Letteratura/Istituzione/3-24

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Istituzioni della religione cristiana (Calvino)

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CAPITOLO 24.

L'ELEZIONE È CONFERMATA DALLA VOCAZIONE DI DIO; AL CONTRARIO, I REPROBI ATTIRANO SU DI SÉ LA GIUSTA PERDIZIONE CUI SONO DESTINATI

1. Per meglio chiarire la cosa, gioverà trattare qui sia della vocazione degli eletti sia dell'accecamento e dell'induramento dei reprobi. Ho già affrontato il primo punto confutando l'errore di coloro che, Cl. Pretesto della generalità delle promesse, vorrebbero livellare tutto il genere umano. Ma Dio mantiene il suo ordine, rendendo finalmente chiara con la sua vocazione la grazia che prima teneva nascosta in sé. Si può dunque dire che, chiamando, egli attesta la sua elezione. Infatti ha preordinato coloro che aveva preconosciuti, perché siano conformi all'immagine di suo figlio. Ma coloro che ha preordinati li ha pure chiamati, e coloro che ha chiamati li ha giustificati per glorificarli (Ro 8.29).

Benché il Signore, eleggendo i suoi, li abbia adottati come suoi figli, vediamo che essi vengono in possesso di un così gran bene solo quando egli li chiama. D'altra parte, essendo chiamati, godono già in qualche modo della loro elezione. Per questo motivo san Paolo chiama lo Spirito che ricevono "Spirito di adozione " (Ro 8.15) , e ancora "sigillo e pegno dell'eredità futura " (Ef. 1.13) , in quanto, con la sua testimonianza, conferma e sigilla nei loro cuori la certezza di una tale adozione. Sebbene la predicazione dell'evangelo sgorghi dall'elezione, essendo comune anche ai reprobi essa non ne sarebbe, di per se, una prova abbastanza certa. Ma Dio istruisce i suoi eletti con efficacia, per attirarli alla fede, come abbiamo detto precedentemente: "Colui che è da Dio, e non un altro, ha visto il Padre ", (Gv. 6.463. E: "Ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati " (Gv. 17.6); infatti dice altrove: "Nessuno può venire a me, se non è attirato dal Padre " (Gv. 6.44). Passo che sant'Agostino interpreta esattamente quando dice: "Se, come attesta la verità dell'evangelo, colui che ha imparato dal Padre viene, chiunque non viene, non ha imparato dal Padre. Non ne deriva dunque che colui che può venire venga di fatto, se non lo vuole e non lo fa. Ma chiunque ha ricevuto l'insegnamento del Padre non solo può venire, ma viene di fatto. E allora concorrono l'avanzare della possibilità, la disposizione della volontà e l'effetto dell'azione ". Parla ancora più chiaramente in un altro passo: "Che cosa significa: chiunque ha udito da mio Padre ed ha imparato viene a me, se non che nessuno ode e impara dal Padre senza venire a Gesù Cristo? Infatti se tutti coloro che odono e imparano vengono, chiunque non viene non ha udito né appreso; poiché se avesse udito e appreso, verrebbe. Questa scuola in cui il Padre insegna ed è ascoltato, e conduce a suo figlio, è molto lontana dai sensi della carne ". Poco oltre aggiunge: "Quella grazia, data segretamente ai cuori degli uomini, non è ricevuta da un cuore indurito, poiché essa è data affinché la durezza del cuore sia vinta. Perciò quando il Padre è udito interiormente, toglie il cuore di pietra e ne dà uno di carne. Ed ecco come crea i figli della promessa e gli strumenti di misericordia che ha preparati per la gloria. Perché dunque non istruisce tutti gli uomini per farli venire a Cristo, se non perché l'istruire gli uni è un suo atto di misericordia, e il non istruire gli altri un suo atto di giudizio, in quanto egli ha pietà di chi gli pare, e indura coloro che vuole indurare? ".

Il Signore dunque sceglie per figli suoi quelli che elegge, e decide di essere un padre per loro; chiamandoli li introduce nella sua famiglia, e si congiunge ed unisce ad essi, perché diventino come una sola persona. Ora la Scrittura, congiungendo in tal modo la vocazione con l'elezione, dimostra che non bisogna cercare ad essa altra spiegazione all'infuori della misericordia gratuita di Dio. Se chiediamo chi egli chiama e per quale motivo, essa risponde: coloro che ha scelti. Quando si considera l'elezione, vi appare in ogni punto la sola misericordia, secondo quanto affermano le parole di san Paolo, che non dipende né da chi vuole, né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia (Ro 9.16).

E non bisogna intendere ciò come si fa di solito, associando la grazia di Dio, la volontà e l'impegno dell'uomo. Poiché si afferma che né il desiderio né lo sforzo dell'uomo possono qualcosa, se la grazia di Dio non li fa prosperare; ma se Dio aggiunge il suo aiuto, l'uno e l'altro hanno qualche significato per acquistare salvezza. Preferisco confutare un simile cavillo con le parole di sant'Agostino che con le mie: "Se l'Apostolo ha voluto semplicemente dire che ciò non risiede nella facoltà di chi vuole o di chi corre, se il Signore non aiuta con la sua misericordia, potremo ritorcere e dire che ciò non risiede nella sola misericordia di Dio, se essa non è aiutata dalla volontà e dal correre dell'uomo. Se è chiaro che questa è una cattiva interpretazione, non bisogna dubitare che l'Apostolo abbia voluto assegnare tutto alla misericordia di Dio, senza lasciare nulla alla nostra volontà o iniziativa ". Ecco le parole di quel sant'uomo.

Non do alcun valore alla sottigliezza che mettono avanti quando dicono che san Paolo non avrebbe parlato così, se non ci fosse in noi un qualche sforzo di volontà. Egli infatti non ha considerato quel che è nell'uomo; ma vedendo che taluni assegnavano in parte la salvezza degli uomini al loro sforzo, nella prima parte del suo discorso egli semplicemente condanna il loro errore, poi continua ad affermare che tutto il centro della salvezza risiede nella misericordia di Dio. E che altro fanno i profeti, se non predicare del continuo la elezione gratuita di Dio?

2. Lo vediamo anche nella sostanza di quella vocazione; essa consiste infatti nella predicazione della Parola e nell'illuminazione dello Spirito Santo. E il Profeta ci dice a chi il nostro Signore offre la sua parola: "Sono stato trovato "dice "da coloro che non mi cercavano; sono apparso a coloro che non mi interrogavano. Ho detto a coloro che non invocavano il mio nome: Eccomi " (Is. 65.1). E affinché i Giudei non ritenessero che una tal grazia appartiene soltanto ai Gentili, il Signore ricorda loro da dove ha tratto il loro padre Abramo, quando ha voluto riceverlo nel suo amore, cioè dal bel mezzo dell'idolatria, in cui era come sprofondato con tutta la sua famiglia (Gs. 24.3).

Illuminando con la sua parola coloro che non hanno meritato nulla, Dio dà un segno abbastanza chiaro della sua bontà gratuita. In questo si rivela la bontà sua infinita; ma non è per la salvezza di tutti, in quanto la condanna dei reprobi sarà più grave, poiché hanno respinto la testimonianza dell'amore di Dio. Perciò Dio ritira da loro la potenza del suo Spirito, per dare maggior ris.lto alla sua grazia. Di conseguenza, la vocazione interiore è un pegno di salvezza che non può mentire. A ciò si riferisce l'affermazione di san Giovanni: "Sappiamo che siamo suoi figli per mezzo dello Spirito che ci ha dato " (1 Gv. 3.24). Onde la carne non si glorii del fatto che, essendo chiamata, gli risponde, afferma che non avremmo orecchie per udire né occhi per vedere, se Dio non ce li avesse dati. Inoltre, dice che ce li dà non secondo che ciascuno ne è degno, ma secondo la sua scelta. Abbiamo un notevole esempio di ciò in san Luca, dove è detto che i Giudei ed i Gentili udirono insieme la predicazione di san Paolo (At. 13.48). Ma sebbene tutti abbiano ricevuto il medesimo insegnamento, è detto che hanno creduto coloro che Dio aveva preordinati alla vita eterna. Non avremo dunque vergogna di negare la gratuità della vocazione, interamente sorretta dalla sola elezione?

3. Dobbiamo guardarci ora da due errori. Gli uni considerano l'uomo cooperante con Dio, in quanto egli ratificherebbe l'elezione di Dio accogliendola. Così, secondo loro, la volontà dell'uomo sarebbe al di sopra del consiglio di Dio. Come se la Scrittura si limitasse a dire che ci è dato di poter credere, e non piuttosto che la fede è in tutto un dono di Dio. Gli altri, indotti da non so quale ragione, fanno dipendere l'elezione dalla fede, come se non ci fosse certezza né sicurezza finché non si crede. È vero che essa, dal nostro punto di vista, è confermata dal credere, e che il consiglio di Dio, che prima era nascosto, ci è manifestato; ma guardiamoci dall'intendere cosa diversa da quel che abbiamo detto sopra, che cioè l'adozione di Dio, prima sconosciuta, ci viene mostrata e come suggellata.

Ma è falso dire che l'elezione comincia ad avere la sua efficacia quando riceviamo l'Evangelo, e che essa trae da lì la sua forza. Quanto a noi, come ho detto, dobbiamo trarre dall'evangelo la certezza dell'elezione, perché se tentiamo di penetrare nel decreto eterno di Dio, esso sarà per noi un abisso che ci inghiotte. Ma dopo che Dio ci ha attestato e fatto conoscere che siamo fra i suoi eletti, conviene salire più su, per paura che l'effetto non seppellisca la sua causa. Nulla è più ragionevole, quando la Scrittura ci dice che ci ha illuminati secondo che ci aveva eletti, del lasciarci abbagliare da quella luce al punto di rifiutare di pensare alla nostra elezione.

Ammetto che per esser certi della nostra salvezza dobbiamo cominciare dalla Parola, e tutta la nostra fiducia deve appoggiarsi ad essa e riposare in essa, perché invochiamo Dio come nostro padre. Infatti coloro che vogliono svolazzare sulle nubi per esser certi della determinazione che Dio ci ha messo in cuore e sulla bocca (De 30.14) , pervertono ogni ordine. È: dunque necessario tenere a freno la nostra temerità mediante una sobrietà di fede, affinché Dio ci basti con la testimonianza della sua grazia nascosta, quando ce la afferma attraverso la sua parola; a condizione che quel canale attraverso il quale siamo alimentati non sottragga alla vera sorgente l'onore che le spetta.

4. Sbagliano coloro che insegnano che la forza e la certezza dell'elezione dipende dalla fede, per mezzo della quale sentiamo che essa ci appartiene; invece sarà bene, cercando di aver certezza della nostra elezione, attenerci a quei segni che ne sono una testimonianza sicura. La tentazione più grave e pericolosa di cui il diavolo dispone, per colpire i credenti, consiste nel gettarli nell'inquietudine mettendo in dubbio la loro elezione e spingendoli a cercarla con assurda bramosia al di fuori della via. Considero un cercare fuori della giusta via il tentativo del povero uomo di penetrare nei segreti incomprensibili della sapienza divina e di indagare fin dall'inizio dell'eternità per sapere quel che il giudizio di Dio ha disposto a suo riguardo. In tal modo egli si precipita come in un vortice profondo dove annega, incappa come in trappole da cui non potrà mai liberarsi ed entra in una specie di notte tenebrosa da cui non potrà mai uscire. Ed è più che giusto che l'orgoglio insolente della ragione umana sia così punito di una orribile rovina, dal momento che esso tenta di elevarsi con la sua forza all'altezza della saggezza divina. E questa tentazione è tanto più pericolosa in quanto quasi tutti vi siamo inclini. Sono ben pochi a non essere turbati in cuor loro da questo interrogativo: da dove ti proviene la salvezza, se non dall'elezione di Dio? E questa elezione, come ti è rivelata? Se questo pensiero è entrato nella mente dell'uomo, ovvero lo tormenta grandemente oppure lo spaventa e annienta del tutto. Questo turbamento interiore è l'argomento più adatto a mostrare quanto sia perverso immaginare la predestinazione in quel modo. Poiché lo spirito dell'uomo non può essere infettato da errore più nocivo di quello che può distogliere la coscienza dalla tranquillità e dal riposo che deve avere in Dio. Questo argomento è come un mare e, se temiamo di perire in esso, evitiamo sopra ogni altra cosa quella roccia contro la quale non si può urtare senza che accada un disastro.

Benché questa discussione sulla predestinazione sia considerata un mare pericoloso, la navigazione vi è tuttavia sicura e tranquilla, anzi gioiosa, a meno che qualcuno si disponga di sua iniziativa a mettersi in pericolo. Come coloro che, per esser certi della loro elezione, penetrando nel consiglio eterno di Dio senza la guida della sua parola si precipitano e si cacciano in un abisso mortale, così coloro che la cercano rettamente nell'ordine in cui è indicata dalla Scrittura, ne traggono una singolare consolazione. Sia dunque questo il nostro modo di prenderne coscienza: cominciare dalla vocazione di Dio e finire con essa. Ciò non impedisce ai credenti di sapere che i benefici, che ricevono quotidianamente dalla mano di Dio, derivano dalla sua adozione segreta, come è detto in Isaia: "Tu hai fatto cose mirabili; i tuoi antichi pensieri sono veri e certi " (Is. 25.1). E il Signore vuole che l'adozione sia per noi come un pegno o un segno, che ci attesta tutto quel che è lecito sapere intorno alla sua decisione.

Affinché una tal testimonianza non paia debole a taluno, riflettiamo a quanta chiarezza e certezza ci porta. È a ragione che san Bernardo ne parla. Infatti dopo aver parlato dei reprobi dice: "l'intento di Dio rimane fermo. L'affermazione di pace è certa per coloro che lo temono, in quanto egli dissimula i loro peccati e ricompensa quel che fanno di bene, tanto che il male stesso si volge per loro ammirevolmente in bene. Chi accuserà gli eletti di Dio? Mi basta, come sola giustizia, l'aver propizio colui che ho offeso; tutto quel che egli ha deliberato di non imputarmi è come se non fosse mai stato ". E poco oltre: "Ecco il luogo di vero riposo, che a buon diritto possiamo chiamare camera, quando contempliamo un Dio non sconvolto dall'ira né agitato da cure, ma un Dio che ci fa conoscere la sua volontà buona, piacevole e perfetta. Una tal visione non spaventa, ma dà un senso di pace e di dolcezza. Essa non suscita bollenti curiosità, ma le abbatte tutte. Essa non agita i sensi, ma li rende tranquilli. Ecco il fondamento su cui dobbiamo rettamente riposare: Dio, pacificato, ci pacifica, poiché il nostro riposo è di saperlo pacificato con noi ".

5. Anzitutto, se vogliamo ottenere la clemenza paterna di Dio e la sua benevolenza, dobbiamo volgere gli occhi a Cristo nel quale, soltanto, il Padre si compiace (Mt. 3.17). Se cerchiamo la salvezza, la vita e l'immortalità del regno di Dio, non dobbiamo ricorrere ad altro, dato che lui solo è fonte di vita, porto di salvezza e erede del regno dei cieli. Ma l'elezione fa sì che, adottati da Dio come suoi figli, noi otteniamo salvezza e immortalità nella sua grazia e nel suo amore. Comunque si imposti il problema, si vedrà che lo scopo della nostra elezione non tende ad altro. Di conseguenza, quelli che Dio ha scelti come suoi figli, non è detto che li abbia scelti in se stessi, ma piuttosto nel suo Cristo (Ef. 1.4) , poiché non li poteva amare che in lui e non li poteva onorare della sua eredità se non mettendoli anzitutto in comunione con lui. E se siamo eletti in Cristo, non troveremo dunque in noi la certezza della nostra elezione, e neanche in Dio Padre, se lo immaginiamo a se stante, senza suo figlio. Cristo dunque è come uno specchio, nel quale è opportuno che contempliamo la nostra elezione, e nel quale la contempleremo senza essere ingannati. Per il fatto che egli è colui nel quale il Padre celeste ha deciso di incorporare coloro che da ogni eternità ha voluto fossero suoi, per riconoscere come suoi figli tutti coloro che riconoscerebbe come membri di lui. Abbiamo una testimonianza chiara e evidente del nostro essere iscritti nel libro della vita, se abbiamo comunione con Cristo.

Orbene, questa comunione egli ha sufficientemente manifestata a noi quando attraverso la predicazione dell'evangelo ci ha attestato che ci viene dato dal Padre, per essere nostro con tutti i suoi beni (Ro 8.32). È detto che ci rivestiamo di lui, che siamo uniti a lui, che viviamo in quanto egli vive. Viene spesso ripetuta l'affermazione che il Padre celeste non ha risparmiato il suo unico figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca (Gv. 3.16. È anche detto che chiunque crede in lui è passato dalla morte alla vita (Gv. 5.24). In questo senso egli si definisce "pane di vita " (Gv. 6.35) , dicendo che chiunque ne mangerà non morrà. Egli ci attesta che tutti coloro, dai quali sarà accolto con vera fede, saranno considerati figli dal padre celeste. Se desideriamo qualcosa di più che essere figli e eredi di Dio, possiamo salire più in alto di Cristo. Ma se quello è il nostro obiettivo ultimo, non è forse insensato cercare all'infuori di Cristo quello che abbiamo già ottenuto in lui e che non si può che trovare in lui? Inoltre, poiché egli è la saggezza eterna del Padre, la verità immutabile, il fermo volere, non dobbiamo temere che quel che ci dichiara per bocca sua possa minimamente divergere dalla volontà del Padre, che noi ricerchiamo. Anzi, egli ce la manifesta fedelmente, quale è stata fin dall'inizio e quale deve essere sempre.

In pratica, questa dottrina deve avere il suo vigore anche nelle nostre preghiere. Sebbene la fede nella nostra elezione ci dia il coraggio di invocare Dio, sarebbe un atteggiamento sbagliato, quando dobbiamo presentare le nostre richieste, affermare: Mio Dio, se sono eletto, esaudiscimi. Al contrario, egli ci vuole paghi delle sue promesse senza che cerchiamo altrove se ci sarà favorevole o meno. Un simile discernimento ci libererà da molte pastoie, quando sapremo mettere in pratica in modo giusto quel che è scritto, senza tirarlo sconsideratamente qua e là.

6. Il fatto che la certezza della nostra elezione sia congiunta alla nostra vocazione, giova considerevolmente a rafforzare la nostra fiducia. Infatti è detto che Cristo riceve sotto la sua protezione e tutela coloro che ha illuminati nella sua conoscenza e introdotti nella comunità della sua Chiesa. Inoltre è detto che il Padre gli ha affidato e dato in custodia tutti coloro che accoglie, perché li conduca a vita eterna (Gv. 6.37.39; 17.6.12). Che vogliamo di più? Il Signor Gesù proclama ad alta voce che il Padre gli ha affidato coloro che vuole che siano salvati. Perciò quando vogliamo sapere se Dio ha deciso di salvarci, cerchiamo di sapere se ci ha affidati a Cristo, da lui costituito unico salvatore di tutti i suoi. Se pensiamo di non sapere se Cristo ci ha ricevuti sotto la sua protezione, egli ci previene, risolvendo questo dubbio quando si presenta come pastore e dichiara che ci annovererà nel numero delle sue pecore se ascoltiamo la sua voce (Gv. 10.3). Accogliamo dunque Cristo, poiché egli si presenta a noi con tanta benignità e ci precede per accoglierci. Non c'è dubbio che egli ci terrà nel suo gregge e ci conserverà nel suo ovile.

Qualcuno farà notare che ci dobbiamo preoccupare per quel che ci può accadere e che, quando pensiamo al futuro, la nostra debolezza a ammonisce a stare in guardia. San Paolo afferma che Dio chiama coloro che ha eletti (Ro 8.30) , e il Signor Gesù dice che ce ne sono molti di chiamati e pochi di eletti (Mt. 22.14). In un altro passo ancora, san Paolo ci esorta a non essere troppo sicuri: "Colui che è in piedi stia attento a non cadere " (1 Co. 10.12). E: "Sei tu incorporato nella Chiesa di Dio? Non ti inorgoglire, ma temi; poiché il Signore te ne può allontanare per mettere un altro al tuo posto " (Ro 11.20). Infine l'esperienza ci insegna che la fede e la vocazione sono poca cosa se disgiunte dalla perseveranza, che non è data a tutti.

Rispondo che Cristo ci ha liberati da una simile perplessità. Queste promesse infatti sono senza dubbio riferite al futuro: "Tutto quel che il Padre mi ha dato viene a me; e quel che sarà venuto a me, io non lo getterò fuori " (Gv. 6.37). E "Questa è la volontà del Padre mio, che io non perda nulla di quello che mi ha dato, ma che risusciti tutto nell'ultimo giorno ", (Gv. 6.40). E "Le mie pecore ascoltano la mia voce e mi seguono. Io le conosco e do loro la vita eterna, e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha affidate è più forte di tutti; perciò nessuno le potrà rapire dalla sua mano " (Gv. 10.27). Inoltre, affermando che ogni albero che il Padre suo non avrà piantato sarà divelto (Mt. 15.13) intende dire, all'opposto, che non può accadere che coloro i quali sono fermamente radicati in Dio siano mai divelti. Analogo significato ha l'affermazione di san Giovanni: "Se fossero stati del nostro gregge, non si sarebbero mai allontanati da noi " (1 Gv. 2.19).

Per questo motivo san Paolo osa gloriarsi in modo singolare contro la vita e la morte, contro le cose presenti e future (Ro 8.38). In questo si vede che gli è stata data perseveranza. Egli stesso, inoltre, rivolge a tutti gli eletti queste parole: "Colui che ha iniziato in voi l'opera della vostra salvezza, la porterà a termine fino al giorno di Gesù Cristo " (Fl. 1.6. Così anche Davide, scosso nella sua fede da gravi tentazioni, trova un sostegno nell'affermare: "Signore, tu non tralascerai l'opera delle tue mani " (Sl. 138.8).

Inoltre è cosa certa che Gesù Cristo, pregando per tutti gli eletti, chiede per loro quel che aveva chiesto per Pietro: che la loro fede non venga meno (Lu 22.32). Ne concludiamo che non corrono il pericolo di una caduta mortale, visto che la richiesta del figlio di Dio, che rimanessero saldi, non è stata respinta. Che cosa Cristo ci ha voluto qui insegnare, se non renderci certi che avremo la salvezza eterna, poiché una volta siamo stati fatti suoi?

7. Si replicherà che ogni giorno si vedono persone che parevano appartenere a Cristo venir meno e cadere. Perfino nel passo in cui afferma che nessuno di coloro che gli erano stati dati dal Padre è perito, fa eccezione per il figlio di perdizione (Gv. 17.12).

Questo è vero; d'altra parte, un tal genere di persone non ha mai aderito a Cristo con una fiducia di cuore simile a quella che ci fa dire che la nostra elezione ci è resa certa. "Costoro "dice san Giovanni "si sono allontanati da noi, ma non erano dei nostri. Poiché se lo fossero stati, sarebbero rimasti con noi " (1 Gv. 2.19). Certamente hanno delle manifestazioni esteriori affini a quelle degli eletti; ma non concedo loro quel fondamento certo della propria elezione che i credenti devono attingere, secondo me, dalla parola dell'evangelo. Non lasciamoci turbare da questi esempi, ma atteniamoci con sicurezza a quelle promesse in cui il Signor Gesù afferma che il Padre gli ha affidato tutti coloro da cui è accolto con vera fede, e che nessuno di loro perirà, poiché egli ne è guardiano e protettore (Gv. 3.16; 6.39). Parlerò altrove di Giuda.

Quanto a san Paolo, non ci proibisce ogni certezza, ma quella sicurezza che proviene dalla carne e che implica orgoglio, insolenza, disprezzo degli altri, che spegne l'umiltà e il timor di Dio e induce a dimenticare le sue grazie. In quel passo si rivolge ai Gentili, che rimprovera, perché non devono insultare i Giudei con arroganza e mancanza di umanità, in quanto erano stati messi al loro posto mentre quelli ne erano stati allontanati. Parimenti, non richiede un timore che ci faccia vacillare con paura ma che, insegnandoci a riverire umilmente la grazia di Dio, non diminuisca per nulla la fiducia che abbiamo in lui, come è stato detto altrove.

Inoltre, egli non rivolge il suo ammonimento ai singoli, ma alle sette che esistevano allora. Poiché la Chiesa era divis. In due e l'orgoglio e l'invidia erano causa della separazione; san Paolo ricorda ai pagani che se sono stati messi al posto del popolo santo e erede della promessa, questo li deve indurre al timore e all'umiltà, poiché molti erano pieni di orgoglio e di presunzione, ed era opportuno smorzare la loro vacua presunzione.

Del resto, abbiamo già visto che la nostra speranza deve proiettarsi nell'avvenire, anzi oltre la morte, e che nulla è più contrario alla sua natura dell'essere in preda a incertezza e preoccupazione, come se non sapessimo quel che sarà di noi.

8. Riguardo all'affermazione di Cristo, che molti sono chiamati e pochi eletti (Mt. 22.14) non darà luogo ad ambiguità se ci ricordiamo di quel che ci deve essere abbastanza chiaro, che cioè ci sono due specie di vocazione.

C'è la vocazione universale, che risiede nella predicazione esteriore dell'evangelo, per mezzo della quale il Signore invita a se, indifferentemente, tutti gli uomini, anche coloro ai quali l'offre per la morte e come prova di grave condanna.

C'è una vocazione speciale, di cui rende partecipi i soli credenti, quando per mezzo della luce interiore del suo Spirito fa in modo che il suo insegnamento sia radicato nei loro cuori; benché, talvolta, si valga di una simile vocazione anche verso coloro che illumina per un certo tempo e che poi, a causa della loro ingratitudine, tralascia e getta in un più grande accecamento.

Il Signor Gesù, vedendo che l'Evangelo era allora annunciato a parecchia gente ma che era respinto da molti, disprezzato da altri e che poche persone lo avevano in onore, ci raffigura Dio sotto l'aspetto di un re che, volendo fare un solenne banchetto, manda i suoi servi qua e là per invitare una grande moltitudine; ma nessuno promette di venire, perché ognuno adduce i suoi impegni; così egli è costretto, al loro rifiuto, a mandare a chiamare tutti coloro che si possono incontrare per strada (Mt. 22.2). È chiaro che fino a questo punto la parabola si deve interpretare come riferita alla vocazione esteriore. Aggiunge poi che Dio, secondo l'uso di coloro che ricevono degli ospiti, va di tavola in tavola per festeggiare tutti quelli che riceve al suo banchetto. Se trova qualcuno che non ha indossato il vestito più bello, dice che non ammetterà che il suo banchetto venga disonorato, e che lo caccerà fuori. Penso che questo passo della parabola deve riferirsi a coloro che fanno professione di fede e sono così ricevuti nella Chiesa, ma non sono tuttavia rivestiti della santificazione di Cristo. È detto perciò che il Signore non tollererà a lungo simili pesti, che non fanno altro che diffamare la sua Chiesa, ma che le caccerà fuori, come merita la loro infamia.

Pochi sono dunque scelti, da un gran numero che sarà stato chiamato, ma chiamato non di quella vocazione sulla quale insegniamo che i credenti devono fondare la loro elezione. Quella di cui si parla lì appartiene anche agli iniqui; la seconda porta con se lo Spirito di rigenerazione, pegno e sigillo dell'eredità futura, per mezzo del quale i nostri cuori sono segnati fino al giorno della risurrezione (Ef. 1.13.14).

Insomma, poiché gli ipocriti si vantano di essere gente dabbene quanto i veri servitori di Dio, Gesù Cristo afferma che alla fine saranno cacciati dal posto che occupano ingiustamente, secondo quanto è detto nel Salmo: "Signore, chi abiterà nel tuo santuario? Colui che è di mano innocente e puro di cuore " (Sl. 15.1). E "Tale è la generazione di coloro che cercano Dio, che cercano il volto del Dio di Giacobbe " (Sl. 24.6). Con questo mezzo lo Spirito Santo esorta i credenti alla pazienza, perché non dispiaccia loro che gli Ismaeliti siano mescolati con loro nella Chiesa, visto che alla fine la maschera sarà loro tolta e saranno sterminati con vergogna.

9. Perciò Cristo fa l'eccezione di cui si è parlato, quando dice che nessuna delle sue pecore è perita all'infuori di Giuda (Gv. 17.12). Infatti era incluso fra le pecore di Cristo, non perché lo fosse veramente ma perché era nel gruppo dei discepoli. In un altro passo il Signore dice che lo aveva eletto con gli altri apostoli, ma ciò è da riferire soltanto al ruolo che ricopriva: "Ho scelto voi dodici "dice "e uno di voi è diavolo " (Gv. 6.70) : infatti lo aveva costituito apostolo. Ma parlando dell'elezione alla salvezza, lo separa dal numero degli eletti: "Non parlo di tutti, so chi ho scelto " (Gv. 13.18). Se qualcuno fraintende il termine "elezione "in questi passi, si troverà in imbarazzo; se invece lo sa interpretare, non vi è nulla di più facile.

San Gregorio si è dunque espresso molto impropriamente, quando dice che conosciamo la nostra vocazione ma siamo incerti sulla nostra elezione: ci esorta quindi al timore ed al tremore, dicendo che sappiamo bene quel che oggi siamo, ma ignoriamo quel che saremo domani. Dal procedere del suo discorso si vede chiaramente come si è ingannato poiché, fondando l'elezione sul merito delle opere, aveva sufficienti argomenti per spaventare gli uomini e disorientarli; mentre non poteva renderli saldi poiché non li rimandava alla fiducia nella bontà di Dio.

Da ciò i credenti possono in qualche modo comprendere quel che abbiamo detto all'inizio, che cioè la predestinazione, se è ben meditata, non turba né scrolla la fede, ma piuttosto la conferma.

Non escludo tuttavia che, talvolta, lo Spirito Santo adatti le sue parole all'ignoranza del nostro intendimento, come quando dice: "Essi non saranno più nel consiglio del mio popolo, non saranno più iscritti nel registro dei miei servitori " (Ez. 13.9). Infatti è come se cominciasse a scrivere nel libro della vita quelli che vuol riconoscere per suoi, poiché, secondo la testimonianza di Gesù Cristo, i nomi dei figli di Dio sono stati registrati fino dall'inizio nel libro della vita (Fl. 4.3). Ma la reiezione degli Ebrei, che per un certo tempo erano stati considerati i pilastri della Chiesa, è indicata dalle parole del Salmo: "Siano cancellati dal libro della vita, e non siano iscritti con i giusti " (Sl. 69.29).

10. Gli eletti non vengono tutti inseriti dalla chiamata del Signore nel gregge di Cristo fin dal ventre materno, né ad un medesimo momento, ma nel modo in cui piace a Dio di dispensare loro la sua grazia. Prima dunque che siano convertiti a questo sovrano pastore, sono errabondi come gli altri e dispersi nella dispersione di questo mondo, senza differire in nulla dagli altri se non per il fatto che la singolare compassione di Dio li preserva onde non abbiano a cadere in rovina eterna. Se li esaminiamo, vedremo dunque in loro la razza di Adamo, la quale non può che risentire della perversità della sua origine. Il fatto che incorrano in una empietà estrema e senza speranza, non è dovuto a una qualche loro bontà naturale, ma all'occhio del Signore che veglia sulla loro salvezza e alla sua mano che si distende per condurveli.

Coloro infatti che immaginano di avere non so qual seme di elezione radicato nei loro cuori fin dalla nascita, e che in tal modo sono sempre inclini al timor di Dio, non traggono dalla Scrittura alcuna autorità per provare la loro opinione, e l'esperienza stessa li convince di errore. Si valgono tuttavia di qualche esempio per provare che alcuni degli eletti non sono stati affatto senza religione prima di essere rettamente illuminati; citano san Paolo, irreprensibile nel suo fariseismo (Fl. 3.5) , e il centurione Cornelio, gradito a Dio per le sue elemosine e per le sue preghiere (At. 10.2). Riguardo a san Paolo approvo quel che dicono; riguardo a Cornelio, dico che si ingannano. Poiché già allora era rigenerato ed illuminato al punto che non gli mancava più nulla, all'infuori di una più chiara rivelazione dell'evangelo. Ma che cosa otterranno infine, quando avremo loro concesso una dozzina di questi esempi? Concluderanno che tutti gli eletti di Dio hanno avuto un medesimo spirito? È come se qualcuno, avendo dimostrato l'integrità di Socrate, Aristide, Senocrate, Scipione, Curio, Camillo ed altri pagani, ne volesse dedurre che tutti coloro che sono stati accecati nell'idolatria, hanno condotto una vita santa ed integra. A parte il fatto che la loro argomentazione non è valida, la Scrittura li contraddice palesemente in parecchi passi. Infatti la condizione che san Paolo descrive come caratteristica degli Efesini prima della loro rigenerazione, non lascia vedere traccia di questo seme: "Eravate "dice "morti nei falli e nei peccati, nei quali camminavate secondo l'andazzo di questo mondo e secondo il diavolo, il quale opera ora nei ribelli; e noi eravamo fra quelli, assecondando le concupiscenze della nostra carne e del nostro pensiero, ed eravamo tutti per natura eredi dell'ira di Dio, come gli altri " (Ef. 2.1.3). E: "Ricordatevi che un tempo siete stati senza speranza e senza Dio, in questo mondo " (Ef. 2.12). E: "Un tempo eravate tenebre; ora, poiché siete luce in Dio, camminate come figli di luce " (Ef. 5.8).

Diranno forse che questo si deve riferire all'ignoranza del vero Dio, in cui riconoscono che gli eletti sono imprigionati prima della loro chiamata. Ma questa è una calunnia spudorata, dato che san Paolo deduce da quella affermazione che gli Efesini non devono più mentire né rubare (Ef. 4.28). Quand'anche glielo concedessimo, che risponderanno ad altri passi? Come quando, avendo affermato ai Corinzi che gli idolatri, i fornicatori, gli adulteri, gli effeminati, i mascalzoni, i ladri e gli avari non possederanno il regno di Dio, subito aggiunge che sono stati avvolti in questi misfatti prima di aver conosciuto Cristo; ma che ora ne sono ripuliti dal suo sangue e liberati dal suo Spirito (1 Co. 6.9.2). E, ai Romani: "Come avete abbandonato le vostre membra al servizio dell'impurità e dell'iniquità, mettetele ora al servizio della giustizia. E che frutto avete ricavato dalla vostra vita precedente, vita di cui ora vi vergognate? " (Ro 6.19).

2. Quale germe di elezione, vi prego, fruttificava in coloro che, conducendo una vita completamente malvagia, con cattiveria quasi disperata si erano dati al peccato più esecrabile del mondo? Se l'Apostolo avesse voluto parlare in maniera conforme a questi nuovi dottori, avrebbe dovuto indicare loro di quanto fossero debitori a Dio di non averli lasciati cadere in simile bassezza. Parimenti san Pietro doveva esortare coloro ai quali scriveva lLa sua epistola a render grazie a Dio di averli preservati dando loro fin dall'inizio un germe di santità. Invece li ammonisce che è più che sufficiente che in passato abbiano allentato la briglia ad ogni malvagia concupiscenza (1 Pi. 4.3).

E che ne sarà se adduciamo degli esempi? Quale seme c'era in Raab la meretrice, prima della fede? (Gs. 2.1). Ed in Manasse, mentre spandeva il sangue dei profeti fino a farne straripare la città di Gerusalemme? (4 Re 21.16. E nel brigante che giunse al pentimento al momento di rendere lo spirito? (Lu 23.42). Ma tralasciamo queste invenzioni prive di fondamento, che queste intelligenze curiose si costruiscono al di fuori della Scrittura. Atteniamoci piuttosto fermamente al contenuto di quest'ultima, che cioè siamo stati simili a povere pecore smarrite, e che ciascuno di noi si è allontanato dalla sua strada, cioè si è perso (Is. 53.6); e da questo abisso di perdizione il Signore ritrae chi gli pare, non in una volta sola, ma differendo, a suo giudizio, il suo intervento; mentre preserva costoro dall'incespicare in una bestemmia irremissibile.

12. Il Signore per virtù della sua chiamata, guida i suoi eletti alla salvezza cui li aveva preordinati per la sua decisione eterna; d'altra parte, compie i suoi giudizi sui reprobi, mediante i quali esegue quel che ha stabilito di fare di loro. Perciò priva della facoltà di intendere la sua parola coloro che ha creati per la condanna e la morte eterna, affinché siano strumenti della sua ira e esempi della sua severità, oppure li acceca e indurisce maggiormente attraverso la predicazione di essa, per farli pervenire allo scopo per il quale sono stati creati.

Infiniti sono gli esempi del primo caso: ma ne sceglieremo uno notevole fra tutti gli altri. Sono trascorsi più di quattromila anni prima dell'avvento di Cristo, durante i quali il Signore ha sempre nascosto a tutti la luce della sua dottrina di salvezza. Se qualcuno adduce che non ha fatto gli uomini di quel tempo partecipi di un tal bene, perché li considerava indegni, i successori non ne sono maggiormente degni. Ne abbiamo certissima testimonianza nel profeta Malachia, oltre che nell'esperienza. Dopo aver redarguito l'incredulità, le enormi bestemmie e altri delitti del suo popolo, egli afferma che, malgrado ciò, il Redentore verrà (Ma.4.1). Perché dunque ha fatto questa grazia agli uni piuttosto che agli altri? Se qualcuno vuole cercare qui un motivo più alto della decisione segreta e occulta di Dio, si tormenterà invano. Non bisogna credere che qualche discepolo di Porfirio o qualche altro bestemmiatore sia libero di denigrare la giustizia di Dio, per il fatto che non controbattiamo. Infatti quando affermiamo che nessuno perisce senza averlo meritato, e che è per bontà gratuita di Dio che taluni sono liberati dalla condanna, questo basta per affermare la sua gloria, che non ha bisogno di essere difesa dalle nostre argomentazioni. In tal modo il giudice sovrano, privando della luce della sua verità e lasciando nell'accecamento coloro che ha riprovati, apre la strada alla sua predestinazione.

Quanto al secondo caso, ne facciamo quotidianamente l'esperienza e ne troviamo parecchi esempi nella Scrittura: su cento uomini che ascoltano lo stesso sermone, venti lo riceveranno nell'ubbidienza della fede, gli altri non ne terranno conto, se ne befferanno lo respingeranno e lo condanneranno. Se qualcuno afferma che questa diversità deriva dalla loro cattiveria e perversità, questo non risolve il problema perché una medesima cattiveria occuperebbe la mente di tutti, se il Signore non ne correggesse alcuni per mezzo della sua grazia. Pertanto rimarremmo sempre in imbarazzo se non ci fosse l'affermazione di san Paolo: "Chi è che ti distingue dagli altri? " (1 Co. 4.7) , affermazione con cui intende dire che se uno eccelle più dell'altro non è per virtù propria, ma per la sola grazia di Dio.

13. Perché, dunque, facendo grazia all'uno, lascia l'altro indietro? San Luca motiva la chiamata dei primi, dicendo che li aveva preordinati alla vita (At. 13.48). E che pensare degli altri, se non che sono strumenti della sua ira, per loro vituperio? Non vergogniamoci dunque di dire con sant'Agostino: "Dio potrebbe convertire in bene la volontà dei malvagi, essendo onnipotente. Di ciò non v'è dubbio. Perché dunque non lo fa? Perché non lo vuole. E il motivo per cui non lo vuole è nascosto in Dio "Infatti non dobbiamo sapere più di quanto conviene. Meglio così, piuttosto che tergiversare con Crisostomo e dire che egli attira colui che lo invoca e tende la mano per ricevere aiuto; e che pertanto la differenza non sta nel giudizio di Dio ma nel volere degli uomini. Insomma, l'avvicinarsi a Dio è così lungi dal risiedere in un moto spontaneo dell'uomo, che perfino i figli di Dio hanno bisogno di essere spinti da una ispirazione dello Spirito. Lidia, la venditrice di porpora, temeva Dio; tuttavia è stato necessario che il suo cuore venisse aperto dall'alto perché fosse resa attenta all'insegnamento di san Paolo e ne traesse utilità (At. 16.14). Ciò non si riferisce soltanto a questa donna, ma è detto affinché sappiamo che ogni progresso nella fede e nella pietà è opera mirabile dello Spirito Santo.

Ma non si può mettere in dubbio che il Signore mandi la sua parola ad alcuni di cui sa che la cecità ha da essere aumentata. Perché faceva mandare tante ambasciate a Faraone? Forse sperava poter così addolcire il di lui cuore? Ma prima di cominciare sapeva quale sarebbe stata la conclusione, e lo aveva predetto: "Va "diceva a Mosè "ed esponigli la mia volontà. Ma io indurirò il suo cuore onde non obbedisca " (Es. 4.21). Analogamente, quando suscita Ezechiele, lo avverte che lo manda ad un popolo ribelle ed ostinato affinché non si meravigli di trovare le loro orecchie sorde (Ez. 2.3; 12.2). Predice parimenti a Geremia che il suo insegnamento sarà simile ad un fuoco che perde e dissipa il popolo come paglia (Gr 1.10).

Ma la profezia che troviamo in Isaia è ancora più forte. Infatti il Signore lo manda con quest'ordine: "Va' a dire ai figli d'Israele: "Ascoltate, sì, ma senza comprendere; guardate, sì, ma senza discernere". Indura il cuore di questo popolo, tappa le sue orecchie e fascia i suoi occhi, affinché non veda, non ascolti e non capisca, non si converta e non sia salvato " (Is. 6.9). Ecco in che modo rivolge loro la sua parola, ma è per renderli più sordi; fa loro vedere la luce, ma per renderli più ciechi; presenta loro il suo insegnamento, ma per stordirli maggiormente; dà loro un rimedio, ma affinché non guariscano. San Giovanni, adducendo questa profezia, dice che i Giudei non hanno potuto credere all'insegnamento di Cristo perché quella maledizione di Dio era su loro (Gv. 12.39).

Ed è indubbio che quando Dio non vuole illuminare qualcuno, gli presenta il suo insegnamento in maniera oscura, onde costui non ne tragga vantaggio ma timore e incomprensione. Cristo afferma che spiega soltanto ai suoi apostoli le parabole che aveva esposto al popolo, perché la grazia di conoscere i misteri del suo regno è data agli apostoli, e non agli altri (Mt. 13.2). E che vuole il Signore, ammaestrando coloro da cui non vuol esser inteso? Esaminiamo donde viene il peccato, e smetteremo di fare questa domanda. Perché per quanto oscuro sia l'insegnamento, ha sempre abbastanza luce per convincere le coscienze dei malvagi.

14. Ma rimane da vedere per quale ragione il Signore faccia questo, dato che è indubbio che lo fa.

Se si risponde che ciò accade perché gli uomini lo hanno meritato con la loro perversità ed ingratitudine, sarà questa una risposta giusta e vera. Ma poiché la ragione di una tale diversità non è evidente, per qual motivo cioè egli pieghi gli uni all'obbedienza e faccia persistere gli altri nell'indurimento, per dare una giusta risposta bisogna rifarsi a quello che San Paolo afferma intorno alla testimonianza di Mosè: Dio ha suscitato i reprobi fin dall'inizio per rivelare il suo nome su tutta la terra (Ro 9.17). Pertanto se i reprobi, avendo il regno di Dio aperto, non se ne curano, il loro rifiuto sarà rettamente addebitato alla loro perversità e malvagità, purché si aggiunga che sono stati asserviti ad una tal perversità in quanto il giudizio di Dio, equo ma incomprensibile, li ha suscitati per evidenziare la sua gloria attraverso la loro condanna.

Quando è detto dei figli di Eli che non hanno ascoltato gli ammonimenti salutari del loro padre perché il Signore voleva perderli (1 Re 2.25) , questo non significa che una tale ostinazione non derivi dalla loro malvagità; ma si vuole sottolineare perché sono stati lasciati in tale ostinazione, dal momento che Dio poteva aprire i loro cuori: perché il decreto immutabile di Dio li aveva fin dall'inizio destinati a perdizione. Analogo significato hanno le parole di san Giovanni: sebbene Gesù Cristo avesse compiuto molti miracoli, nessuno credette in lui, onde si avverasse la parola di Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? Egli non vuole assolvere gli increduli, come se non fossero colpevoli, si limita a sottolineare il fatto che gli uomini non trovino né gusto né sapore nella Parola di Dio, finché non sia loro dato dallo Spirito di assaporarla bene. E Gesù Cristo, adducendo la profezia di Isaia, che tutti saranno ammaestrati da Dio (Gv. 6.45) , non ha altro scopo che quello di indicare che i Giudei sono reprobi e stranieri alla Chiesa, in quanto non si lasciano ammaestrare, e non adduce altra ragione all'infuori di questa, che la promessa di Dio non appartiene loro. San Paolo lo conferma, dicendo che Gesù Cristo, scandalo per i Giudei e follia per i pagani, è tuttavia potenza e sapienza di Dio per coloro che sono chiamati (1 Co. 1.23). Dopo aver esposto quel che ordinariamente accade quando l'Evangelo è predicato, che cioè avvelena gli uni ed è vilipeso dagli altri, aggiunge che è apprezzato soltanto da coloro che sono chiamati. Li aveva sì poco prima chiamati credenti, ma non per togliere autorità alla grazia dell'elezione di Dio, la quale è anteriore alla fede; piuttosto, ha aggiunto questa precisazione per maggior chiarezza, onde coloro che avevano ricevuto l'Evangelo attribuissero la lode della loro fede alla vocazione di Dio, come dice anche poco oltre.

Quando i malvagi odono ciò, lamentano che Dio abusi delle sue povere creature esponendole crudelmente al gioco di una potenza disordinata. Ma noi, coscienti che gli uomini sono in tanti modi colpevoli dinanzi al tribunale di Dio, tanto che se li interrogasse su mille punti non saprebbero rispondere ad uno solo, riconosciamo che i reprobi non sono sottoposti a qualcosa che non si addica al suo giusto giudizio. Il fatto che non ne comprendiamo il motivo, lo dobbiamo accettare con pazienza senza rifiutarci di ignorare qualcosa laddove la sapienza di Dio innalza la sua grandezza.

15. Si è soliti citare, come obiezione, alcuni passi della Scrittura in cui pare che gli iniqui non periscano per decisione di Dio, se non buttandosi nella perdizione contro il suo volere e quasi suo malgrado; dobbiamo perciò spiegare brevemente tali passi per dimostrare che non contrastano Cl. Nostro insegnamento.

Si cita il passo di Ezechiele in cui è detto che Dio non vuole la morte del peccatore, ma vuole che si converta e viva (Ez. 33.2). Se si vuole estendere ciò a tutto il genere umano,

Mi chiedo perché egli non solleciti molti al pentimento, i cui cuori si piegherebbero più facilmente all'ubbidienza che non quelli di coloro che si indurano sempre più quando li invita quotidianamente. Gesù Cristo afferma che la sua predicazione e i suoi miracoli avrebbero portato più frutto a Ninive ed a Sodoma che in Giudea (Mt. 11.23). Se Dio vuole che tutti siano salvati, come mai non ha aperto la porta a quei poveretti, che sarebbero stati meglio disposti a ricevere la grazia, qualora fosse stata loro offerta? Questo passo è dunque travisato e come tirato per i capelli, se all'ombra delle parole del Profeta si vuole annullare la decisione eterna di Dio, con la quale il Signore ha separato i reprobi dagli eletti.

Cerchiamone ora il significato ovvio. Il suo intento è di dare a coloro che si pentiranno buona speranza di essere accolti nella grazia. Il succo è questo: i peccatori non devono dubitare che Dio li perdoni non appena si sono convertiti. Non vuole dunque la loro morte, se vuole la loro conversione. L'esperienza dimostra che per volere di Dio molti chiamati si pentono, ma non tutti i cuori sono toccati. Non che li inganni: sebbene infatti la voce esterna non serva che a rendere inescusabili coloro che l'odono senza ubbidirvi, tuttavia ha da essere considerata come vera testimonianza della grazia di Dio, per mezzo della quale egli riconcilia gli uomini a se. Cerchiamo dunque di intendere rettamente il Profeta, quando dice che Dio non si compiace della morte del peccatore: è affinché i credenti abbiano fiducia che Dio sarà sollecito nel perdonare le loro colpe, non appena si saranno pentiti, e gli schernitori sappiano al contrario che la loro colpa è tanto più grave, in quanto non rispondono ad una tal bontà e clemenza di Dio. Dio precederà sempre coloro che si convertono, offrendo loro il suo perdono; ma la conversione non è concessa a tutti, e ce lo indicano chiaramente Ez.chiele, i profeti e gli apostoli.

In secondo luogo si cita il passo in cui san Paolo dice che Dio vuole che tutti siano salvati (1 Ti. 2.4). Sebbene contenga qualche diversità rispetto all'affermazione del Profeta, c'è tuttavia una certa somiglianza.

Anzitutto è noto, dal contesto, in che modo Dio voglia la salvezza di tutti. San Paolo congiunge infatti queste due cose: Dio vuole che tutti siano salvati, e che vengano a conoscienza della verità. Se è stato deciso dal consiglio eterno di Dio che tutti siano resi partecipi della dottrina della salvezza, che diventerà l'affermazione di Mosè secondo la quale non c'è stato, nel mondo, popolo così nobile al quale Dio si sia avvicinato come ai Giudei? (De 4.7). Come mai Dio ha privato tante nazioni della luce del suo Evangelo, luce di cui ha fatto godere gli altri? Come mai la pura conoscenza della verità celeste non è mai giunta a molte persone, e gli altri ne hanno a stento assaporato qualche piccolo frammento?

A questo punto è facile capire quel che san Paolo intende. Aveva ordinato a Timoteo di fare solenni preghiere per i re e per i prìncipi. Poiché pareva strano pregare Dio per una categoria di persone così prive di speranza, in quanto non solo erano all'infuori della comunità dei credenti ma si sforzavano, per quanto era in loro potere, di opprimere il regno di Cristo, aggiunge che ciò è gradito a Dio, che vuol salvare tutti gli uomini. Con questo intende che non ha precluso la via della salvezza a nessuno, ma ha esteso a tal punto la sua misericordia da volerne rendere partecipi gli appartenenti ad ogni condizione.

Le altre testimonianze bibliche non svelano quel che il Signore ha deciso nel suo occulto giudizio, ma si limitano ad affermare che il perdono è preparato per tutti i peccatori che lo richiedono in vera penitenza. Se qualcuno infatti si ostina sul termine, laddove è detto che vuol far misericordia a tutti, risponderò che altrove è detto che il nostro Dio è nel cielo e di lì fa tutto quel che gli pare opportuno (Sl. 115.3). Bisogna dunque intendere questo termine coerentemente con l'altra affermazione: egli farà grazia a colui a cui farà grazia e avrà pietà di chi avrà pietà (Es. 33.19). Se sceglie coloro verso i quali deve usare misericordia, non la usa evidentemente verso tutti. Ma poiché san Paolo non si riferisce a ciascun uomo ma alle categorie e alle condizioni, mi astengo da più lunga disputa. Bisogna inoltre notare che san Paolo non si sofferma su quel che Dio fa in ogni circostanza, dappertutto e in tutti, ma avverte che dobbiamo lasciare che, nella sua libertà, egli attiri i re, i prìncipi ed i magistrati all'ubbidienza al suo insegnamento anche se per un certo tempo costoro sono come rabbiosi contro di essa poiché sono ciechi ed errano nelle tenebre.

Il passo in cui san Pietro dice che Dio non vuole che alcuno perisca, ma che riceve tutti coloro che si ravvedono (2 Pi. 3.9) , a prima vista pare in contrasto con le affermazioni precedenti, senonché il nodo è sciolto dal termine "ravvedersi ", in quanto non si può dire che Dio accolga il pentimento in un modo diverso da quello indicato attraverso tutta la Scrittura. Certo, la conversione degli uomini è nella sua mano. Gli si chieda se li vuol convertire tutti, dato che promette di dare un cuore di carne soltanto ad un piccolo numero, lasciando agli altri il loro cuore di pietra (Ez. 36.26). È vero che se non fosse pronto a ricevere coloro che trovano il loro rifugio nella sua misericordia, l'affermazione: "Convertitevi a me ed io mi convertirò a voi " (Za. 1.3) sarebbe priva di senso. Ma ripeto che nessuno s'avvicina mai a Dio senza essere prevenuto ed attirato da lui. Infatti, se il pentimento dipendesse dall'arbitrio dell'uomo, san Paolo non direbbe che bisogna provare se Dio darà il pentimento a coloro che sono stati induriti (2Ti 2.25). Anzi se non fosse Dio ad attirare per segreta ispirazione i suoi eletti al pentimento, cui invita tutti, Geremia non direbbe: *"Signore convertimi e sarò convertito; poiché da quando mi hai convertito io mi sono emendato " (Gr. 31.18).

16. Ma qualcuno obietterà: se è così, le promesse dell'evangelo offrono poca sicurezza poiché, attestando la volontà di Dio, dichiarano che egli vuole quel che si oppone a quanto ha deciso in segreto. Rispondo di no. Sebbene le promesse di salvezza siano universali, esse non sono affatto in contrasto con la predestinazione dei reprobi, purché ne consideriamo il compimento. Sappiamo che esse sono per noi valide quando le riceviamo per fede e che, al contrario, quando la fede è nulla esse sono abolite.

Se tale è la natura delle promesse, consideriamo ora se esse contraddicono la predestinazione di Dio: è detto infatti che Dio ha stabilito fin dall'inizio chi voleva prendere in grazia e chi voleva respingere, e che, tuttavia, promette la salvezza indistintamente a tutti. Non c'è contraddizione. Il Signore, con tali promesse, vuol semplicemente significare che la sua misericordia è presentata a tutti quelli che la cercheranno. Ma nessuno la cerca, all'infuori di coloro che egli ha illuminati. Insomma, egli illumina coloro che ha predestinati alla salvezza. E quelli sperimentano la verità sicura e certa delle promesse, tanto che non si può trovare alcun contrasto fra l'elezione eterna di Dio e il fatto che egli offre testimonianza della sua grazia a coloro che credono in lui.

Ma perché cita tutti gli uomini? Lo fa onde le coscienze dei pii riposino con maggior sicurezza, vedendo che non vi è alcuna differenziazione fra i peccatori, a condizione che ci sia la fede. D'altra parte, gli iniqui non dicano di non avere alcun mezzo per sfuggire al loro asservimento al peccato, visto che con la loro ingratitudine rifiutano questo mezzo. Poiché dunque la misericordia di Dio è presentata agli uni e agli altri per mezzo dell'evangelo, non c'è che la fede, cioè l'illuminazione di Dio, che distingue i credenti dagli increduli, affinché i primi sentano l'efficacia dell'evangelo ed i secondi non ne ricevano alcuna utilità. Ma questa illuminazione ha come criterio l'elezione eterna di Dio.

Né è loro di aiuto, benché se ne facciano un grande scudo, il lamento di Gesù Cristo su Gerusalemme, quando egli dice di aver voluto raccogliere i suoi pulcini e di aver incontrato il loro rifiuto (Mt. 23.37). Ammetto che Gesù Cristo non parla in quanto uomo, ma rimprovera ai Giudei di aver rifiutato in ogni tempo la sua grazia. Tuttavia dobbiamo considerare qual è la volontà di Dio da lui menzionata. È evidente il modo in cui Dio ha accuratamente cercato di trattenere quel popolo. Si sa anche come, smarriti dietro le loro concupiscenze, abbiano ostinatamente resistito per non essere raccolti. Ma non ne deriva che il consiglio immutabile di Dio sia stato reso vano dalla malvagità degli uomini.

I nostri contraddittori replicano che nulla si addice meno alla natura di Dio che di avere una duplice volontà. Lo ammetto, a condizione che sappiano interpretare rettamente quell'affermazione. Ma come mai non prendono in considerazione tanti passi in cui Dio, assumendo su di se le disposizioni degli uomini, scende per così dire dalla sua maestà per abbassarsi al livello della nostra ignoranza? Dice per bocca di Isaia di aver teso le braccia a quel popolo ribelle, di essersi alzato la mattina e aver vegliato fino a tardi per ricondurlo a se (Is. 65.2). Se vogliono attribuire tutto ciò a Dio, ignorando il modo di parlare che abbiamo menzionato, apriranno il varco a molte discussioni superflue che possono essere troncate in una parola: Dio trasferisce su di se, per similitudine, quel che è proprio degli uomini. Ma la soluzione che abbiamo già dato è sufficiente sebbene la volontà di Dio appaia multiforme alla nostra sensibilità, egli tuttavia non vuole questa o quella cosa per il valore che hanno in se, ma per stupire i nostri sensi con la varietà della sua sapienza, come dice san Paolo (Ef. 3.10) , fino a che ci sarà dato di capire, l'ultimo giorno, come egli voglia, in modo mirabile, quel che oggi pare contrario al suo volere.

Si valgono anche di cavilli indegni di risposta: poiché Dio è padre di tutti, non c'è motivo che ne diseredi alcuni, se non coloro che per loro colpa si sono già resi indegni di salvezza. Equivarrebbe a dire che la generosità di Dio si estende fino ai cani e ai porci! Ma se è questione del genere umano, mi dicano perché Dio ha voluto allearsi con un solo popolo per essergli padre, tralasciando tutti gli altri? E perché, del popolo che aveva scelto si è riservato solo un piccolo numero, come il fiore di esso? Ma il rabbioso desiderio di sparlare, che incita questi malvagi, impedisce loro di prendere in considerazione quel che tutti vedono: che cioè Dio fa brillare ogni giorno il suo sole sui buoni e sui malvagi (Mt. 5.45) , sebbene riservi l'eredità eterna al piccolo gregge dei suoi eletti ai quali sarà detto: "Venite, benedetti dal Padre mio, prendete possesso del regno che vi è stato preparato prima della creazione del mondo " (Mt. 25.34)

Obiettano ancora che Dio non odia nulla di quel che ha creato. E lo posso ammettere senza pregiudicare quel che insegno: che cioè i reprobi sono odiati da Dio, e a buon diritto, perché essendo privati del suo Spirito non possono che essere causa di maledizione.

Si valgono anche, molto scioccamente, dell'argomento che la grazia di Dio è comune a tutti indifferentemente, in quanto non vi è diversità fra il Giudeo ed il Gentile. Anche questo accetto, a condizione che lo intendano alla stregua di san Paolo, che cioè Dio chiama sia fra i Giudei sia fra i pagani quelli che gli pare, senza essere obbligato verso nessuno (Ro 9.24).

Così è controbattuta anche la loro affermazione secondo la quale Dio ha compreso tutto sotto il peccato, al fine di aver pietà di tutti (Ro 11.32). Sì certo, in quanto vuole che la salvezza di tutti sia attribuita alla sua misericordia, sebbene un tal beneficio non sia comune a tutti.

Ma quando si saranno addotte molteplici ragioni, e si sarà discusso da entrambe le parti, dovremo giungere a questa conclusione, di lasciarci rapire dalla meraviglia, come san Paolo; e se le lingue sfrenate continuano a lanciare i loro frizzi, non vergogniamoci di esclamare: "o uomo, chi sei tu per contendere con Dio? " (Ro 9.20). Sant'Agostino ha ragione quando afferma che coloro che misurano la giustizia di Dio con metro umano agiscono in maniera perversa.