritare l'attestato di giustizia dinanzi al tribunale di Dio; oppure, che per l'integrità delle sue opere potrà rispondere e soddisfare al giudizio di Dio.

Al contrario, si dirà che è giustificato per mezzo della fede colui che, escluso dalla giustizia delle opere, afferra per fede la giustizia di Gesù Cristo ed essendone rivestito appare dinanzi a Dio non già come peccatore, ma come giusto. Perciò, in conclusione, diciamo che la nostra giustizia dinanzi a Dio è un'accettazione per mezzo della quale, ricevendoci nella sua grazia, ci considera giusti; e diciamo che essa consiste nella remissione dei peccati, e nel fatto che ci viene attribuita la giustizia di Gesù Cristo.

3. Abbiamo a conferma parecchie testimonianze della Scrittura, e molto esplicite. Anzitutto non si può negare che quello sia il significato proprio del termine, ed il più frequente. Ma poiché sarebbe troppo lungo raccogliere tutti i passi per confrontarli fra loro, basterà darne qualche nozione ai lettori. Ne citerò dunque alcuni tra i più pertinenti.

Anzitutto, quando san Luca afferma che il popolo, avendo udito Gesù Cristo, rese giustizia a Dio, e quando Gesù Cristo dice che alla sapienza è stata resa giustizia dai suoi figli (Lu 7.29.35) , non significa che gli uomini rendano giustizia a Dio, poiché la giustizia rimane sempre perfetta in lui sebbene tutti cerchino di sottrargliela, oppure che possano rendere giusta la dottrina della salvezza, la quale ha di per se questa caratteristica. Ma il significato è che coloro dei quali ha parlato hanno attribuito a Dio ed alla sua parola la lode che meritavano. All'opposto, quando Gesù Cristo rimprovera ai farisei di giustificarsi da soli (Lu 16.15) , non è perché cercassero di acquistare giustizia compiendo il bene, ma perché la loro ambizione perseguiva lo scopo di acquistare fama di giustizia, benché ne fossero privi. È abbastanza chiaro alle persone esperte in lingua ebraica, la quale chiama peccatori o malfattori non solo coloro che si sentono colpevoli, ma coloro che sono condannati. Infatti Bethsabé, dicendo che lei e suo figlio Salomone saranno peccatori (3Re 1.21) , non intende addossarsi un crimine, ma si lamenta che lei e suo figlio saranno esposti ad obbrobrio, e saranno posti al livello dei malfattori, se Davide non provvede. È chiaro, dal seguito della citazione, che questo verbo, anche in greco ed in latino, non può essere inteso altrimenti che Cl. Significato di esser ritenuto giusto, e non comporta una qualità di effetto.

Quanto all'argomento che stiamo trattando, laddove san Paolo dice che la Scrittura ha previsto che Dio giustificherebbe i Gentili per mezzo della fede (Ga 3.8) , che cosa possiamo leggere, se non che egli li accoglie come giusti per mezzo della fede? E quando dice che Dio giustifica il peccatore che crede in Gesù Cristo (Ro 3.20) , quale può essere il senso, se non che egli libera i peccatori dalla condanna che la loro empietà meritava? È ancora più esplicito nella conclusione, quando dice: "Chi accuserà gli eletti di Dio, quando Dio li giustifica? Chi li condannerà, poiché Cristo è morto? Ora che è risuscitato, intercede per noi " (Ro 8.33). È come se dicesse: chi accuserà coloro che Dio assolve? Chi condannerà coloro di cui Gesù Cristo ha preso in mano la causa per esserne l'avvocato? Giustificare, dunque, equivale ad assolvere colui che era accusato, come se fosse stata provata la sua innocenza. Dio ci giustifica per intercessione di Gesù Cristo: non ci assolve per la nostra innocenza, ma perché ci considera gratuitamente giusti, reputandoci giusti in Cristo, per quanto non lo siamo in noi stessi.

È quanto viene spiegato nella predicazione di san Paolo al tredicesimo capitolo degli Atti, dove è detto: "Per mezzo di Gesù Cristo vi è annunciata la remissione dei peccati; e di tutte le cose per le quali non potevate esser giustificati in base alla legge di Mosè, chiunque crede in lui è giustificato " (At. 13.38). Notiamo che il termine "giustificazione "è situato, in questo passo, dopo la remissione dei peccati, come una interpretazione; che è chiaramente adoperato in luogo di assoluzione; che la giustificazione è scissa dalle opere, è una pura grazia in Gesù Cristo, è ricevuta per mezzo della fede; ed infine l'espiazione di Gesù Cristo è interposta, in quanto è lui che ci fa ottenere un tal bene.

Così quando è detto che il pubblicano scese dal tempio giustificato (Lu 18.14) , non si può dire che avesse acquistato giustizia per qualche merito delle sue opere; bisogna dire che, dopo aver ottenuto il perdono dei suoi peccati, è stato considerato giusto davanti a Dio. Non è divenuto giusto grazie alla dignità delle sue opere, ma per assoluzione gratuita. Ottima è dunque l'affermazione di sant'Ambrogio quando dice che la confessione dei nostri peccati è la nostra vera giustificazione.

4. Ma, tralasciando l'esame del termine, se consideriamo attentamente la cosa, non troveremo difficoltà. San Paolo ricorre al concetto che Dio ci accoglie, quando vuol significare che Dio ci giustifica. Dice ad esempio: "Siamo predestinati ad essere figli di Dio, adottivi in Gesù Cristo, a lode della sua meravigliosa grazia, per mezzo della quale ci ha accolti e bene accetti " (Ro 3.24). Con questi termini egli non intende altro se non quello che dice in altri testi, che Dio ci giustifica gratuitamente.

Nel quarto capitolo dell'epistola ai Romani, dice anzitutto che siamo giusti in quanto Dio ci considera tali nella sua grazia e include la nostra giustificazione nella remissione dei peccati: "È definito beato da Davide, colui al quale Dio imputa o attribuisce la giustizia senza le opere, secondo quanto sta scritto: "Beati coloro ai quali i peccati sono perdonati ", ecc. " (Ro 4.6). Certo non considera qui soltanto una parte della nostra giustificazione, ma tutta la sua realtà. Dice che Davide l'ha definita nel dichiarare beati quelli che hanno ottenuto gratuitamente il perdono dei loro peccati. Di conseguenza egli considera opposte queste due cose: essere giustificato ed essere considerato colpevole, affinché sia fatto il processo a chi avrà sbagliato.

Nessun testo prova meglio quanto sto dicendo, del passo in cui insegna che il centro dell'evangelo sta nel riconciliarci con Dio, volendoci egli accogliere gratuitamente in Cristo, senza imputarci i nostri peccati (2 Co. 5.18). I lettori meditino attentamente tutto il testo, che poco dopo aggiunge che Cristo, puro e senza peccato, e stato fatto peccato per noi, palesando così il mezzo della riconciliazione. Cl. Termine "riconciliare ", egli non intende altro se non giustificare. In realtà, quanto dice in un altro testo, che siamo fatti giusti per mezzo dell'obbedienza di Cristo (Ro 5.19) , non avrebbe significato se non fossimo reputati giusti in lui, e non in noi stessi.

5. Ma dato che Osiandro ha, nei nostri tempi, messo in giro l'assurdità di non so qual giustizia essenziale, mediante la quale se anche non ha voluto abolire la giustizia gratuita l'ha talmente oscurata che le povere anime non sanno più scorgere in queste tenebre la grazia di Cristo, prima di procedere sarà opportuno confutare questa fantasticheria.

In primo luogo questa speculazione è frutto di pura curiosità. Accumula, e vero, innumerevoli testimonianze scritturali per dimostrare che Gesù Cristo è uno con noi e noi uno con lui, cosa che ognuno riconosce in modo così evidente da rendere superflua ogni prova. Ma non considerando quale sia il legame di tale unità, si caccia in problemi da cui non si può liberare. Da parte nostra ci sarà facile sciogliere ogni difficoltà, sapendo che siamo uniti a Gesù Cristo mediante la potenza segreta del suo Spirito.

Il nostro uomo si è creato qualcosa di assai simile alla fantasticheria dei Manichei: che cioè l'anima è di essenza divina. Da qui ha ricavato un altro errore: Adamo è stato formato ad immagine di Dio perché, prima ancora della sua caduta, Gesù Cristo già era destinato ad essere modello della natura umana. Ma per brevità mi soffermerò solo su quanto è richiesto dal nostro tema.

Osiandro afferma, del continuo, che siamo uno con Cristo. Glielo concedo; quello che gli contesto però è il fatto che l'essenza di Cristo sia mischiata alla nostra. Sottolineo anche che è sciocco ricavare da simili illusioni l'affermazione che Cristo ci è giustizia in quanto è Dio eterno, e che è nel contempo la giustizia stessa e la sua sorgente. I lettori vorranno scusare se menziono ora brevemente dei punti che mi riservo di trattare altrove per esigenza di ordine. Quantunque ribadisca che Cl. Termine di "giustizia essenziale "non intende negare che siamo reputati giusti a causa di Cristo, tuttavia dice esplicitamente che non si accontenta della giustizia procurataci dall'obbedienza di Cristo e dal sacrificio della sua morte, ed immagina che siamo giusti sostanzialmente in Dio, per infusione della sua essenza.

Ragion per cui è spinto ad insistere fortemente sul fatto che non solo Gesù Cristo, ma il Padre e lo Spirito abitano in noi. Riconosco che è vero, ma affermo che egli lo travis. A sproposito. Era opportuno infatti precisare bene il termine "abitare ": il Padre e lo Spirito sono in Cristo e poiché ogni pienezza di divinità abita in lui, è per lui che possediamo Dio pienamente. Perciò tutto quel che afferma sul Padre e sullo Spirito a se stanti e separati da Gesù Cristo, non serve che a confondere i semplici e ad allontanarli da Gesù Cristo, impedendo loro di attenersi a lui.

Infine ha introdotto una mescolanza sostanziale, per cui Dio scendendo in noi ci fa essere parte di lui. Ritiene quasi senza significato il nostro essere uniti a Gesù Cristo per la potenza del Suo Spirito, affinché essendo nostro capo, ci faccia diventare sue membra, se la sua essenza non è mescolata alla nostra. Ma soprattutto affermando che la giustizia che abbiamo è quella del Padre e dello Spirito secondo la loro divinità, evidenzia meglio il suo pensiero: non siamo giustificati solo mediante la grazia del Mediatore, e la giustizia non ci è solo e semplicemente offerta nella persona di lui, ma siamo partecipi della giustizia di Dio quando Dio è essenzialmente unito a noi.

6. Si limitasse ad affermare che Gesù Cristo, giustificandoci, si fa nostro per mezzo di un'unione di essenza, e che è il nostro Capo non solo in quanto è uomo, ma perché fa scorrere su noi l'essenza della sua natura divina, si pascerebbe di tali fantasie con danno minimo, e forse allora si potrebbe evitare di sollevare una gran disputa. Ma poiché il suo principio è simile ad una seppia, che, gettando il suo sangue nero come inchiostro, intorbida l'acqua tutto intorno per nascondere una gran moltitudine di tentacoli, se non vogliamo accettare consapevolmente che ci si sottragga la giustizia, che sola ci dà fiducia per glorificarci della nostra salvezza, dobbiamo resistere con forza e fermezza a queste illusioni.

Osiandro in tutta questa disputa estende i termini giustizia e giustificare, a due cose. Infatti, secondo lui, siamo giustificati non soltanto per esser riconciliati con Dio, quando ci perdona gratuitamente le nostre colpe, ma per essere giusti realmente e di fatto: di modo che la giustizia non è accettazione gratuita ma santità e virtù ispirate dall'essenza di Dio, che risiede in noi. Inoltre egli nega, e su questo punto è esplicito, che la nostra giustizia sia Gesù Cristo che si sacrifica per noi e che, cancellando i nostri peccati, ha pacificato l'ira di Dio; ma pretende che questo titolo gli appartenga in quanto è Dio eterno e vita.

Per dimostrare la prima affermazione, che cioè Dio ci giustifica non solo perdonandoci i nostri peccati ma anche rigenerandoci, domanda se lascia coloro che giustifica quali erano per natura, senza cambiarvi nulla, o no. È facile rispondergli. Come non si può far a pezzi Gesù Cristo, così la giustizia e la santificazione sono inseparabili, poiché le riceviamo insieme e unitamente a lui. Tutti coloro dunque che Dio accoglie per grazia, li riveste anche dello Spirito di adozione, per virtù del quale li riforma secondo la sua immagine. Ma se la luce del sole non può esser separata dal calore, diremo forse per questo che la terra è scaldata dalla luce, o illuminata dal calore? Nulla è più adatto di questa similitudine, per liquidare la disputa. Il sole nutre la terra dandole fecondità Cl. Suo calore e luce coi suoi raggi. Ecco un legame reciproco ed inseparabile, ma la ragione non permette che quel che è proprio dell'uno sia trasferito all'altro.

La stessa assurdità si riscontra nei fatto che Osiandro confonde due grazie diverse. Poiché Dio in verità rinnova tutti coloro che accoglie gratuitamente come giusti, e li dispone a vivere rettamente e con santità, questo imbroglione mescola il dono di rinnovamento con l'accettazione gratuita, e pretende che tutti e due siano una cosa sola. Ma la Scrittura, congiungendoli, li separa tuttavia in maniera distinta, affinché la varietà delle grazie di Dio ci appaia tanto più evidente. Non è infatti superflua l'affermazione di san Paolo: "Cristo ci è stato dato come giustizia e santificazione " (1 Co. 1.30). E tutte le volte che, volendoci esortare a santità e purezza di vita, ci propone come argomento la salvezza che ci e stata acquistata, l'amore di Dio e la bontà di Cristo, indica abbastanza chiaramente che l'essere giustificati è altra cosa che l'esser fatti nuove creature.

Quanto alla Scrittura, distorce tutti i passi che cita. Chiosa in questo modo il passo di san Paolo, in cui è detto che la fede e imputata a giustizia a coloro che non hanno opere ma credono in colui che giustifica il peccatore (Ro 4.5) : Dio cambia i cuori e la vita, per render giusti i credenti. In breve, deforma con presunzione l'intero quarto capitolo dell'epistola ai Romani. Distorce anche il passo che ho precedentemente citato: "Chi accuserà gli eletti di Dio, poiché Egli li giustifica? "come se fosse detto che sono realmente giusti. E tuttavia è perfettamente chiaro che l'Apostolo parla semplicemente dell'assoluzione per mezzo della quale il giudizio di Dio viene distolto da noi. Sia dunque nella sua argomentazione principale, sia in tutto quello che cita dalla Scrittura, rivela la sua pazzia.

Gli accade altrettanto, dicendo che la fede è stata imputata come giustizia ad Abramo, poiché avendo accettato Cristo (che è la giustizia di Dio, perciò Dio stesso ) aveva camminato ed era vissuto con giustizia. Ora la giustizia di cui parla quel passo, non si estende a tutto il corso della vita di Abramo; ma piuttosto lo Spirito Santo vuole attestare che Abramo, per quanto eccellente sia stato nella virtù e per quanto, perseverando in essa, abbia accresciuto la sua lode, tuttavia non è piaciuto a Dio per altra ragione se non perché ha accolto la misericordia che gli era offerta per mezzo della promessa. Ne consegue che Dio, nel giustificare l'uomo, non prende in considerazione merito alcuno, come san Paolo deduce e correttamente conclude intorno a questo passo.

7. Quel che aggiunge, che la fede non ha di per se la forza di giustificare, ma l'ha in quanto accoglie Gesù Cristo, è vero, e glielo concedo volentieri. Infatti se la fede, sempre debole ed imperfetta, giustificasse per sua virtù propria, non otterrebbe che in parte tale effetto; così la giustizia non sarebbe che a metà, e ci darebbe soltanto qualche brandello di salvezza. Non immaginiamo nulla di quel che ci rimprovera, ma affermiamo, parlando con esattezza, che Dio solo giustifica; poi riferiamo questo a Gesù Cristo, che ci è stato dato come giustizia. In terzo luogo paragoniamo la fede a un recipiente, poiché se non ci accostiamo a Gesù Cristo vuoti ed affamati, con la bocca dell'anima aperta, non siamo adatti a riceverlo. Da ciò appare chiaramente che non gli togliamo la potenza di giustificare, visto che diciamo che lo si riceve per fede, prima di ricevere la sua giustizia.

Quanto ad altre follie stravaganti di Osiandro, ogni uomo dotato di sano intendimento le respingerà; come quando dice che la fede è Gesù Cristo, come se dicesse che un vaso di terra si identifica Cl. Tesoro nascosto al suo interno. La fede, benché non abbia di per se alcuna dignità né valore, ci giustifica offrendoci Gesù Cristo, così come un vaso pieno d'oro arricchisce colui che lo ha trovato. Dico dunque che è eccessivamente rozzo da parte sua confondere la fede, che è soltanto strumento, con Gesù Cristo che è la sostanza della nostra giustizia, autore e ministro di un tal bene. Abbiamo già sormontato anche l'ostacolo di come si debba intendere il termine fede, quando si parla della nostra giustificazione.

8. Ancor più assurda è la sua interpretazione del modo in cui riceviamo Gesù Cristo. Dice che la parola interiore è ricevuta per mezzo della parola esteriore: così facendo distoglie al massimo i lettori dalla Persona del Mediatore, che intercede per noi con il suo sacrificio, con la scusa di trasportarli direttamente alla sua divinità eterna.

Quanto a noi non dividiamo Cristo, ma diciamo che lui stesso, pur avendoci resi giusti Cl. Riconciliarci a suo Padre mediante la sua carne, è la Parola eterna di Dio, e che altrimenti non avrebbe potuto compiere il ruolo di mediatore e acquistarci la giustizia, se non fosse stato Dio eterno. La falsa chiosa di Osiandro è che Gesù Cristo, essendo Dio e uomo, è stato fatto giustizia per noi riguardo alla sua natura divina, e non riguardo alla sua natura umana. Se ciò appartiene in particolare alla divinità, non sarà caratteristico di Cristo, ma comune al Padre ed allo Spirito Santo, visto che la giustizia dell'uno è quella degli altri due. Inoltre, la locuzione "esser fatto "non si addirebbe a quel che per natura e da ogni eternità è esistito.

Quand'anche si riconoscesse legittima una affermazione così massiccia come questa: Dio "stato fatto "giustizia per noi, come conciliarla poi con la dichiarazione di san Paolo secondo cui Cristo è stato fatto giustizia da Dio? Certo ognuno vede che san Paolo attribuisce alla persona del Mediatore quel che le è proprio; benché in essa sia contenuta l'essenza di Dio, tuttavia non si rinuncerà a dare a Gesù Cristo le attribuzioni inerenti al suo ruolo, per distinguerlo dal Padre e dallo Spirito Santo.

Cantando poi vittoria con il passo di Geremia in cui è detto che l'Iddio eterno sarà la nostra giustizia (Gr. 51.10) , non fa che scherzare. Infatti non potrebbe dedurne altro, se non che Gesù Cristo, che è la nostra giustizia, è Dio manifestato in carne. Abbiamo altrove citato 6l'affermazione di san Paolo, che Dio si è acquistato la Chiesa Cl. Suo sangue (At. 20.28). Se qualcuno ne volesse dedurre che il sangue che è stato sparso per cancellare le nostre colpe era divino e apparteneva all'essenza di Dio, chi sopporterebbe un tale errore? Orbene Osiandro valendosi di un cavillo così infantile, pensa averla vinta. Alza la cresta e riempie molti fogli di vanterie, benché la soluzione sia semplice e facile: il Dio eterno, quando sarà fatto seme di Davide, come notoriamente si esprime il Profeta, sarà anche giustizia per i credenti; anzi proprio nel senso in cui Isaia dice per bocca del Padre: "Il mio servo, che è il giusto, renderà giusti i molti, per la sua conoscenza " (Is. 53.2). Notiamo che è il Padre che parla, che attribuisce a suo Figlio il compito di giustificare e ne aggiunge la ragione: poiché egli è giusto; e ne stabilisce il mezzo di farlo nell'insegnamento per cui Gesù Cristo è conosciuto.

Concludo pertanto che Gesù Cristo è stato fatto giustizia per noi, assumendo la figura di un servo; in secondo luogo, che ci giustifica in quanto ha ubbidito a Dio suo Padre. Perciò non ci comunica un tal bene secondo la sua natura divina, ma secondo l'incarico che gli è affidato. Infatti, sebbene Dio solo sia la sorgente della giustizia, e siamo giusti unicamente partecipando a lui, tuttavia avendoci l'infelice frattura, derivata dalla caduta di Adamo, alienati e allontanati da ogni bene celeste, dobbiamo valerci di questo rimedio inferiore, di ottenere giustizia nella morte e nella risurrezione di Gesù Cristo.

9. Se Osiandro replica che il giustificarci è opera così grande che nessuna facoltà umana è sufficiente, glielo concedo. Se egli ne deduce che soltanto la natura divina raggiunge quello scopo, dico che commette uno sbaglio grossolano. Infatti, Gesù Cristo non avrebbe potuto purificare le nostre anime Cl. Suo sangue, né placare il Padre verso di noi Cl. Suo sacrificio, né assolverci dalla condanna in cui eravamo avvolti né, in una parola, sostenere il ruolo di sacerdote, se non fosse stato vero Dio (poiché tutte le facoltà della carne non erano in grado di reggere un così greve fardello ); tuttavia è certo che egli ha compiuto queste cose secondo la sua natura umana. Infatti se chiediamo come siamo giustificati, san Paolo risponde: per mezzo dell'obbedienza di Cristo (Ro 5.19). Ma egli non ha potuto ubbidire, se non in qualità di servo. Perciò concludo che la giustizia ci è stata data nella sua carne. Similmente con queste parole, che Dio ha costituito come sacrificio di peccato Colui che non conosceva peccato affinché fossimo giusti in lui, dimostra che la fonte della giustizia è nella carne di Cristo. Tanto più mi chiedo come Osiandro non abbia vergogna di aver spesso in bocca questo passo che gli è così contrario.

Egli magnifica continuamente la giustizia di Dio: ma è per concludere trionfalmente, come se avesse vinto su questo punto, che la giustizia di Dio ci è essenziale. San Paolo afferma sì che siamo fatti giustizia di Dio, ma in senso molto diverso, in quanto Dio, cioè, approva l'espiazione del figlio suo. Del resto, gli scolari e i novizi sanno che per giustizia di Dio si intende quella che è ricevuta e accettata nel suo giudizio, come quando san Giovanni oppone la gloria di Dio a quella degli uomini (Gv. 12.43) , significando che coloro di cui parla hanno navigato fra due acque, poiché anteponevano la loro buona reputazione nel mondo all'essere apprezzati dinanzi a Dio. So bene che la giustizia è talvolta detta "di Dio ", perché egli ne è l'autore e ce la dà; ma che in quel passo il senso sia quello che ho esposto, cioè che noi sussistiamo davanti al tribunale di Dio in quanto poggiamo sull'ubbidienza di Cristo, lo si può vedere senza che ne parli più a lungo. Ma il termine non ha grande importanza, a condizione che concordiamo sulla sostanza, e che Osiandro riconosca che siamo giustificati in Cristo, in quanto è stato fatto per noi sacrificio di purificazione, atto del tutto estraneo alla sua natura divina. Per questa ragione, volendo egli stesso confermare nei nostri cuori sia la giustizia sia la salvezza che ci ha recato, ce ne offre il pegno nella sua carne.

È vero che si definisce il pane della vita; ma nello spiegare come e perché, aggiunge che la sua carne è veramente un nutrimento ed il suo sangue veramente una bevanda. Questo modo di insegnare si vede molto bene nei sacramenti che, pur indirizzando la nostra fede a Gesù Cristo, interamente Dio e uomo e non a metà, attestano che la sostanza della giustizia e della salvezza risiede nella sua carne: non che egli, unicamente in quanto uomo giustifichi e vivifichi di per se, ma perché è piaciuto a Dio manifestare nella persona del Mediatore quel che era incomprensibile e nascosto in lui. Per questo motivo ho l'abitudine di dire che Cristo è per noi come una fonte, da cui ognuno può attingere e bere a suo agio e a suo piacimento; e che per questo mezzo i beni celesti scaturiscono e giungono fino a noi, mentre se fossero rimasti nella maestà di Dio, simile ad una sorgente profonda, non ci sarebbero di alcuna utilità.

Non nego, in questo senso, che Gesù Cristo, in quanto Dio e uomo, ci giustifichi e che tale effetto sia comune al Padre ed allo Spirito Santo, infine che la giustizia di cui Gesù Cristo ci rende partecipi sia la giustizia eterna del Dio eterno, a condizione che siano mantenuti in tutta la loro forza gli argomenti irrefutabili da me addotti.

10. Inoltre, affinché costui non inganni i semplici con le sue astuzie, dichiaro che siamo privati di quel bene incomparabile che è l'esser giusti, fintantoché Gesù Cristo non diventa nostro. Tengo dunque in massima considerazione l'unione che abbiamo Cl. Nostro Capo, la dimora che egli tiene nei nostri cuori per mezzo della fede, la sacra unione per mezzo della quale godiamo di lui, affinché divenendo in tal modo nostro, ci comunichi i beni dei quali abbonda nella sua perfezione. Non dico dunque che dobbiamo considerare Gesù Cristo da lontano o fuori di noi, perché la sua giustizia ci sia accordata; ma in quanto siamo rivestiti di lui ed innestati sul suo corpo, in breve per il fatto che egli si è degnato di renderci una cosa sola con lui, ecco in che modo ci dobbiamo gloriare di aver diritto di partecipare alla sua giustizia. In questo si scopre la calunnia di Osiandro, quando ci rimprovera di tener la fede in conto di giustizia, come se, Cl. Dire che veniamo a lui vuoti e affamati al fine di essere riempiti e saziati di quel che lui solo ha, privassimo Gesù Cristo di quel che gli appartiene.

Ma Osiandro, disprezzando questa unione spirituale, ribadisce la sua grossolana mistura di Cristo con i credenti, che abbiamo già respinta, e condanna furiosamente coloro che non accettano la sua fantasticheria sulla giustizia essenziale perché, a suo giudizio, non credono che nella Cena si mangi Gesù Cristo nella sua sostanza. Quanto a me, reputo una gloria l'essere ingiuriato da un simile presuntuoso, inebriato nelle sue illusioni; soprattutto in quanto combatte generalmente tutti coloro che si sono unicamente attenuti alla Scrittura, senza risparmiare alcuno di coloro che doveva onorare con rispetto. E tanto più mi sento libero di trattare speditamente questo argomento, non essendo mosso da sentimenti personali, visto che egli non mi ha attaccato.

La sua tesi dunque, sostenuta con tanta insistenza e in modo così inopportuno, secondo cui la giustizia che abbiamo in Gesù Cristo è essenziale, e che egli abita in noi con la sua essenza, tende anzitutto a farci credere che Dio si mescoli a noi con una mistura simile a quella dei cibi che mangiamo. Ecco, infatti, come immagina che si riceva Gesù Cristo nella Cena! In secondo luogo, che Dio ci ispiri la sua giustizia, per mezzo della quale siamo realmente e di fatto giusti con lui. Questo sognatore pretende e afferma che Dio stesso è la sua giustizia, e poi la santità, dirittura e perfezione che sono in lui.

Non mi divertirò a lungo a confutare le testimonianze che distorce per applicarle al suo scopo. San Pietro dice che abbiamo dei doni superiori e preziosi, per esser resi partecipi della natura divina (2 Pi. 1.4); Osiandro ne deduce che Dio ha mescolato la sua essenza con la nostra, come se fossimo già quali l'Evangelo promette che saremo all'ultima venuta di Gesù Cristo. All'opposto, san Giovanni afferma che allora vedremo Dio quale è, poiché saremo simili a lui (1 Gv. 3.2).

Mi sono limitato a dare qualche assaggio di queste sciocchezze ai lettori, onde sappiano che non mi curo di confutarle, non perché mi sia difficile, ma per non esser noioso Cl. Trattare punti superflui.

2. C'è ancor più veleno nel passo in cui dice che siamo giusti con Dio. Penso aver già provato a sufficienza, anche se la sua dottrina non fosse così pestifera come in realtà è, che per la sua leggerezza ed inconsistenza, non contenendo che vento e vanità, dev'essere a buon diritto respinta come sciocca e inutile da tutti coloro che temono Dio ed hanno un sano intendimento. È insopportabile empietà il rovesciare tutta la fiducia nella nostra salvezza sotto l'apparenza di una doppia giustizia che questo sognatore ha voluto inventare, e il rapirci al di sopra delle nuvole per ritrarci dal riposo delle nostre coscienze fondato sulla morte di Gesù Cristo, e impedire che invochiamo Dio con serena fiducia.

Osiandro si beffa di coloro che dicono che il termine giustificare è tratto dal linguaggio giuridico comune, e significa "assolvere ". Infatti insiste su questo punto, che dobbiamo essere realmente giusti, e non ha nulla in maggior disprezzo che l'ammettere che siamo giustificati per mezzo di una attribuzione gratuita. Orbene, se Dio non giustifica perdonandoci e assolvendoci, che cosa significa l'affermazione da san Paolo spesso ripetuta, che Dio è in Cristo e riconcilia il mondo a se, senza imputare agli uomini i loro peccati, in quanto ha dato suo figlio in sacrificio per il peccato, affinché avessimo giustizia in lui? (2 Co. 5.21). Ho anzitutto risolto questo punto, che coloro i quali sono riconciliati con Dio sono reputati giusti. Il che significa che Dio giustifica perdonando, come nell'altro passo in cui l'accusa è contrapposta alla giustificazione. Da ciò risulta evidente che giustificare non significa altro che questo: Dio, giudice, vuole assolverci. Infatti, chiunque sarà mediocremente esperto nella lingua ebraica, se, al tempo stesso, è dotato di buon senso, non ignora la provenienza ed il significato di questo modo di parlare.

Ma mi risponda Osiandro, quando san Paolo dice che Davide ci descrive una giustizia senza opere con queste parole: "Beati coloro ai quali i peccati sono perdonati " (Ro 4.7; Sl. , . 32.1) : questa definizione è intera o a metà? Certo san Paolo non cita il Profeta come testimone del fatto che una parte della nostra giustizia sia situata nella remissione dei nostri peccati, ovvero che aiuti e supplisca alla giustificazione dell'uomo; ma include tutta la nostra giustizia nel perdono gratuito, per mezzo del quale Dio ci accoglie. Dichiarando felice l'uomo i cui peccati sono nascosti e al quale Dio ha perdonato le iniquità senza imputare le trasgressioni, fa risiedere la felicità non nel suo essere realmente giusto e di fatto, ma in quanto Dio lo riconosce e lo accoglie come tale.

Osiandro replica che sarebbe ingiusto da parte di Dio, e contrario alla sua natura, il giustificare coloro che, in realtà, rimarrebbero malvagi. Ma ci dobbiamo ricordare di quanto ho affermato, che la grazia di giustificare non è separata dalla rigenerazione, per quanto siano cose distinte. Ma poiché senza dubbio è noto, in base all'esperienza, che rimane sempre qualche traccia di peccato presso i giusti, bisogna pur che siano giustificati in altro modo, ma non perché rigenerati in novità di vita. Dio comincia a riformare i suoi eletti nella vita presente, prosegue quest'opera a poco a poco e non la porta a termine fino alla morte, di modo che sono sempre colpevoli di fronte al suo giudizio. Egli non giustifica solo in parte, ma fa in modo che i credenti, rivestiti della purezza di Cristo, osino comparire liberamente in cielo. Una porzione di giustizia non tranquillizzerebbe le coscienze, finché non sia chiaro che piacciamo a Dio in quanto siamo giusti dinanzi a lui senza eccezione. Ne consegue che il vero insegnamento concernente la giustificazione è pervertito e interamente capovolto quando si tormentano gli spiriti con dubbi, quando si scrolla in loro la fiducia della salvezza, quando si ritarda e si impedisce l'invocazione libera e franca di Dio, e quando non si dà loro riposo e tranquillità unite a gioia spirituale. San Paolo prende lo spunto da cose fra loro contrarie per indicare che l'eredità non si ha per mezzo della Legge (Ro 4.14); se così fosse, la fede sarebbe annullata, in quanto, se prende in considerazione le opere, non può che barcollare, visto che la persona più santa del mondo non troverà mai in esse di che confidare.

Questa differenza fra giustificare e rigenerare, che Osiandro confonde, è espressa molto bene da san Paolo. Infatti parlando della sua giustizia reale, o della disposizione d'animo a vivere bene che Dio gli aveva data (quel che Osiandro chiama giustizia essenziale ) esclama gemendo: "O quanto sono misero! E chi mi libererà da questo corpo di morte? " (Ro 7.24). Poi, avendo il suo rifugio nella giustizia, fondata sulla sola misericordia di Dio, si gloria in modo meraviglioso contro la morte, gli obbrobri, la povertà, la spada ed ogni afflizione: "Chi "dice "accuserà gli eletti di Dio, dato che egli li giustifica? Sono assolutamente persuaso che nulla ci separerà dall'amore che egli ha per noi in Gesù Cristo " (Ro 8.33). Afferma con forza e chiarezza che è dotato di una giustizia che da sola gli basta interamente alla salvezza dinanzi a Dio; tanto che il misero asservimento per il quale aveva deplorato la sua condizione, non deroga in nulla alla fiducia di gloriarsi, e non gli può impedire di giungere al suo scopo. Questo contrasto è ben noto, anzi perfino familiare a tutti i credenti che gemono sotto il fardello delle loro iniquità, e tuttavia non cessano di avere una fiducia vittoriosa per sormontare ogni timore e dubbio.

Quel che Osiandro risponde, che ciò non si addice alla natura di Dio, ricade sul suo capo. Infatti rivestendo i santi di una duplice giustizia, come di un vestito imbottito, è tuttavia costretto ad ammettere che nessuno piace a Dio senza la remissione dei peccati. Se questo è vero dovrà ammettere, per lo meno, che siamo reputati giusti nella misura, come si dice, dell'imputazione per la quale Dio ci gradisce. Ma fino a che punto il peccatore capirà quella gratuità di Dio, la quale fa sì che egli sia ritenuto giusto pur non essendolo? Si tratterà di un'oncia o di tutta la libbra? Certo pencolerà brancolando ed esitando, da un lato e dall'altro, senza poter raggiungere quel tanto di giustizia che gli sarebbe necessaria per assicurarsi la salvezza. Fortunatamente questo presuntuoso, che vorrebbe dettar legge a Dio, non è arbitro in questa causa. Ma rimarrà salda l'affermazione di Davide, che Dio sarà giustificato nelle sue parole, e vincerà coloro che lo vorranno condannare (Sl. 51.6). Che arroganza è questa, vi prego, di condannare il giudice sovrano, quando assolve gratuitamente? Come se non gli fosse lecito fare quello che ha affermato: "Avrò pietà di colui del quale vorrò aver pietà " (Es. 33.19). Tuttavia l'intercessione di Mosè, cui Dio risponde a quel modo, non tendeva a che Egli non perdonasse ad alcuno, ma a che perdonasse tutti ugualmente, poiché tutti erano colpevoli. Del resto, insegniamo che Dio seppellisce i peccati degli uomini che giustifica, perché odia il peccato e non può amare se non coloro che ritiene giusti. Li mirabile la giustificazione per la quale i peccatori, ricoperti dalla giustizia di Gesù Cristo, non hanno timore del giudizio di cui sono degni, e trovando in se stessi motivo di condanna, ricevono una giustificazione che risiede fuori di loro.

12. I lettori siano accorti e riflettano bene al grande mistero che Osiandro si vanta di non voler loro nascondere. Infatti dopo aver a lungo dibattuto che non acquistiamo favore verso Dio per mezzo della sola imputazione della giustizia di Cristo, poiché non si vergogna di dire che sarebbe impossibile a Dio ritenere giusti coloro che non lo sono, conclude infine che Gesù Cristo non ci è stato dato come giustizia riguardo alla sua natura umana, ma per la sua natura divina; e benché la giustizia non si possa trovare che nella persona del Mediatore, tuttavia conclude che essa non gli appartiene in quanto è uomo, ma in quanto è Dio. Così parlando non tesse più una corda con le due giustizie, come fece prima, ma toglie interamente la potenza e il ruolo di giustificare alla natura umana di Gesù Cristo.

È necessario notare a quali argomenti ricorre. San Paolo, nel passo citato, dice che Gesù Cristo ci è stato fatto sapienza, il che non si addice, secondo Osiandro, che alla Parola eterna. Ne conclude che Gesù Cristo, in quanto uomo, non è la nostra sapienza. Rispondo che il figlio unico di Dio è sempre stato la sua sapienza, ma che san Paolo gli attribuisce questo titolo in senso diverso: cioè dopo che ha assunto la nostra carne, tutti i tesori di sapienza e di intelligenza sono nascosti in lui (Cl. 2.3). Quel che aveva in suo Padre, ce lo ha dunque manifestato; così, il dire di san Paolo non si riferisce all'essenza del figlio di Dio, ma al nostro uso ed è molto ben appropriato alla sua natura umana. Benché, prima di essere stato rivestito di carne, fosse la luce risplendente nelle tenebre, era tuttavia come una luce nascosta, finché si è manifestato nella sua umanità per essere sole di giustizia. Perciò si definisce luce del mondo (Gv. 8.12).

Altra grande sciocchezza di Osiandro è l'affermazione che la potenza di giustificare sovrasta di molto la possibilità degli angeli e degli uomini, visto che non disputiamo intorno alla dignità di qualche creatura, ma diciamo che ciò dipende dal decreto e dalla disposizione di Dio. Se gli angeli volessero compiere la nostra espiazione davanti a Dio non ci riuscirebbero, poiché non sono destinati e stabiliti a ciò; è stato invece il compito particolare di Gesù Cristo, che è stato assoggettato alla Legge per riscattarci dalla maledizione della Legge (Ga 3.13).

È altresì calunnia grossolana accusare quelli che cercano la loro giustizia nella morte e nella passione del nostro Signor Gesù, di ritenere una parte soltanto di Gesù Cristo o, peggio ancora, di fare due dèi perché, se lo si vuol credere, non confessano che siamo giusti per mezzo della giustizia di Dio. Rispondo: pur chiamando Gesù Cristo "autore di vita ", in quanto con la sua morte annientò colui che aveva il dominio della morte (Eb. 2.14) , tuttavia, riguardo alla sua divinità, non lo frodiamo di quell'onore, ma distinguiamo solamente in che modo la giustizia di Dio giunge fino a noi, perché ne possiamo godere. In questo, Osiandro sbaglia troppo grossolanamente. Anzi non neghiamo che quanto ci è stato dato apertamente in Gesù Cristo provenga dalla grazia e potenza segreta di Dio; e non facciamo obiezioni a che la giustizia dataci da Gesù Cristo sia la giustizia di Dio venuta a noi per mezzo suo. Ma rimaniamo fermi in questo, che non possiamo trovar giustizia e vita se non nella morte e risurrezione di Gesù Cristo.

Tralascio la gran quantità di passi della Scrittura che dimostrano facilmente la sua impudenza, come quando prende a sostegno del suo dire quel che è spesso ripetuto nei Sl. , che piace a Dio soccorrere secondo la sua giustizia i suoi servitori. C'è forse in questo, vi prego, un motivo per affermare che partecipiamo della sostanza di Dio, perché egli ci soccorra? Né esiste maggior consistenza nel suo addurre che la giustizia meglio definita è quella che ci spinge a compiere il bene.

Poiché Dio solo produce in noi il volere e il fare (Fl. 2.13) , egli conclude che solo da lui abbiamo giustizia. Non neghiamo che Dio ci riformi, Cl. Suo Spirito, in santità di vita, ma bisogna anzitutto considerare se lo fa direttamente, per così dire, oppure per mano e per mezzo di suo figlio, al quale ha affidato in deposito la pienezza del suo Spirito perché sovvenga, con la sua abbondanza, alla povertà e alla carenza dei suoi membri. E se pure la giustizia scaturisce per noi dalla maestà di Dio, come da una sorgente nascosta, ciò non significa che Gesù Cristo, che si è santificato per noi nella sua carne (Gv. 17.19) , sia la nostra giustizia soltanto per la sua divinità.

Altrettanto frivolo è l'altro argomento, che cioè Gesù Cristo stesso fu giusto di giustizia divina, perché se non l'avesse spinto la volontà del Padre, non avrebbe adempiuto il compito a lui affidato. Pur avendo detto altrove che tutti i meriti di Cristo scaturiscono dalla pura gratuità di Dio, come i ruscelli dalla loro fonte, questo non ha alcun peso per la fantasia di Osiandro, con la quale abbaglia gli occhi dei semplici ed i suoi. Chi mai, infatti, sarà così malaccorto da concedergli, se Dio è la causa ed il principio della nostra giustizia, che siamo giusti nella nostra essenza, e che l'essenza della giustizia di Dio abita in noi? Isaia dice che Dio, nel riscattare la sua Chiesa, si è rivestito della sua giustizia come di una corazza (Is. 49.17); sarebbe forse stato per spogliare Gesù Cristo delle sue armi, dategli per essere perfetto redentore? Ma il significato delle parole del Profeta è chiaro: Dio non ha preso a prestito nulla dal di fuori, per portare a termine la sua opera, e non è stato aiutato da nessuno.

È quanto san Paolo ha sinteticamente dichiarato con altre parole: ci ha dato la salvezza per dimostrare la sua giustizia (Ro 3.25). Non annulla tuttavia quel che dice altrove, che siamo giusti per l'obbedienza di un uomo (Ro 5.19).

Concludendo, chiunque ingarbuglia le due giustizie, per impedire che le povere anime trovino riposo nella sola e pura misericordia di Dio, intreccia una corona di spine a Gesù Cristo per beffarsi di lui.

13. Tuttavia, poiché la maggioranza degli uomini immagina una giustizia mista, composta dalla fede e dalle opere, spieghiamo anche, prima di procedere, che la giustizia della fede differisce a tal punto da quella delle opere, che dove si afferma l'una, l'altra viene annullata. L'Apostolo dice che ha reputato ogni cosa come spazzatura per guadagnar Cristo, ed esser trovato in lui senza una giustizia sua propria, derivante dalla Legge, ma con quella che procede dalla fede in Gesù Cristo, cioè la giustizia che proviene da Dio per mezzo della fede (Fl. 3.8). Vediamo che in questo passo le pone una accanto all'altra come cose contrarie, dicendo che colui il quale vuole ottenere la giustizia di Cristo deve abbandonare la propria. Per questa ragione, in un altro passo individua la causa della rovina dei Giudei nel loro volersi costruire la propria giustizia, senza assoggettarsi a quella di Dio (Ro 10.3). Se nel costruire la nostra giustizia noi rifiutiamo quella di Dio, per ottenere la seconda bisogna che la prima sia interamente abolita. È quanto intende anche laddove dice che la nostra gloria non è esclusa dalla Legge, ma dalla fede (Ro 3.27). Ne consegue che finché rimane qualche goccia di giustizia nelle nostre opere, abbiamo un qualche motivo per gloriarci. D'altronde, se la fede esclude ogni glorificazione, la giustizia della fede non può assolutamente coesistere con quella delle opere. Lo dimostra in modo così chiaro da non lasciar posto ad alcun cavillo nel quarto capitolo ai Romani: "Se Abramo "dice "è stato giustificato per mezzo delle sue opere, ha di che gloriarsi "; poi aggiunge: "Orbene, non ha affatto di che gloriarsi dinanzi a Dio " (Ro 4.2). Ne deriva, dunque, che non è affatto giustificato dalle sue opere. Si serve poi di un altro argomento dicendo: quando il loro salario è dato secondo le opere, ciò non avviene per grazia, ma secondo il dovuto. Ora la giustizia è data alla fede per grazia; non proviene dunque dal merito delle opere. È pertanto assurda fantasia pensare che la giustizia consista e nella fede e nelle opere.

14. I Sofisti, ai quali non importa degradare la Scrittura, e che si compiacciono in cavilli, pensano avere una scappatoia molto intelligente affermando che le opere, di cui parla san Paolo, sono quelle compiute dagli uomini non rigenerati, che presumono del loro libero arbitrio. Dicono pertanto che ciò non concerne affatto le buone opere dei credenti, compiute per mezzo della potenza dello Spirito Santo. Secondo loro, l'uomo è giustificato sia dalla fede sia dalle opere, a condizione che le opere non gli siano proprie, ma doni di Cristo e frutti della rigenerazione. Dicono che san Paolo ha affermato questo in polemica con i Giudei, folli ed arroganti al punto di pensare di acquistarsi giustizia con la loro virtù e la loro forza, mentre ce la dà il solo spirito di Cristo e non già il moto del nostro libero arbitrio.

Ma non considerano che san Paolo, in un altro passo, opponendo la giustizia della Legge a quella dell'evangelo, esclude tutte le opere, qualunque sia l'attributo che le adorna o le abbellisce. Infatti dice che la giustizia secondo la Legge consiste nel fatto che chi l'adempirà sarà salvato; che la giustizia derivante dalla fede è di credere che Gesù Cristo è morto e risuscitato (Ro 10.5.9). Inoltre, vedremo fra poco che santificazione e giustizia sono benefici diversi, provenienti da Cristo. Perciò, quando si attribuisce alla fede il potere di giustificare, neanche le opere compiute per virtù dello Spirito Santo sono tenute in conto.

Per di più, san Paolo, dicendo che Abramo non ha di che gloriarsi verso Dio, visto che non può essere giusto per mezzo delle sue opere, non limita questo ad una parvenza di giustizia o a qualche abbellimento esteriore, o ad una presunzione che Abramo avrebbe avuta nei confronti del suo libero arbitrio, ma sebbene la vita di questo santo patriarca sia stata quasi angelica, tuttavia non ha potuto avere meriti che gli acquistassero giustizia dinanzi a Dio.

15. I teologi della Sorbona hanno la mano un po' più pesante ancora nel mescolare i loro preparati. Tuttavia quelle volpi di cui ho parlato ingannano i semplici con una fantasticheria altrettanto perversa, seppellendo sotto il velo dello Spirito e della grazia la misericordia di Dio, che sola poteva rassicurare le povere coscienze timorose. Noi affermiamo con san Paolo che coloro che osservano la Legge sono giustificati dinanzi a Dio: ma poiché siamo ben lontani da una tal perfezione, dobbiamo concludere che le opere che ci devono valere per acquistar giustizia non ci servono a nulla, poiché ne siamo privi. Quanto ai Sorbonisti, s'ingannano doppiamente: infatti chiamano "fede "la certezza di aspettare la remunerazione di Dio per i loro meriti, e Cl. Nome di "grazia "non intendono il dono della giustizia gratuita che riceviamo, ma l'aiuto dello Spirito Santo per vivere bene e santamente. Leggono negli scritti dell'apostolo che chi si avvicina a Dio deve credere che egli remunera coloro che lo cercano (Eb. 11.6); ma non vedono qual è il modo di cercarlo, che indicheremo fra poco.

Che si ingannino sul termine grazia, appare chiaramente dai loro libri. Infatti il loro Maestro delle Sentenze espone la giustizia che abbiamo per mezzo di Cristo, in duplice modo: anzitutto, dice, la morte di Cristo ci giustifica quando genera nei nostri cuori carità, per mezzo della quale siamo resi giusti. In secondo luogo, essa estingue il peccato, sotto il quale il diavolo ci teneva prigionieri, tanto che non può più sopraffarci. Non considera dunque la grazia di Dio se non in quanto siamo condotti a buone opere per la potenza dello Spirito Santo.

Ha voluto seguire l'opinione di sant'Agostino; ma la segue molto da lontano, anzi si scosta grandemente da una sua retta interpretazione: infatti oscura quel che era chiaramente affermato da quel sant'uomo e corrompe interamente quel che era un po' macchiato dal peccato. La scuola sorbonista è sempre andata di male in peggio, fino ad incappare nell'errore di Pelagio, anche se non dobbiamo accettare per intero l'affermazione di sant'Agostino, o per lo meno considerare improprio il suo modo di parlare. Infatti sebbene spogli molto bene l'uomo da ogni lode di giustizia e l'attribuisca tutta a Dio, identifica tuttavia la grazia con la santificazione che ci rigenera in novità di vita.

16. La Scrittura, parlando della giustizia derivante dalla fede, ci conduce in ben altra direzione: ci insegna infatti a distogliere lo sguardo dalle nostre opere, per contemplare soltanto la misericordia di Dio e la perfetta santità di Cristo. Essa ci indica questo procedimento di giustificazione, secondo il quale inizialmente Dio accoglie il peccatore per sua pura e gratuita bontà, senza considerare in lui nulla, all'infuori della sua miseria, che lo muova a misericordia; vedendolo interamente privo e vuoto di buone opere, prende spontaneamente l'iniziativa di fargli del bene. In seguito raggiunge il peccatore Cl. Sentimento della sua bontà, affinché costui, diffidando di tutto quel che ha, ponga tutta quanta la sua salvezza nella misericordia che Dio gli concede. Ecco il sentimento della fede, per mezzo del quale l'uomo entra in possesso della sua salvezza quando riconosce, attraverso l'insegnamento dell'evangelo, di essere riconciliato con Dio poiché, avendo ottenuto il perdono dei suoi peccati per mezzo della giustizia di Cristo, è giustificato. Sebbene sia rigenerato dallo spirito di Dio, non si adagia sulle buone opere che fa, ma è certo che la sua giustizia perpetua si trova nella sola giustizia di Cristo.

Quando tutte queste cose saranno state esaminate in particolare, sarà facile spiegare quel che ha attinenza a questo argomento; ma queste cose saranno meglio assimilate se le poniamo in un ordine diverso da quello in cui le abbiamo proposte. Ciò del resto non ha importanza, a condizione che siano dedotte in modo tale che tutto il problema sia ben capito.

17. Ci dobbiamo qui ricordare della corrispondenza che abbiamo precedentemente stabilita tra la fede e l'Evangelo. Infatti diciamo che la fede giustifica in quanto accetta la giustizia offerta nell'evangelo. Se nell'evangelo la giustizia ci è offerta, con ciò è esclusa ogni valutazione delle opere. San Paolo lo indica spesso, ma soprattutto in due passi.

Nell'Epistola ai Romani, paragonando la Legge con l'Evangelo dice: "La giustizia che deriva dalla Legge, è che chiunque ubbidirà al comandamento di Dio vivrà; ma la giustizia derivante dalla fede annuncia la salvezza a colui che crederà con il cuore, e confesserà con la bocca Gesù Cristo, e che il Padre lo ha risuscitato dai morti " (Ro 10.5.9). Non vediamo forse chiaramente che egli stabilisce questa differenza fra Legge e Evangelo, che la Legge pone la giustizia nelle opere, l'Evangelo la dà gratuitamente, senza riguardo alle opere? Certo è un passo notevole, che può risolvere parecchie difficoltà, poiché è già molto se comprendiamo che la giustizia dataci nell'evangelo è libera dalle condizioni della Legge. Li la ragione per cui oppone tanto spesso la Legge e la promessa, come cose contrarie. "Se l'eredità "dice "viene dalla Legge, non è dalla promessa " (Ga 3.18) , e altre affermazioni simili, contenute nel medesimo capitolo. È certo che la Legge ha anche le sue promesse. Bisogna dunque che le promesse dell'evangelo abbiano qualcosa di speciale e di diverso, se non vogliamo dire che il paragone è inadatto. Che cosa sarà, se non che esse sono gratuite e poggiano sulla sola misericordia di Dio, mentre le promesse della Legge dipendono dalla condizione delle opere? E non bisogna che qualcuno suggerisca che qui san Paolo ha semplicemente voluto riprovare la giustizia che gli uomini presumono di portare a Dio Cl. Loro libero arbitrio e con le loro forze naturali, poiché egli afferma esplicitamente che la Legge non ha per nulla giovato con i suoi comandamenti, visto che nessuno la compie, non solo fra la gente comune, ma fra i più perfetti. Certo l'amore è l'elemento essenziale della Legge, e Cristo ci forma e ci conduce ad esso; perché allora non siamo giusti amando Dio ed i nostri simili, se non perché l'amore è così debole ed imperfetto perfino presso i più santi, che non mentano di essere apprezzati o accettati da Dio?

18. Il secondo passo è questo: "È chiaro che nessuno è giustificato davanti a Dio per mezzo della Legge, poiché il giusto vivrà per fede. Ma la Legge non è secondo la fede, in quanto dice: "Chi farà le cose prescritte, vivrà per esse " " (Ga 3.2.12). Come reggerebbe l'argomento, se non fosse stabilito innanzitutto che le opere non entrano nel conto, ma che bisogna considerarle a parte? La Legge, dice, è diversa dalla fede. In che cosa? In quanto, aggiunge, essa richiede le opere per giustificare l'uomo. Ne deriva dunque che le opere non sono richieste, quando l'uomo deve essere giustificato per fede. Dal fatto che l'una è opposta all'altra risulta evidente che chi è giustificato per fede è giustificato senza alcun merito proveniente dalle sue opere, anzi al di fuori di ogni merito. Infatti la fede accetta la giustizia che l'Evangelo presenta, ed è detto che l'Evangelo è in ciò diverso dalla Legge, poiché non lega la giustizia alle opere, ma la fa risiedere nella sola misericordia.

Di una simile deduzione si serve nell'epistola ai Romani: Abramo non ha motivo di gloriarsi, in quanto la fede gli è stata imputata come giustizia (Ro 4.2). La conseguenza è che la giustizia derivante dalla fede si attua quando non vi sono opere per le quali sia dovuta una ricompensa. Laddove sono le opere, dice, la ricompensa viene data come dovuta; quel che è dato alla fede è gratuito. Quel che segue tende al medesimo scopo, cioè che otteniamo l'eredità celeste per mezzo della fede, affinché comprendiamo che ci proviene dalla grazia. Ne deduce che l'eredità celeste è gratuita, in quanto la riceviamo per mezzo della fede. Perché questo, se non perché la fede, senza avere alcun appoggio sulle opere, si fonda interamente sulla misericordia di Dio?

Non c'è dubbio che in questo stesso senso deve intendersi quanto dice altrove, che la giustizia di Dio è stata manifestata senza la Legge, benché essa sia attestata dalla Legge e dai Profeti (Ro 3.21). Escludendo la Legge, intende dire che non siamo aiutati dai nostri meriti, e non acquistiamo giustizia per mezzo di quel che facciamo di bene; ma ci dobbiamo presentare vuoti e poveri per riceverla.

19. I lettori possono vedere di quale equità usano oggi i Sofisti cavillando sul nostro insegnamento, quando diciamo che l'uomo è giustificato per mezzo della sola fede. Non osano negare che l'uomo sia giustificato per fede, vedendo che la Scrittura lo afferma così spesso; ma poiché il vocabolo "sola "non vi è espresso, ci rimproverano di averlo aggiunto di nostra iniziativa. Se così è, che cosa risponderanno alle parole con cui san Paolo deduce che la giustizia non proviene dalla fede, se non è gratuita? Come quel che è gratuito si accorderà con le opere? E con quale calunnia potranno liberarsi da quel che è detto altrove, che la giustizia di Dio è manifestata nell'evangelo? (Ro 1.17). Se essa vi è manifestata, non lo è né a metà né in parte soltanto, ma in modo pieno e completo; di conseguenza, la Legge è esclusa. Infatti, quando dicono che aggiungiamo del nostro, dicendo la "sola fede ", non soltanto le loro obiezioni sono false, ma assolutamente ridicole. Chi toglie ogni potenza di giustificazione alle opere, non l'attribuisce interamente alla fede? Che altro significano queste espressioni di san Paolo, che la giustizia ci è data senza la Legge; che l'uomo è giustificato gratuitamente senza l'aiuto delle sue opere? (Ro 3.21.24).

Essi ricorrono, a questo punto, ad un sotterfugio molto abile: escludono le opere cerimoniali, non le opere morali. Motivazione inetta, anche se attinta in Origene e in qualche altro antico. Traggono tanto giovamento dall'abbaiare del continuo nelle loro scuole, da non conoscere neppure i primi rudimenti della dialettica. Pensano forse che l'Apostolo sia fuori di senno, adducendo queste testimonianze per provare la sua affermazione? "Chi farà queste cose vivrà in esse". E "Maledetto l'uomo che non compirà tutte le cose scritte qui " (Ga 3.10.12).

Se proprio non sono del tutto fuor di senno, non potranno dire che la vita eterna è promessa a chi osserva le cerimonie, e che solo i trasgressori di quelle sono maledetti. Bisogna dunque riferire questi passi alla legge morale, e non c'è dubbio che le opere morali sono escluse dal potere di giustificare. Le ragioni di cui si serve tendono ad un medesimo fine, come quando dice: "Dalla Legge viene la conoscenza del peccato, non la giustizia. La Legge genera l'ira di Dio; essa non ci reca dunque salvezza " (Ro 3.20; 4.15). E: "Se la Legge non può render sicure le coscienze, essa non può dar giustizia ". E: "Poiché la fede è tenuta in conto di giustizia, non è come ricompensa delle opere che questa ci è data, ma è un dono gratuito di Dio ". E: "Se siamo giustificati per mezzo della fede, ogni gloria è abbattuta "E: "Se la Legge potesse vivificarci troveremmo giustizia in essa; ma Dio ha incluso tutte le creature sotto il giogo del peccato, al fine di dare la salvezza promessa ai credenti " (Ga 3.21). Dicano, se osano, che ciò si riferisce alle cerimonie e non alle opere morali; i bimbi stessi si befferebbero della loro spudoratezza.

Sia dunque chiaro che quando il potere di giustificare è negato alla Legge, bisogna intendere ciò a proposito della Legge intera.

20. A chi si stupisce che l'Apostolo abbia voluto specificare le opere "della Legge ", senza limitarsi a dire semplicemente le opere, diamo pronta risposta. Il valore delle opere deriva dal fatto che sono approvate da Dio, piuttosto che dalla dignità loro propria. Infatti, chi oserà vantarsi di qualche giustizia nei confronti di Dio, se essa non gli è accetta? E chi oserà chiedergli una ricompensa, se egli non l'ha promessa? È dunque per bontà di Dio che le opere saranno degne del titolo di giustizia e avranno una ricompensa, se possono esserne degne. Tutto il valore delle opere consiste nel fatto che l'uomo, per mezzo loro, intende ubbidire a Dio.

Per questo l'Apostolo, volendo provare, in un altro passo, che Abramo non poteva essere giustificato per mezzo delle sue opere, afferma che la Legge è stata stipulata circa quattrocento anni dopo che il patto di grazia gli era stato dato (Ga 3.17). Gli ignoranti riderebbero di questo argomento, pensando che potevano pur esserci delle buone opere prima che la Legge fosse emanata. Ma poiché ben sapeva che le opere non hanno altra dignità se non in quanto sono gradite a Dio, considera cosa nota che esse non potessero giustificare prima che le promesse della Legge fossero date. Per questo indica per nome le opere della Legge, volendo sottrarre alle opere la possibilità di giustificare: perché non poteva esserci controversia se non a proposito di quelle. Talvolta, è vero, categoricamente e senza specificazioni esclude tutte le opere: come quando dice che Davide definisce beato l'uomo al quale Dio ha imputato la giustizia senza alcuna opera (Ro 4.6). Con tutte le loro sottigliezze non possono impedirci di ritenere nella sua generalità l'affermazione di principio.

Invano ricorrono ad un altro cavillo ancora, quando dicono che siamo giustificati per mezzo della sola fede che opera attraverso la carità, volendo con ciò significare che la giustizia si fonda sulla carità. Certo, riconosciamo con san Paolo che non v'è altra fede che giustifica se non quella che è congiunta alla carità (Ga 5.6). Essa però non trae dalla carità la possibilità di giustificare; anzi, non giustifica se non perché ci mette in comunicazione con la giustizia di Cristo. Altrimenti sarebbe rovesciato l'argomento che l'Apostolo adduce con tanta forza quando dice che la ricompensa a colui che opera è calcolata non secondo la grazia ma secondo il debito (Ro 4.4); al contrario, a colui che non opera ma crede in colui che giustifica l'iniquo, la fede è messa in conto di giustizia. Potrebbe parlare in modo più chiaro di così? Non v'è alcuna giustizia della fede se non quando non vi è nessuna opera alla quale sia dovuta una ricompensa, e allora finalmente la fede è messa in conto di giustizia, quando la giustizia ci è data per grazia, non dovuta.

21. Ora consideriamo se è vero quel che è stato detto nella definizione da noi posta: la giustizia che deriva dalla fede non è altro che riconciliazione con Dio, la quale consiste nella remissione dei peccati.

Dobbiamo sempre riferirci a questa massima: l'ira di Dio è preparata per tutti coloro che persistono nel peccato. È quanto Isaia ha chiaramente affermato dicendo: "La mano di Dio non si è accorciata perché non ci possa salvare; il suo orecchio non è tappato perché non ci possa udire. Ma le nostre iniquità hanno operato una frattura fra lui e noi, ed i nostri peccati hanno distolto il suo volto da noi, di modo che egli non ci esaudisce " (Is. 49.1-2). Sappiamo che il peccato è una frattura fra Dio e l'uomo, e che esso distoglie il volto di Dio dal peccatore. In verità non può essere diversamente, poiché non si addice affatto alla sua giustizia l'aver a che fare Cl. Peccato. Perciò san Paolo dice che l'uomo è nemico di Dio finché non è reintegrato nella sua grazia ad opera di Cristo (Ro 5.8.10). Si dice dunque di colui che Dio riceve nel suo amore, che è giustificato, perché Dio non può accogliere nessuno per unirlo a se senza prima renderlo giusto, da peccatore qual era.

Aggiungiamo che ciò accade per mezzo della remissione dei peccati; se infatti consideriamo coloro che sono riconciliati con Dio secondo le loro opere' li troveremo peccatori, mentre bisogna che siano interamente puri e nettati dal peccato. È dunque chiaro che coloro che Dio riceve nella sua grazia non sono resi giusti altrimenti che con la purificazione, in quanto le loro macchie sono cancellate dalla remissione offerta loro da Dio, al punto che una tal giustizia può, in una parola, chiamarsi remissione dei peccati.

22. L'una e l'altra cosa sono molto ben affermate dalle parole di san Paolo da me precedentemente riferite, laddove dice che Dio era in Cristo, riconciliando a se il mondo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidandoci la parola della riconciliazione. In seguito aggiunge il sunto del suo messaggio: colui che era puro e netto di peccato è stato fatto peccato per noi (2 Co. 5.19.21) , cioè sacrificio sul quale tutti i nostri peccati sono stati trasferiti, affinché fossimo giusti in lui dinanzi a Dio. Egli nomina indifferentemente, in questo passo, la giustizia e la riconciliazione, tanto che comprendiamo che l'una è contenuta nell'altra.

Spiega anche il modo di ottenere questa giustizia, quando dice che essa consiste nel fatto che Dio non ci imputa i nostri peccati. Di conseguenza, nessuno chieda più in che modo Dio ci giustifica, se san Paolo dice espressamente che lo fa in quanto ci riconcilia con se, senza imputarci i nostri peccati. Così pure nell'epistola ai Romani, egli dimostra che la giustizia è imputata all'uomo senza le opere, per la testimonianza di Davide: dichiara beato l'uomo le cui iniquità sono perdonate, i cui peccati sono nascosti, e a cui le colpe non sono imputate (Ro 4.6). Non c'è dubbio che Davide abbia voluto intendere la giustizia Cl. Termine beatitudine. Poiché afferma che essa consiste nella remissione dei peccati, non è necessario che la definiamo in altro modo. Anche Zaccaria, padre di Giovanni Battista, stabilisce la conoscenza della salvezza nella remissione dei peccati (Lu 1.77). Secondo questa stessa regola, san Paolo conclude la predicazione rivolta agli abitanti di Antiochia intorno al centro della loro salvezza, dicendo: "Per mezzo di Gesù Cristo, la remissione dei peccati vi è annunciata; e di tutte le cose da cui non potevate esser giustificati dalla legge di Mosè, chiunque crede in Lui è giustificato " (At. 13.38). Unisce a tal punto la giustizia con la remissione dei peccati, da affermare che sono una medesima cosa. A buon diritto, dunque, deduce sempre che la giustizia da noi ottenuta per mezzo della bontà di Dio, è gratuita.

Non deve sembrare cosa nuova il dire che i credenti sono giusti dinanzi a Dio non già per le loro opere, ma perché gratuitamente accolti; la Scrittura lo ripete così spesso, e perfino gli antichi dottori. Così sant'Agostino, quando dice che in questa vita la giustizia dei santi consiste più nella remissione dei peccati che in perfezione di virtù; a questo fanno eco quelle belle affermazioni di san Bernardo, che la giustizia di Dio è non peccare, la giustizia dell'uomo è l'indulgenza ed il perdono che egli ottiene da Dio; Cristo è per noi giustizia, facendoci assolvere; non vi saranno altri giusti che coloro i quali sono ricevuti per grazia.

23. Di conseguenza, siamo giustificati dinanzi a Dio per il solo mezzo della giustizia di Cristo; equivale a dire che l'uomo non è giusto di per se, ma perché la giustizia di Cristo gli è comunicata per attribuzione; è cosa da considerare con somma attenzione. Così svanisce la fantasticheria secondo la quale l'uomo sarebbe giustificato per fede in quanto per mezzo di essa riceve lo Spirito di Dio, dal quale è reso giusto. Insegnamento opposto a quello dato precedentemente, poiché non v'è dubbio che colui che deve cercare giustizia al di fuori di se è spogliato della sua propria. L'Apostolo lo ricorda chiaramente, quando dice che colui che era innocente ha portato i nostri peccati, presentandosi in sacrificio per noi affinché fossimo, in lui, giusti dinanzi a Dio (2 Co. 5.21). Vediamo che ripone la nostra giustizia in Cristo, non in noi; che la giustizia non ci appartiene per altro diritto se non in quanto siamo partecipi di Cristo, poiché possedendolo possediamo con lui tutte le sue ricchezze.

Quel che afferma in un altro passo non vi contraddice affatto: il peccato in quanto tale è stato condannato nella carne di Cristo, affinché la giustizia di Dio fosse compiuta in noi (Ro 8.3). Non intende altro compimento se non quello che otteniamo per attribuzione. Infatti il Signor Gesù ci comunica la sua giustizia in modo tale, che per un potere indicibile essa è trasferita in noi, secondo il giudizio di Dio. Che non abbia voluto dire cosa diversa da questa, appare dall'affermazione fatta poco prima: come per la disubbidienza di uno solo siamo divenuti peccatori, così per l'ubbidienza di uno solo siamo giustificati (Ro 5.19). Che altro significa fondare la nostra giustizia sull'obbedienza di Cristo, se non affermare che siamo giusti perché l'obbedienza di Cristo ci è accordata, e ricevuta in compenso come se fosse nostra?

Perciò mi pare che sant'Ambrogio abbia felicemente paragonato questa giustizia alla benedizione di Giacobbe: come Giacobbe, che non possedeva per merito suo la primogenitura, nascosto sotto le spoglie di suo fratello e vestito del suo abito che emanava buon odore, si è insinuato da suo padre per ricevere la benedizione nella persona dell'altro, così ci dobbiamo nascondere sotto la veste di Cristo, nostro fratello primogenito, per ricevere l'attribuzione della giustizia davanti al volto del nostro Padre celeste.

È la pura verità. Infatti per comparire dinanzi a Dio in salvezza, bisogna che siamo profumati del suo buon odore, e che i nostri peccati siano sepolti dalla sua perfezione.