Letteratura/Istituzione/3-18

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Indice generale

Istituzioni della religione cristiana (Calvino)

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CAPITOLO 18.

È SBAGLIATO DEDURRE CHE SIAMO GIUSTIFICATI DALLE OPERE PER IL FATTO CHE DIO PROMETTE LORO UNA RICOMPENSA

1. Esponiamo ora i passi in cui è detto che Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere (Mt. 16.27) : "Ciascuno riceverà secondo quel che avrà fatto quando era nel corpo, sia in bene sia in male " (2 Co. 5.10); "Gloria e onore a colui che compirà il bene; tribolazione e angoscia per l'anima di colui che fa' il male " (Ro 2.6.9.10); "Coloro che saranno vissuti con rettitudine conosceranno la risurrezione di vita " (Gv. 5.29); "Venite, voi che siete benedetti dal Padre mio: ho avuto fame e mi avete saziato; ho avuto sete, e mi avete dato da bere " (Mt. 25.34.35). A questi passi sarà opportuno collegare anche quelli in cui la vita eterna è detta "ricompensa ". Come quando è detto che la remunerazione sarà data all'uomo secondo l'opera delle sue mani. "Colui che ubbidisce al comandamento di Dio sarà ricompensato " (Pr 12.14; 13.13); "Rallegratevi, poiché la vostra ricompensa è grande nel cielo ", (Mt. 5.12; Lu 6.23); "Ognuno riceverà la ricompensa secondo il suo lavoro " (1 Co. 3.8).

L'affermazione: Dio darà a ciascuno secondo le sue opere, si può spiegare senza gran difficoltà. Infatti questo modo di dire indica l'effetto piuttosto che la causa per cui Dio ricompensa gli uomini. Senza dubbio il nostro Signore si vale di alcuni stadi per compiere la nostra salvezza: dopo averci eletti, ci chiama; dopo averci chiamati, ci giustifica; dopo averci giustificati, ci glorifica (Ro 8.30). Sebbene egli accolga i suoi nella vita per sua sola misericordia, tuttavia, conducendoli ad essa attraverso le buone opere al fine di compiere in loro la sua volontà secondo l'ordine che ha stabilito, non fa meraviglia se è detto che essi sono incoronati secondo le loro opere, con le quali sono preparati a ricevere la corona di immortalità. Per questa stessa ragione è detto che essi compiono la loro salvezza (Fl. 2.12) quando, dandosi alle buone opere, meditano la vita eterna. Così è loro ordinato di adoperarsi per il cibo che non perisce (Gv. 6.27) , quando acquistano vita credendo in Gesù Cristo; ma è subito aggiunto che il Figlio dell'uomo darà loro questo cibo. Ne consegue dunque che il termine lavorare, o operare, non si oppone alla grazia ma implica semplicemente impegno e iniziativa. Non ne deriva che siano autori della loro salvezza o che la loro salvezza proceda dalle buone opere. Non appena, per mezzo della conoscenza dell'evangelo e dell'illuminazione dello Spirito Santo, sono stati chiamati alla comunione di Cristo, la vita eterna è cominciata in loro; in seguito, il Signore porta a termine l'opera che ha iniziata in loro, fino al giorno di Gesù Cristo (Fl. 1.6). L'opera di Dio è compiuta in loro quando si riconoscono come suoi figli non degeneri, i quali riproducono l'immagine del loro Padre celeste in giustizia e santità.

2. Quanto al termine ricompensa, non ci deve indurre a vedere nelle nostre opere la causa della nostra salvezza. Anzitutto, sia chiaro nel nostro cuore che il Regno dei cieli non è un salario per dei servitori, ma un'eredità per dei figli (Ef. 1.5.18) , e di esso goderanno soltanto coloro che Dio ha adottati come suoi figli e ne goderanno solo a motivo di quella adozione. Non il figlio della schiava sarà erede (come è scritto ) , ma il figlio della donna libera (Ga 4.30). Infatti, nei medesimi passi in cui lo Spirito Santo promette la vita eterna come ricompensa delle opere, chiamandola esplicitamente eredità, dice che essa ci proviene da altro. Cristo, chiamando gli eletti di suo Padre a possedere il regno dei cieli, afferma quali sono le opere che vuole in tal modo ricompensare; ma subito aggiunge che essi lo possederanno per diritto di eredità (Mt. 25.34). Anche san Paolo esorta i servitori che compiono fedelmente il loro dovere a sperare ricompensa dal Signore; ma tosto aggiunge che è una ricompensa di eredità (Cl. 3.24). Vediamo come Cristo e i suoi Apostoli esplicitamente riferiscono la beatitudine eterna non alle opere ma all'adozione di Dio.

Perché dunque, dirà qualcuno, menzionano anche le opere? A questa domanda si potrà rispondere con un solo esempio tratto dalla Scrittura. Prima della nascita di Isacco era stato promesso ad Abramo che avrebbe avuto una progenie in cui sarebbero state benedette tutte le nazioni della terra, e che la sua discendenza sarebbe stata simile alle stelle del cielo ed alla sabbia del mare (Ge 15.5; 17.1; 18.10). Molto tempo dopo egli si prepara ad immolare suo figlio Isacco secondo il comandamento di Dio. Dopo aver dimostrato simile obbedienza riceve la promessa: "l'ho giurato per me stesso, dice il Signore, poiché hai fatto ciò e, per compiacermi, non hai risparmiato il tuo unico figlio: io ti benedirò e moltiplicherò la tua progenie come le stelle del cielo e la sabbia del mare; e nella tua progenie saranno benedette tutte le nazioni della terra, perché hai ubbidito alla mia voce " (Ge 22.3.16.18). Che cosa significa questo? Abramo aveva egli meritato, con la sua obbedienza, quella benedizione, che gli era stata promessa prima che gli fosse dato il comandamento? In questo caso vediamo senza possibilità di equivoci che il Signore remunera le opere dei credenti con quei medesimi benefici, che già aveva loro promesso prima che avessero pensato di far qualcosa, e per il tempo in cui egli non aveva alcun motivo di far loro del bene, all'infuori della sua misericordia.

3. Non si tratta né di inganno né di presa in giro, quando dice che ricompensa le opere con quel che aveva dato gratuitamente prima delle opere. Infatti, volendo che meditiamo il compiersi e il godimento delle cose che ha promesse esercitandoci nelle buone opere, e che per mezzo loro noi camminiamo per giungere alla speranza beata che egli ci ha proposto in cielo, è a ragione che e loro assegnato il frutto delle promesse, poiché esse sono come dei mezzi per condurci a quel godimento. L'una e l'altra cosa sono state molto ben espresse dall'apostolo, quando dice che i Colossesi seguivano la carità, per la speranza che era loro posta in cielo, della quale avevano udito parlare dal vero insegnamento dell'evangelo (Cl. 1.4.5). Dicendo che hanno preso coscienza per mezzo dell'evangelo del fatto che l'eredità celeste era loro preparata, dimostra che la speranza di questa è fondata solo in Cristo, non già nelle opere. A questo si accorda quanto dice san Pietro, che siamo messi a parte dalla potenza di Dio per mezzo della fede, per la salvezza che è preparata per essere a suo tempo manifestata (1 Pi. 1.5). Quando dice che pertanto si sforzano di compiere il bene, dimostra che i credenti, per tutto il tempo della loro vita, devono correre per afferrarlo.

Affinché non pensiamo che il salario che il Signore ci promette si debba misurare in base ai meriti, ci propone una parabola nella quale egli si paragona ad un padre di famiglia che manda nella sua vigna tutti coloro che incontra, alcuni nella prima ora del giorno, altri nella seconda, altri nella terza, altri nell'undicesima. Quando giunge la sera, distribuisce a tutti uguale ricompensa (Mt. 20.1). L'esegesi di questa parabola è data molto bene e brevemente nel libro intitolato De vocatione gentium, che si attribuisce a sant'Ambrogio. Trattandosi di un antico Dottore, preferisco servirmi delle sue parole anziché delle mie: "Con questo paragone "dice "il Signore ha voluto dimostrare che la chiamata di tutti i credenti, sebbene ci sia qualche diversità nell'apparenza esteriore, appartiene alla sola sua grazia. Coloro dunque, che dopo aver lavorato soltanto un'ora, sono resi uguali a quelli che hanno lavorato per tutto il giorno rappresentano la condizione di coloro che Dio, per magnificare l'eccellenza della sua grazia, chiama sul finire della loro vita, per remunerarli secondo la sua clemenza, non pagando loro il salano del loro lavoro ma spandendo su loro le ricchezze della sua bontà, così come li ha chiamati senza le loro opere, affinché anche coloro che hanno lavorato a lungo, e non ricevono più degli ultimi, capiscano che ricevono tutto dal dono della sua grazia, e non come ricompensa del loro lavoro ".

C'è anche da notare che in tutti i passi che definiscono la vita eterna come ricompensa delle buone opere, essa non è semplicemente intesa come la comunione che abbiamo con Dio quando egli ci accoglie nel nostro Signor Gesù per farci suoi eredi, ma come il possesso o il godimento della beatitudine che abbiamo nel suo regno; lo implicano anche le parole di Cristo, quando dice: "Nel secolo a venire avrete la vita eterna " (Mr. 10.30) , e: "Venite, possedete il regno " (Mt. 25.34) , ecc. Per questo motivo san Paolo chiama la rivelazione, che avverrà nell'ultimo giorno, "nostra adozione "; e spiega in seguito il termine come redenzione del nostro corpo (Ro 8.18). Del resto, come colui che è lontano da Dio si trova nella morte eterna, così chiunque è ricevuto nella grazia di Dio, per aver comunione ed essere unito a lui, è trasportato dalla morte alla vita; e questo avviene unicamente con la grazia dell'adozione. E se a modo loro si dimostrano ostinati sul termine ricompensa, presenteremo loro sempre all'opposto quel che dice san Pietro, che la vita eterna è la ricompensa della fede (1 Pi. 1.9).

4. Non pensiamo però che lo Spirito Santo, con le promesse precedentemente esposte, voglia apprezzare la dignità delle opere come se esse meritassero qualche ricompensa. Infatti la Scrittura non ci lascia nulla di cui ci possiamo gloriare dinanzi al volto di Dio. Al contrario, essa ha unicamente lo scopo di confondere il nostro orgoglio, umiliarci, abbatterci e annullarci completamente. Ma con le promesse suddette lo Spirito Santo viene incontro alla nostra debolezza, che altrimenti cadrebbe e verrebbe subito meno, se non fosse in tal modo sostenuta e consolata. Anzitutto, ciascuno consideri quanto è duro abbandonare e rinunciare non solo a tutte le cose che ama, ma anche a se stesso. Tuttavia, è la prima lezione che Cristo dà ai suoi discepoli, cioè a tutti i credenti; e per tutto il corso della loro vita li tiene sotto la disciplina della croce, affinché non ripongano il loro cuore nel desiderio o nella sicurezza dei beni terreni. In breve, li tratta in modo tale che, da qualunque lato si volgano, per tutta l'estensione di questo mondo, non vedano che disperazione. Infatti san Paolo dice che siamo i più miserabili fra tutti gli uomini, se speriamo per questa vita soltanto (1 Co. 15.19). Affinché dunque non perdiamo coraggio in simili angosce, il Signore ci assiste e ci invita a levare gli occhi e a guardare più lontano, promettendoci che troveremo in lui la beatitudine che non vediamo in questo mondo. Egli la chiama ricompensa, salario, retribuzione, non già perché valuti il merito delle nostre opere, ma perché vuol significare che è una ricompensa per le miserie, tribolazioni ed obbrobri che sopportiamo sulla terra. Perciò non v'è alcun male se chiamiamo remunerazione, sull'esempio della Scrittura, la vita eterna; in essa il Signore fa passare i suoi servitori dalla fatica al riposo, dall'afflizione alla consolazione, dalla tristezza alla gioia, dalla povertà alla ricchezza, dall'ignominia alla gloria; infine, egli trasforma tutti i mali che essi hanno sopportato in beni maggiori. Parimenti non ci sarà alcun inconveniente nel ritenere che la santità di vita è la via, non già che ci apre la gloria celeste, ma per il cui mezzo Dio conduce i suoi eletti alla manifestazione di quella, visto che gli piace glorificare coloro che ha santificati (Ro 8.30). Purché non immaginiamo alcuna corrispondenza tra il merito e la ricompensa. In questo si ingannano grandemente i Sofisti 2, poiché non considerano il fine che abbiamo esposto. Non è forse una presa in giro, quando Dio ci chiama ad uno scopo, volgere gli occhi da un'altra parte? Nulla è più chiaro del fatto che la ricompensa è promessa alle buone opere, non per gonfiare di gloria il nostro cuore, ma per dar sollievo alla debolezza della nostra carne. Colui dunque che vuol dedurre in tal modo un qualche merito dalle opere, o farne un contrappeso, si allontana dalla meta che Dio propone.

5. Quando la Scrittura afferma che Dio, giusto giudice, darà la corona di giustizia ai suoi servitori (2Ti 4.8) , rispondo con sant'Agostino: "In che modo darebbe la corona come giusto giudice, se dapprima non avesse dato la grazia come padre misericordioso? E come vi sarebbe giustizia, se non preceduta dalla grazia che giustifica l'iniquo? E in che modo potremmo aver diritto a questa corona, se tutto quel che abbiamo non ci fosse stato dato senza esser dovuto? ". Ed aggiungo: Come metterebbe le nostre opere in conto di giustizia, se non nascondesse con la sua indulgenza la loro ingiustizia? Come le riterrebbe degne di ricompensa, se non cancellasse con la sua infinita benignità quel che in esse è degno di castigo? Aggiungo questo alle affermazioni di sant'Agostino, che è solito chiamare "grazia "la vita eterna, per il fatto che ci è largita per i doni gratuiti di Dio e non per le nostre opere. La Scrittura ci umilia ancor più, e tuttavia ci innalza. Oltre a proibirci di gloriarci delle nostre opere, doni gratuiti di Dio, ci fa anche vedere che sono sempre intaccate da impurità, tanto che esse non possono soddisfare né piacere a Dio, se esaminate in base al suo rigore; ma affinché il nostro zelo non si spenga, è detto pure che piacciono a Dio perché egli le sopporta.

Benché sant'Agostino usi un linguaggio un po' diverso dal nostro, concordiamo sul senso e sulla sostanza. Nel terzo libro a Bonifacio, facendo un paragone fra due uomini di cui uno abbia una vita così santa e perfetta da poter essere considerato un angelo, e l'altro abbia sì una vita buona e onesta ma non così perfetta e santa, conclude: "Questo secondo, che per certo pare inferiore all'altro quanto alla sua vita, eccelle maggiormente per la retta fede che ha in Dio, per mezzo della quale vive e in base alla quale si accusa dei suoi peccati; in tutte le sue buone opere loda Dio, attribuendogli ogni gloria e prendendo su di se l'ignominia, ricevendo da lui il perdono dei suoi peccati e la disposizione a compiere il bene; così, al momento di partire da questo mondo, sarà accolto in Paradiso, nella comunione di Cristo. Perché questo, se non per la sua fede? Sebbene essa non salvi l'uomo se rimane staccata dalle opere, in quanto si tratta di una fede viva che opera attraverso la carità, tuttavia essa sola è la causa per cui i peccati sono perdonati. Come dice il Profeta: "Il giusto vive di fede " (Hab 2.4) , e senza quella anche le opere che paiono buone sono convertite in peccato ".

Egli afferma esplicitamente in questo passo quel che dibattiamo e manteniamo al di sopra di ogni cosa: la giustizia delle opere dipende e deriva dall'essere queste accettate da Dio con perdono, cioè in chiave di misericordia, non di giudizio.

6. Altri passi hanno un senso affine a quelli ora spiegati. Quando è detto: "Fatevi degli amici con delle ricchezze ingiuste, affinché quando verrete meno vi accolgano nel Regno di Dio " (Lu 16.9) e: "Insegna ai ricchi di questo mondo a non inorgoglirsi e a non sperare nell'incertezza delle loro ricchezze, ma nel Dio vivente. Esortali a compiere il bene, ad esser ricchi in buone opere e a farsi un buon tesoro per l'avvenire, al fine di afferrare la vita eterna " (1 Ti. 6.17) , vediamo che le buone opere sono paragonate a ricchezze, delle quali goderemo, come è detto, nella beatitudine futura.

Non capiremo mai veramente questi testi, se non riusciremo a concentrare la nostra attenzione sull'intenzione dello Spirito Santo nel pronunciarli. Se è vero ciò che Cristo dice: che il nostro cuore si fissa là dov'è il nostro tesoro (Mt. 6.21) , come i figli del presente secolo faticano adoperandosi interamente ad accumulare le cose che appartengono alla felicità della vita presente, così bisogna che i credenti, consci che questa vita svanirà come un sogno, proiettino là dove dovranno vivere per l'eternità le cose di cui vogliono rettamente godere per sempre. Dobbiamo seguire l'esempio di coloro che si trasferiscono definitivamente da un luogo all'altro. Mandano avanti ogni loro bene e non dispiace loro di esserne privi per qualche tempo, ritenendosi tanto più felici quanto più beni hanno nel luogo in cui devono finire la loro vita. Se crediamo che il cielo è la nostra patria e la nostra casa, conviene trasferirvi le nostre ricchezze piuttosto che trattenerle qui, per abbandonarle quando dovremo andarcene improvvis.mente. Qual è il modo per trasferirvele? Sovvenendo alle necessità dei poveri: tutto quello che daremo loro, il Signore afferma esser stato dato a lui (Mt. 25.40); ne deriva la promessa che chiunque dà ai poveri, presta a Dio con interesse (Pr 19.17); e: "Colui che seminerà con larghezza, mieterà con abbondanza " (2 Co. 9.6). Tutta la carità che facciamo ai nostri fratelli è come messa al sicuro nelle mani di Dio. Egli, guardiano fedele, ci restituirà un giorno il tutto, con interesse molto elevato.

Come, dirà qualcuno, le opere di carità sono forse tenute in tale considerazione presso Dio da essere paragonabili a ricchezze a lui affidate? Perché dovremmo vergognarci di parlare in questo modo, quando la Scrittura lo attesta così esplicitamente? Ma se uno vuole attribuire dignità alle opere, oscurando la benignità di Dio, queste testimonianze non gli saranno di alcun aiuto per confermare il suo errore. Non sapremmo infatti dedurre altro se non che la bontà e l'indulgenza di Dio verso di noi sono eccezionali: per stimolarci ad agire rettamente ci promette che nessuna buona opera da noi compiuta sarà persa, anche se tutte sono indegne non solo di essere ricompensate, ma di essergli gradite.

7. Distorcono ancor più gravemente le parole dell'apostolo il quale, rincuorando i Tessalonicesi nelle loro tribolazioni, afferma che sono loro mandate affinché siano trovati degni del Regno di Dio per il quale soffrono (Il Tessalonicesi 1.5). Infatti, dice, e cosa giusta da parte di Dio il rendere afflizione a coloro che vi affliggono, e a voi il riposo, quando il Signor Gesù sarà rivelato dal cielo. L'autore dell'epistola agli Ebrei dice: "Dio non è così ingiusto da dimenticare l'opera vostra e l'amore da voi mostrato nel suo nome, nel dare con generosità parte dei vostri beni ai suoi fedeli " (Eb. 6.10).

Rispondo al primo passo dicendo che san Paolo non vuole indicare in tal modo alcuna dignità di merito, ma vuol soltanto dire che, come il Padre celeste ci ha scelti per figli, così vuole che siamo resi conformi al suo figlio primogenito (Ro 8.29). Come dunque Cristo ha sofferto prima di entrare nella gloria che gli era destinata, così bisogna che entriamo nel Regno dei cieli attraverso parecchie tribolazioni (Lu 24.26; At. 14.22). Quando sopportiamo afflizioni per amore del nome di Cristo, si imprimono in noi i segni con cui il nostro Signore è solito identificare le pecore del suo gregge. Per questo motivo siamo ritenuti degni del Regno di Dio, perché portiamo nel nostro corpo i segni di Gesù Cristo, caratteristici dei figli di Dio. A questo si riferisce pure l'affermazione che portiamo nel nostro corpo la morte di Cristo, affinché la sua vita sia manifestata in noi, resi simili alle sue sofferenze per giungere parimenti alla risurrezione (Ga 6.17; 2 Co. 4.10; Fl. 3.10). La ragione aggiunta da san Paolo, che è giusto da parte di Dio il dar riposo a coloro che avranno operato, non vuol provare alcuna dignità delle opere ma solo confermare la speranza della salvezza. In altre parole: come si addice al giusto giudizio di Dio il far vendetta sui vostri nemici degli oltraggi e delle molestie che vi avranno arrecato, similmente si addice che egli vi dia requie e riposo dalle vostre miserie.

L'altro passo, che ribadisce che le buone opere non devono essere dimenticate da Dio, tanto che Dio parrebbe ingiusto se le dimenticasse, deve essere inteso in questo senso: il Signore, per risvegliare la nostra pigrizia, ci ha dato speranza che tutto quel che faremo per amor del suo nome non andrà perso. Ricordiamoci che tale promessa, come tutte le altre, non ci gioverebbe punto se non fosse preceduta dal patto gratuito su cui riposa ogni certezza della nostra salvezza. Dobbiamo pertanto avere sicura fiducia che la ricompensa per le nostre opere non sarà negata dalla benignità di Dio, sebbene ne siano più che indegne. L'Apostolo dunque, per confermarci in questa attesa, dice che Dio non è ingiusto e mantiene le promesse fatte. Questa giustizia di Dio si riferisce più alla verità della sua promessa che all'equità di renderci quel che ci è dovuto. In questo senso c'è una significativa dichiarazione di sant'Agostino che ha da esser bene impressa nella nostra memoria, poiché questo sant'uomo non ha esitato a ripeterla parecchie volte: "Il Signore è fedele: si è fatto debitore per noi non già prendendo qualcosa da noi, ma promettendoci tutto generosamente ".

8. I nostri farisei citano anche queste affermazioni di san Paolo: "Se avessi tutta la fede del mondo, fino a trasportare le montagne, e mancassi di carità, non sarei nulla ": "Ora queste tre cose durano, fede, speranza e carità; ma la più grande è la carità " (1 Co. 13.2.13); e: "Soprattutto abbiate in voi carità, che è il vincolo della perfezione " (Cl. 3.14).

Quanto alle due prime, si sforzano di provare che siamo giustificati per mezzo della carità piuttosto che per mezzo della fede, perché è una virtù più eccelsa. Ma questo sofisma è facilmente confutabile. Abbiamo già esposto che quanto è detto nella prima di quelle affermazioni, non riguarda per nulla la vera fede; riconosciamo che la seconda si riferisce alla vera fede, a cui egli antepone la carità, non perché più meritoria, ma in quanto è più fruttuosa, si estende più lontano, serve a molti, mantiene sempre il suo vigore, mentre l'uso della fede è solo per un tempo. Se consideriamo l'eccellenza, l'amore di Dio di cui qui san Paolo non tratta avrebbe a buon diritto il primo posto, perché tende soltanto al fine di edificarci reciprocamente in Dio, mediante la carità.

Ma poniamo il caso che la carità sia più eccelsa della fede in tutti i sensi; quale persona di buon senso ne dedurrà che essa ha maggior potere di giustificare? La forza di giustificazione della fede non risiede in una qualche dignità dell'opera, poiché la nostra giustificazione sussiste per la sola misericordia di Dio e per merito di Cristo. Se la fede giustifica è solo per il fatto che afferra la giustizia offertale in Cristo.

Se si chiede ai nostri avversari in che senso danno alla carità la forza di giustificare, risponderanno che, essendo virtù gradita a Dio, la giustizia ci è imputata per merito suo, in quanto è gradita alla bontà divina. Da ciò vediamo come procede bene il loro argomento! Diciamo che la fede giustifica; non che ci procuri giustizia per mezzo della sua dignità, ma perché è uno strumento per mezzo del quale otteniamo gratuitamente la giustizia di Cristo. Essi, tralasciando la misericordia di Dio e non menzionando Cristo in cui si assomma tutta la giustizia, continuano ad affermare che siamo giustificati per mezzo della carità, la quale è più eccelsa. Come se uno dicesse che un re è più adatto di un calzolaio a fare una scarpa, poiché è molto più degno e più nobile. Questo solo argomento è sufficiente per farci capire che tutte le scuole sorboniche non hanno mai inteso il senso della giustificazione per fede.

Se qualche litigioso contesta quel che ho detto, affermando che do un altro significato al termine paolino di fede e pretendendo che non v'è motivo di intenderlo qui in modo diverso, rispondo che ho buone ragioni per farlo. Poiché tutti i doni che aveva elencati si riducono alla fede e alla speranza, per il fatto che hanno a che fare con la conoscenza di Dio, facendo un sommario alla fine del capitolo, li comprende tutti sotto questi due termini. Come se dicesse: la profezia, le lingue, il dono di interpretazione e la scienza tendono tutte allo scopo di condurci alla conoscenza di Dio. Non conosciamo Dio, in questa vita mortale, che per mezzo della fede e della speranza. Di conseguenza, quando menziono la fede e la speranza, comprendo tutti questi doni. Questi tre, dunque, durano: fede, speranza e carità; cioè, per quanta varietà di doni ci sia, si riferiscono tutti a questi tre, dei quali la carità è il principale. Riguardo al terzo passo, deducono che se la carità è il vincolo della perfezione, lo è pure della giustizia, che non è altro che perfezione. In primo luogo, tralasciando il fatto che san Paolo definisce perfezione l'unione dei membri di una Chiesa ben ordinata, e che confessiamo essere l'uomo perfetto dinanzi a Dio per mezzo della carità, quale nuova conclusione traggono da questo? Replicherò sempre che non giungiamo mai a quella perfezione se non compiamo la carità. Ne potrò dedurre, poiché ogni uomo è ben lontano dal compiere la carità, che ogni speranza di perfezione gli è tolta.

9. Non intendo star dietro a tutte le testimonianze che quei litigiosi della Sorbona attingono sconsideratamente qua e là alla Scrittura per polemizzare contro di noi. Fanno citazioni così ridicole, che a prenderle in considerazione si diventa sciocchi come loro.

Porrò dunque termine a questo argomento dopo aver spiegato un'affermazione di Cristo che amano moltissimo: la risposta al dottore della Legge. Costui gli aveva chiesto: "Che cos'è necessario alla salvezza? "e Cristo risponde: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti " (Mt. 19.17). Che altro vogliamo, dicono, se l'autore della grazia ci ordina lui stesso di acquistare il Regno di Dio con l'osservare i comandamenti?

Come se non fosse noto che Cristo ha sempre adeguato le sue risposte a coloro cui aveva a che fare. In questo passo era stato interrogato da un dottore della Legge sul mezzo per ottenere la beatitudine eterna; non con una domanda generica, ma con le parole: che cosa devono fare gli uomini per giungere alla vita? Sia l'interrogante, sia la domanda inducevano il Signore ad una risposta di quel genere. Quel dottore, gonfio di una falsa opinione sulla giustizia legale, era accecato dalla fiducia nelle sue opere. Inoltre non chiedeva altro, se non quali sono le opere di giustizia per mezzo delle quali si acquista la salvezza. A buon diritto è rimandato alla Legge, in cui abbiamo uno specchio perfetto della giustizia. Anche noi predichiamo ad alta voce e con chiarezza che bisogna osservare i comandamenti, se si cerca la giustizia nelle opere.

È necessario che tutti i cristiani conoscano questo insegnamento, altrimenti come avrebbero il loro rifugio in Cristo, se non sapessero di barcollare in una mortale rovina? E come saprebbero quanto sono lontani dalla via della vita, se non l'avessero conosciuta? Non sono dunque rettamente istruiti ad avere il loro rifugio in Cristo per trovare la salvezza, fintantoché non comprendono quale differenza esiste fra la loro vita e la giustizia di Dio, contenuta nella Legge.

Riassumendo: se cerchiamo salvezza nelle nostre opere, dobbiamo osservare i comandamenti che ci istruiscono in una giustizia perfetta. Ma non dobbiamo fermarci qui se non vogliamo venir meno nel corso del cammino, poiché nessuno di noi li sa osservare. Tutti siamo esclusi dalla giustizia della Legge, ci è dunque necessario cercare altrove rifugio e soccorso, cioè nella fede in Cristo. Come il Signor Gesù, in codesto passo, rimanda alla Legge il dottore della Legge gonfio di una vana fiducia nelle sue opere, affinché si riconosca povero peccatore soggetto a condanna, così in un altro passo consola con la promessa della sua grazia gli altri, umiliati da questa presa di coscienza, e li consola senza menzionare la Legge: "Venite a me "dice "voi tutti che siete oppressi e travagliati: io vi darò sollievo e troverete riposo alle vostre anime " (Mt. 11.28.29).

10. Infine, quando i nostri avversari sono stanchi di capovolgere la Scrittura, cercano di sorprenderci con ragionamenti capziosi e con vani sofismi. Cavillano anzitutto sul fatto che la fede è chiamata opera (Gv. 6.29) , e che di conseguenza faccia mo male ad opporla alle opere, come fosse cosa diversa.

Come se la fede, che è obbedienza alla volontà di Dio, ci acquistasse giustizia per suo merito e non piuttosto in quanto, accettando la misericordia di Dio, ci rende certi della giustizia di Cristo offertaci nell'evangelo per gratuita bontà del Padre celeste. Mi perdonino i lettori se non mi attardo a controbattere simili inezie: sono così deboli e frivole che si dileguano da sole.

Ma mi pare opportuno rispondere a una loro obiezione che potrebbe far sorgere problemi nei semplici, avendo qualche parvenza di verità. Se, dicono, le cose opposte sono rette da una stessa legge, e se ogni peccato ci è messo in conto di ingiustizia, conviene che ogni buona opera sia messa in conto di giustizia.

La risposta secondo cui la condanna degli uomini procede dalla solo infedeltà e non dai peccati singoli mi pare insoddisfacente Concedo loro che la fonte e la radice di tutti i mali risiede nel l'incredulità. Si comincia coll'abbandonare e rinnegare Dio, e seguono tutte le trasgressioni della sua volontà. Ma sono costretto a contraddirli quando sembrano mettere su di una stessa bilancia le buone e le cattive opere per valutare la giustizia o l'ingiustizia umana. La giustizia delle opere consiste in una perfetta obbedienza alla Legge. Nessuno può dunque essere giusto per mezzo delle opere se non segue linearmente la legge di Dio per tutta la sua vita. Appena sbaglia su qualche punto, decade nell'ingiustizia. È pertanto evidente che la giustizia non risiede in alcune buone opere, ma nell'osservare interamente e compiutamente la volontà di Dio. Dobbiamo giudicare l'iniquità in tutt'altro modo. Chiunque ha commesso adulterio o rubato, con un solo delitto è colpevole di morte in quanto ha offeso la maestà di Dio. Qui i nostri sofisti si ingannano, non prendendo in considerazione quello che dice san Giacomo: "Colui che ha trasgredito un comandamento è colpevole su tutti, perché Dio che ha proibito di uccidere, ha parimenti proibito di rubare " (Gm. 2.10.2). Non deve dunque sembrare assurdo affermare che la morte è il giusto salario di ogni peccato, visto che tutti sono degni della collera e della vendetta di Dio. Ma sarebbe improprio capovolgere l'argomento: che l'uomo possa cioè acquistare la grazia di Dio con una sola buona opera, mentre per molte colpe provocherà la sua collera.