Letteratura/Istituzione/4-12

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Indice generale

Istituzioni della religione cristiana (Calvino)

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CAPITOLO 12

LA DISCIPLINA DELLA CHIESA, LA CUI ATTUAZIONE CONSISTE PRINCIPALMENTE IN CENSURE E SCOMUNICHE

1. Occorre illustrare ora brevemente la disciplina della Chiesa, la cui trattazione abbiamo sin qui differita. Essa consiste essenzialmente nel potere delle chiavi e nella giurisdizione spirituale; per esaminare con maggior facilità questo problema divideremo la Chiesa in due categorie: il clero e il popolo. Adopero questo termine "clero" nella sua accezione comune, quantunque risulti improprio, intendendo coloro che nella Chiesa hanno cariche e ministeri. Parleremo in primo luogo della disciplina generale cui tutti i credenti debbono sottostare; tratteremo in seguito del clero che ha, oltre quella disciplina suddetta, una sua disciplina particolare.

Vi sono persone a tal punto prevenute contro la disciplina da essere inorriditi alla sola menzione del termine, è perciò necessario confutare questo loro errore. Nessuna comunità umana, neppure quella famigliare, sia pur piccola, può sopravvivere senza una disciplina, a maggior ragione si richiede che la Chiesa abbia una sua disciplina in quanto deve essere organizzata molto meglio che ogni casa e ogni comunità. Pertanto se la dottrina di nostro Signore può dirsi l'anima della Chiesa, la disciplina, come i nervi in un corpo, ha la funzione di unire le membra e tenere ognuno al proprio posto, nel suo ordine. Tutti quelli che desiderano la soppressione della disciplina o ne impediscono la restaurazione, agiscano scientemente o senza averne coscienza, conducono la Chiesa alla disgregazione totale. Che accadrebbe infine se fosse lecito ad ognuno condurre l'esistenza che meglio gli aggrada? Una libertà di quel genere esisterebbe qualora, con la predicazione della dottrina, non si ricorresse ad ammonizioni private, correzioni o altri provvedimenti, la cui funzione è quella di aiutare la dottrina sì che non risulti inutile. La disciplina è dunque come una briglia per trattenere e domare coloro che sono ribelli alla dottrina, un pungolo per coloro che sono tardi e svogliati, a volte può essere una verga per punire con dolcezza e cristiana mansuetudine coloro che hanno errato in modo più grave.

Di fatto constatiamo che la Chiesa decade e rischia di essere distrutta quando non ci si preoccupa, o manca la possibilità, di mantenere il popolo nell'obbedienza di nostro Signore; la situazione stessa dimostra la necessità di un rimedio. Ora l'unico rimedio è quello che Gesù Cristo ordina ed è stato da sempre in uso tra i credenti.

2. Il primo, fondamentale, elemento di una disciplina è l'esistenza di ammonizioni private: quando cioè qualcuno non compie il suo dovere volenterosamente, o non vive onestamente, o ha commesso atti degni di riprensione, o si lascia portare ad insolenze, accetti di essere ammonito e ognuno si impegni ad ammonire il prossimo quando ve ne sia necessità; ma che sopra tutto pastori e sacerdoti si preoccupino di questo, in quanto l'ufficio loro non consiste solo in predicazione dal pulpito ma anche in esortazioni ed ammonizioni particolarmente nelle case, nei confronti di coloro su cui l'insegnamento in forma generale non abbia avuto sufficiente efficacia; come dichiara san Paolo quando scrive che ha rivolto il suo insegnamento agli Efesini, sia nelle case che in pubblico, dichiarandosi puro del sangue di rutti, poiché non aveva smesso di ammonire ognuno con lacrime (At. 20.20.20. La dottrina ha piena autorità e produce i suoi frutti quando il ministro, non solo dichiara in forma generale a tutti quali responsabilità si abbia verso Cristo, ma ha anche modo e occasione di incitare, in modo particolare, coloro che vede essere distratti o disubbidienti alla dottrina e sollecitarli ad emendarsi.

Se qualcuno respinge con spirito ribelle tali rimostranze, o, perseverando nel male, dimostra di non tenerle da conto, dopo essere stato ammonito una seconda volta in presenza di due o tre testimoni, deve, secondo l'ordine di Gesù Cristo essere deferito al giudizio della Chiesa ed essere quivi ammonito più seriamente dalla pubblica autorità, affinché ascolti la Chiesa, si sottometta ad essa con spirito di umiltà e obbedisca.

Qualora non si siano raggiunti risultati con questo mezzo, ma costui perseveri nella sua malvagità, lo si deve escludere ed espellere dalla comunità dei cristiani in quanto sprezza la Chiesa (Mt. 18.15-17).

È Considerando che Gesù Cristo, in quel testo, fa riferimento solo a vizi segreti e nascosti, occorre fare una distinzione tra i peccati nascosti e quelli che sono pubblici e palesi.

Riguardo ai primi Gesù Cristo, rivolgendosi ad ognuno, dice: "Riprendi colui che ha peccato fra te e lui in segreto " (Mt. 18.15). Riguardo a quelli noti, san Paolo dice a Timoteo: "Riprendilo in presenza di tutti onde anche gli altri abbiano timore " (1 Ti. 5.20).

Poiché Gesù Cristo aveva detto prima: "se tuo fratello ha peccato contro di te o nei tuoi riguardi ", questa espressione può soltanto significare: se qualcuno ha peccato e che tu solo ne sia informato, senza che vi siano altri testimoni.

Ciò che san Paolo ordina a Timoteo di fare: redarguire coloro che abbiano commesso peccati palesi, egli stesso lo ha applicato e adempiuto nei confronti di Pietro. Infatti l'errore di questi provocava scandalo egli perciò non lo ammonì in forma privata ma lo condusse dinanzi a tutta la Chiesa (Ga 2.14).

Questo modo di procedere risulterà pertinente e legittimo se, nel correggere le colpe segrete, ci atterremo alla procedura che Gesù Cristo ha indicato, e nel correggere quelle pubbliche ci appelleremo subito alla Chiesa anche se questo implica scandalo.

4. Occorre altresì fare un'altra distinzione fra i peccati: alcuni sono di poco conto, da perdonarsi con facilità, altri sono azioni malvagie e riprovevoli.

Per porre rimedio alle azioni delittuose non basta fare ammonizioni o rimproveri ma occorre ricorrere a provvedimenti più severi come dimostra san Paolo quando, non solo rimprovera verbalmente l'incestuoso di Corinto, ma lo colpisce con la scomunica dopo aver preso le necessarie informazioni (1 Co. 5.4).

Iniziamo dunque a vedere più chiaramente come la giurisdizione spirituale della Chiesa, che secondo la parola di Dio ha funzione di correggere gli errori, rappresenti un ottimo ausilio per il mantenimento della Chiesa, la garanzia del suo ordine e il vincolo della sua unità. Quando perciò la Chiesa esclude dalla sua comunione rei manifesti di adulterio, furto, falso, rapina, omicidio, sedizione, dispute, tumulti, falsa testimonianza e altre cose simili, e anche quelli che, pur non avendo commesso peccati sì gravi, non avranno voluto fare ammenda delle proprie colpe e si saranno dimostrati ribelli, non compie nulla di irragionevole ma attua semplicemente la giurisdizione che Dio le ha affidato.

Affinché nessuno disprezzi questa sentenza della Chiesa o reputi cosa da poco l'essere condannato dal giudizio dei credenti, il Signore ha dichiarato che quest'ultimo deve considerarsi dichiarazione pubblica della sua sentenza e sarà ratificato in cielo quanto essi avranno decretato in terra (Mt. 16.19). Infatti essi hanno la parola di Dio per condannare i peccatori, hanno la stessa parola per graziare ogni penitente sincero.

Coloro che pensano la Chiesa possa esistere a lungo senza esser mantenuta e vincolata da questa disciplina, grandemente si ingannano, poiché è indubbio che non possiamo fare a meno del rimedio, che il Signore ha previsto esserci necessario. Di fatto il giovamento che ne ricaviamo dimostra ancor più chiaramente la sua necessità.

5. Tre sono gli scopi che la Chiesa persegue con queste punizioni e la scomunica.

Il primo è per evitare che gente dal comportamento vergognoso sia inclusa, con grande obbrobrio di Dio, nel numero dei credenti, quasi la Chiesa fosse ricettacolo di malvagi e malviventi. La Chiesa è il corpo di Cristo, non può dunque essere contaminata da membra malate senza che al capo stesso ne derivi disonore. Perché non vi sia dunque nella Chiesa nulla che rechi disonore al nome di Dio, occorre escluderne tutti coloro che, con i loro peccati, diffamano e disonorano la fede cristiana.

Occorre altresì aver riguardo alla Cena del Signore onde non sia profanata, con l'esser data indifferentemente a tutti. Il responsabile della sua amministrazione si rende certo colpevole di sacrilegio, qualora ammetta chi si dovrebbe o potrebbe respingere, altrettanto che se desse il corpo del Signore ai cani. Perciò san Crisostomo si indigna contro i sacerdoti che, per timore dei potenti e dei ricchi, non osavano respingere nessuno di costoro quando si presentavano. "Il sangue "diceva "sarà ridomandato alle vostre mani, se temete l'uomo mortale si befferà di voi, se temete Dio gli uomini stessi vi onoreranno. Non ci lasciamo impressionare né da scettri, né da diademi, né dalla porpora. Siamo qui in presenza di una potenza ben maggiore. Quanto a me preferirei offrire il mio corpo a morte e lasciare che il mio sangue sia sparso piuttosto che rendermi partecipe di tale profanazione ". Affinché non sia recata offesa a questo santo mistero si richiede dunque che esso venga amministrato con un discernimento che implica nella Chiesa una giurisdizione.

La seconda motivazione di una disciplina ecclesiastica è far sì che i buoni non siano, come accade sovente, corrotti dai malvagi. Essendo inclini a fuorviarci, nulla è più facile che seguire cattivi esempi. Questa necessità della disciplina è stata notata dall'apostolo quando ordinò ai Corinzi di escludere dalla loro comunità colui che aveva commesso un incesto. "Un po' di lievito "dice "agisce su tutta la pasta " (1 Co. 5.6). Anzi il santo Apostolo vedeva in questo un pericolo così grave che proibiva ai buoni ogni contatto e ogni rapporto con i malvagi. "Se uno "dice "che si chiama fratello, fra voi, è fornicatore, avaro, idolatra, oltraggiatore, ubriacone o rapace, non vi permetto di mangiare con lui " (Id 5.2).

Il terzo scopo consiste nel condurre coloro che sono puniti con la scomunica, ad essere confusi di vergogna, a pentirsi e con tale pentimento giungere a ravvedimento. È anzi utile per la loro stessa salvezza che il peccato sia punito, affinché, ammoniti dalla verga della Chiesa facciano ammenda delle loro colpe, di cui invece si compiacciono e che giustificano qualora siano trattati con dolcezza; questo intende dire l'Apostolo nel testo che citiamo appresso: "se qualcuno non obbedisce a quello che diciamo, notatelo e non abbiate relazioni con lui affinché si vergogni " (2 Ts. 3.14). E ancora in un altro testo quando afferma che ha dato l'incestuoso di Corinto in man di Satana, a perdizione della carne onde lo spirito sia salvo nel giorno del Signore (1 Co. 5.5) , cioè lo ha colpito con una condanna temporale affinché lo spirito fosse salvo eternamente. Esprime questo con i termini "dare a Satana "perché il Diavolo ha il suo regno fuori della Chiesa, come Gesù Cristo lo ha nella Chiesa. L'interpretazione data da alcuni secondo cui si tratterebbe qui di punizioni temporali che il Diavolo faceva subire mi pare molto discutibile e credo si debba piuttosto interpretare il testo come ho detto.

6. Avendo enunciato in questi termini i tre scopi della disciplina ecclesiastica, ci rimane da esaminare in che modo debba essere esercitato dalla Chiesa quell'aspetto della disciplina concernente la giurisdizione.

In primo luogo occorre tenere sempre presente la distinzione fatta più sopra tra peccati, che hanno carattere pubblico e altri che sono segreti. Peccati pubblici sono quelli noti non soltanto a uno o due testimoni, ma commessi in modo manifesto e con scandalo della Chiesa tutta. Considero peccati occulti non quelli che risultano ignoti in assoluto agli uomini, come nel caso dell'ipocrita (questi non vengono a conoscenza della Chiesa ) , ma che sono noti ad alcune persone soltanto.

Nel primo caso il procedimento non ha da essere attuato secondo la gradualità di cui parla Gesù nel diciottesimo capitolo di san Matteo, ma quando accade qualche scandalo palese la Chiesa deve esercitare il suo compito in modo immediato, convocando il peccatore e correggendolo secondo l'entità della sua colpa.

Per quanto concerne i peccati segreti, non è il caso che subito vengano deferiti alla Chiesa, a meno che ci sia ribellione e insubordinazione, che l'interessato rifiuti di obbedire alle rimostranze che gli vengono fatte, secondo la regola che dice: "se uno rifiuta di ascoltarti dillo alla Chiesa ".

Ora quando si è giunti a questo punto occorre tenersi all'altra distinzione tra "delitti "e "colpe leggere ". Poiché non è il caso di esercitare la stessa severità nei confronti di un errore di poco conto o di un crimine, è sufficiente una riprensione verbale, anzi dolce e paterna, affinché non abbia come risultato di inasprire il peccatore ma di ricondurlo in se e indurlo a rallegrarsi di essere redarguito più che a rattristarsi.

I delitti vanno puniti più severamente, poiché non è sufficiente correggere verbalmente chi abbia offeso la Chiesa con cattivo esempio, ma merita di essere privato della comunione della Cena sino a che non abbia manifestato segni di ravvedimento. Poiché san Paolo non fa soltanto uso di parole nel caso del peccatore di Corinto, ma lo esclude dalla Chiesa, rimproverando i Corinzi di averlo così a lungo tollerato (1 Co. 5.5).

Ed è questa la prassi seguita nella Chiesa antica, quando esisteva ancora una retta procedura. Se infatti qualcuno commetteva un peccato da cui poteva aver origine uno scandalo, in primo luogo gli veniva ordinato di astenersi dalla Cena, poi di umiliarsi davanti a Dio e attestare il suo pentimento in presenza della Chiesa. Di fatto esistevano riti specifici che si imponevano ai penitenti a testimonianza del loro pentimento. Quando il peccatore avesse dato così soddisfazione alla Chiesa, veniva accolto nella comunità mediante l'imposizione delle mani, accoglimento che san Cipriano chiama spesso "pace ", come nel testo dove dice: "Coloro che hanno commesso qualche scandalo fanno penitenza per il tempo imposto loro, indi fanno confessione delle loro colpe e mediante l'imposizione delle mani del vescovo e del clero ottengono pace e comunione ". Quantunque fossero il vescovo e il clero a riconciliare il peccatore alla Chiesa, veniva richiesto il consenso del popolo come dichiara in un altro testo .

7. Questa disciplina era generale, e senza eccezione di persona, al punto che gli stessi prìncipi vi erano sottomessi, come tutti, e a ragione, essendo consci che essa proveniva da Cristo cui è giusto sia sottomesso ogni scettro e corona di re. Perciò l'imperatore Teodosio, scomunicato da sant'Ambrogio, a causa del sangue sparso per ordine suo, si spogliò degli abiti reali e pianse pubblicamente nella chiesa, quantunque avesse commesso questo peccato dietro suggerimento di altri, e pianse con lacrime e sospiri. Fu questo un atto degno di grande lode, poiché i grandi re non devono considerare disonorevole umiliarsi e piegare le ginocchia davanti a Gesù Cristo, loro principe sovrano, e non deve sembrare loro disonorevole essere giudicati dalla Chiesa. Negli ambienti di corte non odono che adulazioni; tanto più necessario è dunque che siano corretti da Dio, per bocca dei pastori; devono anzi desiderare che i loro pastori non li risparmino affinché li risparmi Iddio.

Tralascio dal menzionare chi siano quelli che devono esercitare quella giurisdizione in quanto ne ho già parlato altrove; aggiungerò tuttavia, a quanto già detto, qualcosa riguardo alla legittima procedura per applicare la scomunica ai peccatori: gli anziani non lo facciano da soli ma il provvedimento sia a conoscenza e abbia il consenso della Chiesa, in modo che il popolo non abbia mano per dominare o prendere iniziative, ma sia d'altra parte testimone per vegliare a che nulla sia compiuto per sregolati desideri. Si richiede in questo, oltre l'invocazione del nome di Dio, l'uso di una serietà che attesti la presenza di Cristo, si percepisca cioè che egli presiede a quell'atto.

8. Non si deve tuttavia dimenticare che la severità della Chiesa deve essere di tale natura da risultare sempre congiunta con umanità e dolcezza. È da evitarsi, sempre, accuratamente, come san Paolo ordina, il pericolo che colui che si punisce sia oppresso da tristezza (2 Co. 2.7) perché, in questo modo, si muterebbe il rimedio in veleno.

La regola di questa moderazione si può ricavare meglio dallo scopo del provvedimento. Infatti la scomunica deve condurre il peccatore a pentirsi, ed eliminare ogni cattivo esempio affinché il nome di Gesù Cristo non sia bestemmiato e altri non siano indotti al male imitandolo; considerando queste cose sarà facile giudicare in quali casi deve procedersi con severità e in quali casi si debba soprassedere. Così quando il peccatore dia garanzie di pentimento alla Chiesa e perciò di togliere, per quanto dipende da lui, lo scandalo e annullarlo non si deve infierire oltre se non ha oltrepassata la misura.

A questo riguardo non è possibile approvare né scusare il rigore eccessivo degli antichi visto che il loro atteggiamento non concordava con le indicazioni della Scrittura ed era assai pericoloso. Nel privare infatti i peccatori della Cena ora per tre, ora per sette anni, e in certi casi sino alla morte, che producevano se non grande ipocrisia o disperazione estrema? Similmente il fatto che non potesse riammettersi alla penitenza chi fosse ricaduto, ma lo si espellesse dalla Chiesa per la vita non risultava né utile né ragionevole. Chiunque valuti con ponderatezza l'insieme del problema ammetterà che sono stati malispirati. Così dicendo deploro la prassi seguita, più che coloro che l'hanno seguita, fra i quali non mancavano certamente coloro ai quali dispiaceva ma la accettavano non potendola modificare.

San Cipriano dichiara di non aver agito in modo intransigente e inesorabile di sua volontà: "La nostra pazienza "dice "dolcezza, umanità è pronta per tutti coloro che si presentano. Desidero che tutti rientrino nella Chiesa. Desidero che tutti i nostri compagni d'armi siano nel campo di Gesù Cristo e tutti i nostri fratelli siano nella casa di Dio nostro Padre. Perdono tutti i peccati, molti ne taccio, e il desiderio di raccogliere tutti i nostri fratelli insieme fa sì che non esamini con rigore neppure le colpe commesse contro Dio. Poco manca a che non pecchi io stesso nel perdonare i peccati con più facilità di quanto sarebbe il caso. Accolgo con affetto spontaneo e pieno tutti coloro che ritornano con spirito di penitenza e confessano i loro peccati con umiltà ". San Crisostomo si dimostra più rigido, tuttavia si esprime in questi termini: "Se Dio è così benigno perché il suo ministro dovrebbe assumere atteggiamenti di severità? ". Ci è altresì nota la pazienza dimostrata da sant'Agostino nei rapporti con i Donatisti al punto da non esitare ad accogliere al vescovato coloro che avessero rinunciato ai loro errori, anche a breve distanza dalla loro conversione. In quanto la prassi risultava però diversa, queste ottime persone si videro costrette a mettere da parte il proprio punto di vista personale per seguire la consuetudine.

9. Ora dovendo, in tutto il corpo della Chiesa, regnare questo spirito di dolcezza e di umanità non si punirà chi ha errato, in modo eccessivo, ma con misura e dolcezza, e si userà piuttosto carità nei suoi riguardi secondo l'ordine di san Paolo (2 Co. 2.8). Ognuno deve, nella sua situazione personale, improntare la sua azione a questa mansuetudine e umanità. Non dobbiamo dunque cancellare dal numero degli eletti gli scomunicati o disperare di loro quasi fossero già perduti. Li bensì lecito considerarli estranei alla Chiesa, secondo la regola suddetta, ma per il solo tempo della loro esclusione. E anche quando si riscontri in essi più orgoglio e ostinazione che umiltà, dobbiamo rimettere queste persone nelle mani di Dio e affidarli alla sua bontà, sperando che l'avvenire rechi più di quanto dà il presente.

In breve non bisogna condannare a morte eterna le persone che sono soltanto nelle mani di Dio ma dobbiamo, in base alla legge di Dio, valutare le opere di ognuno. Seguendo questa regola anziché proporre il nostro giudizio ci atterremo al giudizio espresso da Dio. Non si deve dunque assumere, nel giudicare, eccessiva libertà onde non limitare la potenza di Dio e sottomettere al nostro fantasioso giudizio la sua misericordia che è tale da convertire, quando vuole anche i più cattivi soggetti in gente a modo, e raccogliere nella Chiesa gli estranei affinché l'opinione degli uomini sia frustrata e sia moderata la loro baldanza che sempre presume attribuirsi, qualora non venga repressa, più di quanto le spetti.

10. Riguardo alla parola di Cristo, secondo cui ciò che i ministri della sua Parola hanno legato e sciolto in terra sarà legato e sciolto in cielo (Mt. 18.18) , esse limitano l'autorità di legare al campo della censura ecclesiastica in base alla quale gli scomunicati non sono gettati nella dannazione e nella disperazione eterna ma ne è solo condannata la vita, e viene loro ricordato che la dannazione eterna li aspetta qualora non si pentano.

Poiché in questo sta la differenza tra la scomunica e la sconsacrazione che i dottori ecclesiastici chiamano l'anatema: anatemizzare una persona (ciò che s'ha da fare raramente, anzi non del tutto ) significa togliere ogni speranza di perdono e consegnarla al Diavolo, nella scomunica sono puniti piuttosto i suoi costumi. E quantunque si punisca anche la sua persona, tuttavia questo è attuato in modo tale che con la scomunica l'annuncio della sua dannazione eterna lo si riconduce sulla via della salvezza. La Chiesa è pronta, quando obbedisca, ad accoglierlo in spirito di fratellanza facendolo partecipe della sua comunione.

Quantunque, se intendiamo osservare rettamente la disciplina ecclesiastica, non sia il caso di frequentare e aver eccessiva famigliarità con gli scomunicati, dobbiamo tuttavia, per quanto spetta a noi, nei limiti del possibile, sforzarci sia con esortazioni e insegnamenti, sia con dolcezza e bontà, sia con le nostre preghiere a Dio, di far sì che ritornino sulla retta via; e di conseguenza siano reintegrati nella comunione della Chiesa; come ci insegna l'Apostolo: "Non reputateli nemici ma ammoniteli come fratelli " (2 Ts. 3.15). Egli richiede analogamente un atteggiamento di mansuetudine in tutta la Chiesa, quando si tratti di accogliere coloro che dimostrano qualche segno di pentimento. Non vuole infatti che in essa si attui una severità troppo rigida, e si proceda sino in fondo con spirito rigorista e ci si dimostri inesorabile, ma piuttosto la comunità faccia il primo passo verso lo scomunicato e si dimostri pronta a riceverlo affinché non venga oppresso da eccessiva tristezza. Quando tale moderazione non sia diligentemente osservata, sorge il pericolo che dalla disciplina si scada in una sorta di geenna e che da correttori si diventi boia.

11. C'è ancora un altro elemento atto a moderare la disciplina come si conviene, è l'ammonimento di Agostino nel corso della polemica contro i Donatisti: quando i credenti constatino che gli anziani sono negligenti nel correggere i vizi, non si debbono separare dalla Chiesa con il risultato di provocare una sedizione. Similmente se i pastori non sono in condizione di rimediare e correggere tutti gli errori che sono nel gregge, come lo desidererebbero, non debbono abbandonare il loro stato e turbare la Chiesa con eccessivo rigore Quanto infatti afferma è vero: chiunque corregga con ammonizioni quanto gli è possibile, rifiuti, senza rompere l'unità della Chiesa, quanto non può correggere, e sopporti, pur riprovando, quanto non può rifiutare senza provocare dissensi, costui è libero da maledizione e non è colpevole d'alcun male, Egli motiva questo fatto in un altro testo: il modo e la norma per mantenere un buon governo nella Chiesa deve sempre considerare l'unità dello spirito nel legame della pace. "L'Apostolo "dice "ci ordina di fare questo e quando si agisce altrimenti il rimedio del castigo non solo risulta superfluo ma pernicioso e di conseguenza non è più rimedio ". Ed aggiunge: "Chi mediti attentamente a queste cose non mancherà di ricorrere alla severità anche quando voglia conservare l'unità e non spezzerà il legame di comunione con l'essere intemperante nella correzione ".

Riconosce che non solo i pastori debbono adoperarsi a che la Chiesa sia purgata da ogni vizio ma ognuno deve, per parte sua, adoperarsi a questo. E non passa sotto silenzio il fatto che chi non si cura di ammonire e rimproverare i cattivi, anche se non li giustifica e non pecca come loro, è colpevole nei confronti di Dio; aggiunge, anzi, che chi è investito di una carica pubblica e avendo il dovere di scomunicare i malvagi non lo fa, pecca, a sua condanna; chiede solamente che questo venga fatto con quel tatto che nostro Signore richiede, quando dice che non si deve sradicare il grano con la zizzania (Mt. 13.29). Conclude infine con una citazione di san Cipriano: "Ognuno corregga dunque, con spirito di misericordia, quanto è in suo potere, quanto non può correggere lo sopporti con pazienza e ne soffra con partecipazione ".

12. Questo sant'uomo fa queste affermazioni a motivo dell'eccessivo rigore dei Donatisti, i quali riscontrando nella Chiesa la presenza di vizi, che i vescovi rimproveravano certo a parole ma non colpivano con scomunica (in quanto non speravano ottenere, con questo mezzo, risultati positivi ) protestavano contro di loro accusandoli di tradire la disciplina e, fatto più grave, si separavano dalla comunità dei credenti come gli Anabattisti odierni, che pensano non esservi comunità cristiana se non laddove si manifesti sotto forma di una perfezione angelica, e distruggono così, sotto apparenza di zelo, tutto l'edificio della Chiesa.

"Questa gente "dice sant'Agostino "desidera attrarre il popolo a se o di dividerlo dalla Chiesa seducendolo con le apparenze; e questo non tanto per odio verso il peccato altrui, quanto per bramosia di contese, gonfi di orgoglio trascinati dall'ostinazione, sottili nella calunnia ma passionali nelle sedizioni. Affinché non ci si accorga che sono privi della luce della verità si nascondono sotto un'apparenza di severità e di rigore; abusano di quanto viene ordinato nella Scrittura in vista di correggere i vizi dei fratelli, conservando l'unità e la fratellanza e ricorrendo a mezzi di dolcezza; e provocano così scismi e deplorevoli divisioni nella Chiesa.

Ecco come Satana si trasforma in angelo di luce (2 Co. 11.14) inducendo gli uomini a crudeltà disumana sotto pretesto di severità, poiché egli cerca unicamente di spezzare i vincoli della pace e dell'unione; e di fatto è questo il solo mezzo a sua disposizione per farci del male ".

13. Tutte queste parole sono di sant'Agostino; ma avendo detto questo, raccomanda in modo particolare che qualora tutto un popolo risulti affetto da un vizio, come da una malattia contagiosa, si moderi la severità con spirito di misericordia. Poiché il provocare scismi, dice, è una cattiva soluzione e pericolosa, che conduce sempre a risultati negativi, in quanto finisce Cl. Turbare più i buoni, spesso deboli, che i cattivi fieri nel male. Il suggerimento che egli dava agli altri lo ha attuato per primo, quando risultò necessario. Scrivendo infatti a Aurelio, vescovo di Cartagine, deplora severamente l'ubriachezza che regnava allora in Africa, in quanto la Scrittura condanna severamente questo vizio, e lo esorta a convocare un concilio provinciale per porvi rimedio, ma aggiunge appresso: "Credo che queste cose debbano essere eliminate con bontà e non con aspro rigorismo, con l'insegnare piuttosto che Cl. Condannare, ammonendo più che minacciando. Poiché occorre impegnarsi quando un vizio è comune a tutto un popolo, ma bisogna ricorrere ad una maggior severità quando il numero dei peccatori non è grande".

Non intende tuttavia affermare che un vescovo debba dissimulare o tacere quando non sia in grado di punire i peccati comuni, come dice appresso, ma vuole che la correzione avvenga in forma moderata sì da risultare medicina e non veleno. Perciò nel terzo libro contro Parmenio, dopo aver a lungo dissertato a questo riguardo, conclude in questi termini: "Non deve dunque essere negletto il precetto apostolico di allontanare i malvagi quando, come era nell'intenzione dell'apostolo, questo si possa fare senza pericolo di causar sedizioni e torbidi; e bisogna anche riflettere al fatto che l'impegno nostro è di mantenere l'unità sopportandoci a vicenda " (1 Co. 5.7; Ef. 4.2).

14. L'altro aspetto della disciplina, che non consiste propriamente nel potere delle chiavi è che i pastori, secondo le necessità dei tempi invitino il loro popolo a far digiuni o preghiere solenni o altri esercizi di umiltà e di penitenza; riguardo a queste cose non è stabilita nella parola di Dio alcuna regola, in quanto egli ha voluto lasciarle al giudizio della sua Chiesa. La pratica di questi atti, ritenuti utili, è sempre esistita nella Chiesa antica, sin dal tempo degli apostoli, quantunque essi stessi non ne siano gli autori, avendo tratto esempio dalla Legge e i Profeti. Vediamo, infatti, in quei testi che quando si verifica qualche avvenimento immediatamente si convocava il popolo in assemblea e lo si invitava a pregare Dio con digiuni. Gli apostoli dunque hanno seguito un uso, che sapevano non essere nuovo nel popolo di Dio, e giudicavano utile.

Identiche premesse si riscontrano in tutti gli altri mezzi e provvedimenti che hanno lo scopo di incitare il popolo a compiere il suo dovere e mantenerlo in obbedienza. Ne troviamo esempi qua e là nella storia sacra e non è il caso di farne qui la enumerazione. Questo è però il concetto base che ne dobbiamo ricavare: quando si verifica nella cristianità un qualche diverbio carico di gravi conseguenze, quando è il caso di eleggere i ministri, o quando sorge qualche questione difficile o di grande importanza, o si manifestano i segni dell'ira di Dio, quali pestilenza, guerre, carestie è norma santa e utile in ogni tempo che i pastori invitino i credenti a compiere digiuni e preghiere straordinarie.

Chi ritiene non poter accettare le testimonianze dell'antico Testamento al riguardo, considerandole non normative per la Chiesa cristiana, consideri che gli stessi apostoli hanno agito così. Riguardo alle preghiere non penso vi sia alcuno che sollevi obiezioni; facciamo dunque alcune considerazioni riguardo al digiuno.

Alcuni, non vedendone l'utilità, lo considerano poco importante; altri, e questo è peggio, lo respingono come del tutto superfluo. È facile, d'altra parte, assumere atteggiamenti superstiziosi qualora non se ne intenda rettamente l'uso.

15. Nel digiuno, rettamente e santamente inteso, si possono evidenziare tre scopi: domare la carne affinché non si affermi in modo eccessivo, indurci a preghiere o orazioni e altre sante meditazioni, essere segno della nostra umiltà dinnanzi a Dio quando vogliamo confessargli il nostro peccato.

Il primo scopo non si attua in modo precipuo nel corso di un digiuno pubblico, tutti non hanno infatti la stessa natura, né si trovano nelle stesse condizioni di salute; si verifica invece appieno nel caso di un digiuno privato.

Il secondo scopo è invece raggiunto nell'uno e nell'altro caso. La Chiesa tutta ha infatti bisogno di disporsi con digiuni a pregare Dio, quanto il singolo.

Lo stesso dicasi del terzo scopo. Quando avvenga che Dio colpisca con guerra, pestilenza, altre calamità tutto un popolo, è giusto che di fronte a questo flagello, comune a tutti, tutto il popolo si senta colpevole. Ma se Dio punisce un singolo questi deve riconoscere la sua colpa insieme alla sua famiglia. È ben vero che questa confessione consiste essenzialmente in un sentimento interiore. Ma quando il cuore è toccato come si conviene non può non rivelarlo, mediante segni esteriori, e soprattutto quando questo risulta ad edificazione degli altri, affinché tutti insieme, confessando il proprio peccato, rendano lode a Dio e si rivolgano mutue esortazioni con buoni esempi.

16. Perciò il digiuno, come segno di umiliazione, si addice maggiormente, nella sua forma pubblica ad un popolo che nella sua forma privata ad un singolo, quantunque sia comune all'uno e all'altro, come abbiamo detto. E in quanto concerne il problema della disciplina di cui stiamo parlando, sarebbe opportuno, ogniqualvolta si prega Dio in comune, per qualche problema importante, invitare al digiuno.

In questo modo i credenti di Antiochia, volendo imporre le mani a Paolo e Barnaba, per meglio offrire a Dio il loro ministero, aggiunsero il digiuno alla preghiera (At. 13.3). Analogamente Paolo e Barnaba, volendo istituire ministri nella Chiesa, avevano l'abitudine di digiunare per meglio pregare, come attesta san Luca (At. 14.23). Essi hanno considerato questo digiuno unicamente come strumento per una migliore disposizione alla preghiera. In realtà noi sperimentiamo che quando lo stomaco è pieno lo spirito non è nelle migliori disposizioni per elevarsi a Dio ed essere incitato alla preghiera da ardente desiderio né a perseverare in essa.

In questo senso deve essere inteso quanto san Luca dice riguardo ad Anna la profetessa che serviva Dio "con digiuni e preghiere " (Lu 2.37). Egli non considera certo che il servizio di Dio consista in digiuni, dichiara solamente che questa santa donna si esercitava a pregare del continuo con digiuni. Tale era anche il digiuno di Nehemia quando pregava Dio con zelo intenso per la liberazione del suo popolo (Ne 1.4).

Nello stesso senso san Paolo dice che il marito e la moglie credenti fanno bene ad astenersi per un tempo dalla comunione coniugale per dedicarsi più liberamente al digiuno e alla preghiera (1 Co. 7.5). Facendo del digiuno quasi il sostegno e l'ausilio della preghiera egli dichiara che di per se sarebbe inutile. Così dunque occorre che il digiuno sia orientato a questo scopo. Anzi quando egli ordina ai mariti e alle mogli di compiere il loro dovere reciproco (1 Co. 7.3) è chiaro che non intende separarli in vista di una preghiera normale ma solo in caso di particolare necessità.

17. Analogamente, quando inizi fra noi una pestilenza, una carestia, una guerra o quando vi siano segni che qualche calamità debba piombare su un popolo o su una nazione è compito dei pastori esortare la Chiesa a digiunare per pregare umilmente Dio affinché storni la sua ira. Egli infatti rivela che si prepara a far vendetta quando ci indica ci minaccia con un qualche pericolo. Come anticamente i malfattori erano soliti vestirsi di nero, lasciarsi crescere la barba e ricorrere a segni di lutto per commuovere i loro giudici, così quando Dio ci invoca dinanzi al suo trono per il giudizio è necessario e salutare per noi invocare misericordia con i segni esteriori della nostra tristezza e ciò per servire alla sua gloria e all'edificazione di tutti.

Che tale sia stata la prassi del popolo d'Israele si ricava facilmente dalle parole del profeta Gioele. Quando egli ordina che si suoni la tromba e si convochi il popolo, che si proclami il digiuno e quanto segue (Gl. 2.15) , Si riferisce a realtà usuali al tempo suo. Poco prima egli aveva detto che Dio stava istruendo il processo contro il suo popolo, era vicino il giorno del loro giudizio a cui sarebbero stati citati. Poco dopo egli esorta a ricorrere al sacco e alla cenere al pianto e al digiuno, cioè li esorta ad umiliarsi e abbassarsi dinanzi a Dio anche con manifestazioni esteriori.

È vero che il sacco e la cenere sono più adatti a quei tempi che al nostro, ma per quanto concerne la convocazione del popolo, il piangere, digiunare e simili non c'è dubbio che queste cose convengano altrettanto bene ogni volta che lo richiede la nostra vita. Trattandosi di un santo esercizio per i credenti sia per umiliarli che per manifestare la loro umiltà perché non ne faremmo uso come gli Antichi in analoghe situazioni? La Scrittura ci mostra che non solo la Chiesa di Israele, educata nella parola di Dio ha digiunato in segno di tristezza (1 Re 7.6; 31.13; 2 Re 12) , ma anche il popolo di Ninive che non aveva ricevuto alcun insegnamento all'infuori della predicazione di Giona (Giona 3.5). Perché dunque, in casi analoghi, non faremmo altrettanto?

Qualcuno mi farà notare che si tratta di un uso cerimoniale esteriore che ha, come gli altri, preso fine in Cristo. Penso invece sia oggi ancora eccellente ausilio per i credenti, come è sempre stato, e utile avvertimento per mantenerci vigili affinché non provochiamo più oltre l'ira di Dio con la nostra durezza e pigrizia quando siamo puniti dalle sue verghe. Perciò Gesù Cristo giustificando il fatto che i suoi discepoli non digiunavano, non dice che il digiuno sia abolito, ma afferma che si addice ai tempi di lutto e lo connette con il pianto e la tristezza: "il tempo viene "dice "che lo sposo sarà tolto " (Lu 5.34.35; Mt. 9.15).

18. Ad evitare però che si ingenerino errori riguardo al termine e necessario definire in che consista il digiuno. Con questo termine non intendiamo indicare solo una sorta di temperanza e sobrietà nel bere e nel cibo ma qualcosa di più. Li ben vero che la vita dei credenti deve essere moderata da una perenne sobrietà, in modo che l'uomo cristiano viva, finché vive nel mondo, una sorta di digiuno perenne; esiste però oltre a questo una forma specifica di digiuno, quando limitiamo il nostro cibo oltre il consueto, per un giorno o un certo tempo, e viviamo in una temperanza più rigida del solito.

Questa restrizione si manifesta in tre elementi: nel tempo, nella qualità dei cibi, nella loro quantità.

Riguardo al tempo significa che dobbiamo essere digiuni nelle circostanze per cui abbiamo digiunato. Se qualcuno per esempio, digiuna in vista di una preghiera solenne deve rimanere digiuno finché questa sia stata fatta.

La qualità dei cibi consiste nel non avere cibi delicati e raffinati per solleticare il palato ma nell'accontentarsi di alimenti semplici, comuni, popolari.

L'aver misura consiste nel mangiare meno e più leggermente del solito, per necessità non per piacere.

19. È tuttavia necessario vigilare per non cadere in atteggiamenti superstiziosi come è accaduto nel passato con grave danno della Chiesa. Poiché sarebbe meglio non far uso di digiuni che osservarli diligentemente ma con cattive e perniciose opinioni, che la gente inventa facilmente se i pastori non vi si oppongono con cura e grande prudenza. Ecco dunque gli avvertimenti necessari per un appropriato uso del digiuno.

In primo luogo occorre ricordare quanto dice Gioele affermando che i cuori devono essere stracciati, non le vesti (Gl. 2.13). Poniamo cioè attenzione al fatto che il digiuno non è per Dio valido in se stesso ma unicamente quando è espressione di una situazione interiore e l'uomo prova un vero dispiacere di se e del suo peccato, una umiltà e un dolore autentici provocati dal timor di Dio.

Più importante ancora è l'aver coscienza che il digiuno risulta utile solo in quanto risulta congiunto con queste cose, come ausilio inferiore e di poco conto. Non c'è cosa che Dio odi quanto queste forme di ipocrisia, quando gli uomini, presentandogli delle apparenze e dei segni esteriori, anziché un cuore puro e semplice, presumono ingannarlo con l'apparenza. Perciò Isaia protesta con severità contro la finzione degli Ebrei che pensavano aver soddisfatto Dio perché avevano digiunato, mentre il cuor loro permaneva pieno di empietà e di sentimenti malvagi: "è forse questo il digiuno di cui mi compiaccio? Dice il Signore " (Is. 58.5). Perciò il digiuno degli ipocriti non è solo tempo perso e fatica inutile ma sommo abominio.

Occorre altresì evitare un altro male affine a questo: considerare il digiuno opera meritoria o servizio reso a Dio. Essendo cosa in se indifferente e priva di importanza, se non in quanto volto al fine cui abbiamo accennato, è pericolosa superstizione confonderlo semplicemente, e senza riserve, con le opere ordinate da Dio e in se necessarie. I Manichei, eretici antichi, sono stati esponenti di questa follia; sant'Agostino redarguendoli dimostra chiaramente che i digiuni si devono valutare unicamente in riferimento ai fini che abbiamo detto e Dio non li approva se non in quanto sono ad essi riferiti .

Il terzo errore, pur non essendo così grave, non è privo di pericoli. Consiste nel richiedere e imporre con carattere normativo il digiuno, quasi fosse una delle principali opere del cristiano, oppure valutarlo al punto che alla gente sembri aver compiuto opera meritoria ed eccellente quando abbia digiunato. Riguardo a questa situazione non mi sentirei di scagionare del tutto gli antichi Padri dall'aver gettato qualche seme di superstizione e offerto occasione alla tirannide che di poi è sorta. Li vero che s'incontrano nei loro scritti affermazioni pertinenti concernenti il digiuno, ma vi si leggono anche lodi eccessive intese a magnificarlo come una singolare virtù.

20. C'è di più: già al tempo loro si osservava la quaresima e in questa pratica religiosa erano presenti elementi di superstizione; il popolino infatti riteneva aver reso a Dio un grande servizio osservando la quaresima, e i pastori apprezzavano questa pratica, quasi fosse stata compiuta ad imitazione di Gesù Cristo.

È certo che Gesù Cristo non ha digiunato per fornire agli altri un esempio da seguire, ma, volendo iniziare la predicazione del suo Evangelo, ha voluto, con quest'atto singolare, fornire le prove che la sua era dottrina venuta dal cielo e non dagli uomini. Sorprende il fatto che un così grave fraintendimento abbia potuto venire in mente ai dottori antichi visto che furono uomini di retto intendimento e che vi erano molte ragioni che li dovevano preservare dal commettere un tale abuso. Gesù Cristo infatti non ha digiunato frequentemente, come sarebbe stato il caso qualora avesse voluto dare carattere normativo ad un digiuno annuo, ma una volta sola quando ha iniziato la sua predicazione.

Secondo: non ha digiunato in modo umano come sarebbe stato necessario fare per indurre gli uomini a seguire il suo esempio; ma con quel gesto ha inteso mostrarsi eccezionale dinnanzi a tutti piuttosto che invitare gli altri ad imitarlo.

Infine c'è in quel digiuno la stessa motivazione che in quello di Mosè quando ricevette le leggi dalla mano di Dio (Es. 24.18; 34.28). Come Mosè aveva digiunato in modo miracoloso quaranta giorni e quaranta notti onde l'autorità della Legge fosse, in quel modo, confermata, era opportuno che in Gesù Cristo avvenisse un miracolo simile affinché l'Evangelo non fosse giudicato inferiore alla Legge. Ora nessuno ha mai pensato dover introdurre nel popolo d'Israele una forma di digiuno analogo, Cl. Pretesto di imitare Mosè e nessun profeta né credente lo ha imitato al riguardo, quantunque tutti avessero zelo e coraggio sufficienti da impegnarsi in ogni opera pia. Il fatto che Elia abbia trascorso quaranta giorni senza bere o mangiare (3Re 19.8) , aveva come fine di ottenere il riconoscimento, da parte del popolo, del suo carattere di profeta, inviato da Dio per mantenere la Legge da cui tutto il popolo di Israele si era allontanato.

È stato dunque uno spirito di imitazione falso, vano e pieno di superstizione quello che ha spinto gli antichi a definire il digiuno di quaresima: una ordinanza stabilita in base all'esempio di Cristo. Quantunque le forme di questo digiuno fossero diverse, in quei tempi, come narra Cassiodoro nel libro nono della sua storia. I Romani, dice, non avevano che tre settimane per la quaresima ma digiunavano tutti i giorni eccetto la domenica e il sabato. I Greci e gli Illirici ne avevano sei, gli altri sette, ma digiunavano ad intervalli. Notevoli differenze sussistevano pure riguardo al cibo perché gli uni non si nutrivano che di pane e acqua, gli altri mangiavano erbe, alcuni pesci e volatili, altri non si astenevano da alcun nutrimento come attesta sant'Agostino nella seconda epistola a Ianuario.

21. Da quel tempo però le cose sono andate sempre peggiorando. Alla folle superstizione del popolo si aggiunse un altro male nella persona dei vescovi che risultarono in parte rozzi e ignoranti, in parte bramosi di dominare e tiranneggiare senza ragione. In questa situazione furono emanate le leggi inique e perverse con cui si sono vincolate le coscienze per trascinarle in inferno.

Si è proibito di mangiar carne quasi fosse un alimento contaminato e tale da contaminare gli uomini. Si sono aggiunte in seguito, le une alle altre, opinioni perverse finché si è precipitati n un abisso di errori.

Per non lasciar sussistere nulla di puro si è preso in giro Dio come se fosse un bambino. Poiché quando si è trattato di digiunare si è imbandita la tavola più riccamente del solito, si sono procurate tutte le ghiottonerie e leccornie possibili, si è raddoppiato in quantità e ricercatezza il cibo, poi si è definito tutto questo "digiuno "e ci si è illusi di servire Dio in questo modo. Tralascio dal far notare il fatto che quelli che hanno la pretesa di essere i più santi non riempiono mai tanto il loro ventre come durante il digiuno. In sostanza tutta la santità del digiuno, comunemente inteso, consiste nell'astenersi soltanto dal mangiar carne e abbondare, per il resto, in delizie e soddisfare le ghiottonerie a proprio piacimento purché sia una sola volta al giorno. Quantunque la maggioranza eviti di fare "colazione monacale "per usare la loro espressione. Considerano invece estrema empietà e delitto degno di morte mangiare un pezzo di lardo o una fetta di carne salata con un tozzo di pane nero, anche quando a farlo sia un poveretto che non ha altro cibo.

San Girolamo narra che già ai suoi tempi si incontrava gente che pensava soddisfare Dio con queste cose sciocche e prive di valore; che si procurava cibi squisiti nei paesi lontani, per non mangiar olio; anzi, per far violenza alla natura, non beveva acqua ma non so qual bevanda rara e di sapore ricercato, che per di più non beveva in bicchieri o tazze ma in una conchiglia . Quello che era allora vizio di pochi regna oggi fra i ricchi: il non digiunare se non per mangiar meglio e con maggior incertezza del solito.

Non voglio fare un lungo discorso riguardo ad un fatto così evidente. Affermo solo che non è il caso che i papisti traggano occasione per vantarsi né dai loro digiuni, né dal rimanente della loro disciplina, quasi contenesse elementi degni di lode, visto che tutto ciò che vi si riferisce è corrotto e perverso.

22. Esaminiamo ora il secondo aspetto della disciplina, concerne in modo specifico il clero, e consiste essenzialmente in questo: gli uomini di Chiesa si comportino secondo i canoni, promulgati anticamente in vista di un vivere onesto: quali ad esempio: un ecclesiastico non sia dedito alla caccia, al gioco dei dadi, ai piaceri della tavola o a banchettare, che nessuno si consacri all'usura o al commercio, non presenzi ai balli ed altre dissolutezze.

Gli antichi concili hanno ritenuto necessario punire chi non intendesse sottomettersi a tutte queste norme, concernenti l'onestà del clero. Per questo ogni vescovo ebbe l'incarico e l'autorità di governare il suo clero, per costringere ognuno a compiere il proprio dovere. Per questa stessa ragione furono istituiti le visite e i sinodi, affinché fosse ammonito chi risultava svogliato nella sua Carica e qualora avesse errato fosse punito secondo il suo demerito.

I vescovi si adunarono annualmente in concilio in ogni provincia, in un primo tempo anzi, i concili si tenevano ogni sei mesi, perché fosse giudicato in quella sede chi si era comportato indegnamente. Qualora un vescovo avesse agito con eccessiva durezza nei confronti del suo clero o lo trattasse in modo disumano, chi aveva motivo di lamentarsi di lui si presentava in quella sede e la sua causa veniva presa in esame. E si applicava una estrema severità. Chi infatti avesse abusato della sua autorità o agito male nell'esercizio del suo ufficio, veniva deposto, a volte persino scomunicato per qualche tempo. Inoltre, dato il carattere ordinario di questo governo, non si chiudeva un concilio provinciale senza che venisse fissato il luogo e la data del seguente. La convocazione di un concilio ecumenico era di competenza imperiale; l'Imperatore ne fissava la data, lo convocava ed ordinava a tutti di partecipare, come è illustrato dalla storia antica. Finché è stata usata questa severità, il clero non ha imposto al popolo obblighi se non in quelle cose in cui dava lui stesso l'esempio, poiché risultava molto più severo nei riguardi di se stesso che verso gli altri. In realtà è giusto che il popolo goda di una libertà maggiore e non sia tenuto così rigidamente a freno come il clero.

Non è necessario narrare nei dettagli in che modo questa legislazione fu rovesciata e se ne va ora alla deriva; ognuno è in grado di constatare che non esiste classe sociale più dissoluta e priva di freno degli ecclesiastici, al punto che si grida, da ogni parte, allo scandalo indipendentemente da quello che possiamo dire noi. Affinché non sembri che tutta la tradizione antica è tra loro interamente abolita, gettano è vero polvere negli occhi dei semplici, ingannandoli con delle ombre; tutto questo non assomiglia però a quello che fingono osservare più di quanto le smorfie di una scimmia assomiglino al comportamento razionale di un uomo.

Si legge in Senofonte un testo molto interessante a questo riguardo. Egli narra che i Persiani abbandonate le virtù dei loro antenati, avendone abbandonato il modo di vivere austero per assumere uno stile di vita molle ed effeminato, non mancavano di attenersi formalmente a quelle antiche leggi per mascherare la loro vergogna. Ai tempi di Ciro, per esempio, la temperanza e la sobrietà erano tali che non era lecito soffiarsi il naso e il gesto sarebbe stato considerato volgare e disdicevole; quest'uso si mantenne a lungo, in seguito; soffiarsi il naso continuò a non essere cosa lecita, lo era però inghiottire le immondizie e gli umori corrotti che avevano accumulato con la loro intemperanza sino a puzzare. Similmente da imitatori coscienziosi si sarebbero fatto scrupolo, secondo il precetto antico, di commettere l'atto delittuoso di recare a tavola coppe ma trovavano normale di ingurgitare vino in tale eccesso da dover essere portati via ubriachi. Era stato anticamente stabilito, nella loro nazione, di non mangiare che una volta al giorno; da buoni osservanti non avevano cassato la legge ma era per prolungare i loro banchetti da mezzogiorno alla mezzanotte. Poiché la legge antica prescriveva che in guerra un esercito non viaggiasse se non digiuno, questa abitudine è stata bensì osservata ma quei bravi imitatori avevano ridotto la giornata alla durata di due ore.

Quando i papisti citano le loro belle regolamentazioni, per darci a credere che sono del tutto simili ai santi Padri, questo esempio dei Persiani sarà sufficiente a smascherare il carattere ridicolo e sciocco della loro imitazione.

23. Tanto maggior rigore, anzi intransigenza, dimostrano nel negare il matrimonio ai preti. Quali licenze in materia di morale prendano e concedano sarebbe però superfluo dire. Sotto le parvenze di quella infetta e putrida santità del celibato risultano macchiati di ogni vizio. Questa proibizione dimostra in modo sufficientemente chiaro quanto le tradizioni umane siano nocive, perché non solo ha privato la Chiesa di buoni e capaci pastori, che avrebbero assolto il loro incarico rettamente, ma ha provocato un numero tragicamente alto di mostruosità, un vero mare, e ha precipitato molte anime nella disperazione.

Per quanto concerne la proibizione fatta ai preti di contrarre matrimonio, affermo che in questo vi è stato un deplorevole dispotismo, contrario non solo alla parola di Dio ma ad ogni senso di equità.

Anzitutto non era affatto lecito agli uomini proibire ciò che Dio aveva lasciato alla nostra libertà.

Secondo: è cosa evidente che non necessita di prove, che nostro Signore ha espressamente comandato che tale libertà non venisse violata.

Inoltre san Paolo ordina, sia a Tito che a Timoteo, che il vescovo sia marito di una sola moglie (1 Ti. 3.2; Tt 1.6).

Non avrebbe potuto esprimersi con maggior violenza dichiarando: vi saranno uomini malvagi che proibiranno il matrimonio con il pretesto che questa proibizione è frutto di una rivelazione dello Spirito Santo, ed invitando i credenti ad evitarli, e definendo questa specie di gente non solo seduttori ma diavoli. (1 Ti. 4.1-3). Questa è dunque la profezia e la testimonianza dello Spirito Santo con cui ha voluto, sin dall'inizio, ammonire la Chiesa: la proibizione del matrimonio è dottrina diabolica.

I nostri avversari pensano aver trovato una scappatoia geniale affermando che questa dichiarazione si deve riferire alle antiche sette eretiche, quali Montano, i Tazianei e gli Eucratiti . Sono costoro dicono, che hanno rifiutato il matrimonio, non noi; ci limitiamo a proibirlo al clero come sconveniente. Forse che la suddetta profezia, quand'anche adempiuta nel caso di Taziano e altri simili, non si può riferire egregiamente anche a loro?

Non condanniamo il matrimonio in assoluto, dicono, ma solo in riferimento al clero. Un cavillo tanto puerile non è degno di essere preso in considerazione, affermare che non si proibisce

Il matrimonio in quanto non lo si proibisce a tutti! Come un tiranno che pretenda le leggi da lui emanate non essere inique dato che opprimono solo una parte del popolo.

24. Obiettano che deve esistere un segno che distingua il clero dai laici, quasi Dio non avesse previsto quali debbano essere i veri ornamenti dello stato ecclesiastico. Parlando così, essi biasimano implicitamente l'Apostolo per aver sovvertito l'ordine della Chiesa e messo in crisi la sua integrità, visto che, nel definire il tipo di vero vescovo, include fra le virtù richieste il matrimonio.

Conosco l'esegesi che danno di questo testo: non bisogna eleggere alla carica di vescovo colui che sia stato sposato una seconda volta; e sono pronto ad ammettere che questa esegesi non è nuova tuttavia risulta in modo sufficientemente chiaro dal contesto che è errata; immediatamente dopo, infatti, egli indica quali abbiano da essere le mogli dei preti e dei diaconi. Eccoti dunque san Paolo che include il matrimonio fra le qualità di un buon vescovo e costoro pretendono trattarsi di un vizio, intollerabile per lo stato ecclesiastico. Ciò che è peggio, non contenti di averlo svalutato in forma generale, lo chiamano "sozzura ", "corruzione carnale "; parole di Siricio papa che sono incluse nei loro canoni!

Ognuno rifletta da quali ambienti ciò provenga. Nostro Signore Gesù fa invece al matrimonio l'onore di considerarlo immagine e rappresentazione dell'unità santa che egli stesso ha con la Chiesa. Che potrebbe dirsi di più per esaltare la dignità del matrimonio? Quale impudenza dunque è dirlo immondo e sozzo quando ci è invece dimostrazione della grazia spirituale di Gesù Cristo?

25. Quantunque il loro divieto contrasti in modo così evidente con la parola di Dio hanno ancora una scusa, per dimostrare che i preti non debbono contrarre matrimonio: se fu chiesto ai sacerdoti leviti, quando si avvicinavano all'altare, di non coabitare con le proprie mogli, per offrire il loro sacrificio in stato di maggior purezza, non sarebbe ragionevole che i sacramenti della cristianità, più nobili ed eccellenti, fossero amministrati da persone sposate.

Quasi fossero identici l'ufficio del ministro evangelico e il sacerdozio levitico! I sacerdoti leviti rappresentavano la persona di Gesù Cristo, il quale, essendo mediatore tra Dio e gli uomini, ci doveva riconciliare Cl. Padre mediante la perfetta sua purezza. Poiché costoro non potevano, in quanto peccatori, commisurarsi in alcun modo alla santità di lui, dovendolo in qualche modo rappresentare in forma figurata, erano tenuti a purificarsi oltre l'abitudine umana quando si avvicinavano al santuario, in quanto recavano, in quella circostanza, la figura di Cristo, perché si presentavano davanti a Dio mediatori, nel nome del popolo, nel tabernacolo che rappresentava quasi l'immagine della sede celeste. Non avendo i pastori questo ufficio il paragone non calza.

Perciò l'Apostolo non pone eccezioni, affermando che il matrimonio è lodevole fra tutti ma che Dio punirà i fornicatori e gli adulteri (Eb. 13.4). Di fatto gli apostoli hanno dimostrato, Cl. Loro esempio, che il matrimonio non contrasta con la santità di nessuna condizione umana per quanto eccellente sia. San Paolo attesta non solo che essi hanno conservato le loro mogli ma le hanno portate seco (1 Co. 9.5).

26. Anzi fu grande impudenza il richiedere tale prova di castità come necessaria. Così facendo hanno recato grande ingiuria alla Chiesa antica che pur eccellendo in purezza di dottrina nondimeno ha brillato ancor più per santità. Pur non facendo caso degli apostoli, che diranno, vi chiedo, di tutti gli antichi Padri i quali, a quanto ci risulta, non solo hanno tollerato il matrimonio dei vescovi ma lo hanno anche approvato? Ne conseguirebbe, secondo l'opinione di costoro, che hanno così profanato i misteri di Dio perché non li amministravano con purezza.

È bensì vero che questa materia è stata oggetto di dibattito al concilio di Nicea (trovandosi sempre qualche tipo superstizioso, che sogna fantasticherie nuove per rendersi interessante ). Vi furono persone che avrebbero voluto si proibisse il matrimonio ai preti. Che costa fu però stabilito? Fu accolta la tesi di Pafnuzio che dichiarò la coabitazione dell'uomo e della donna essere cosa casta . Così il santo matrimonio rimase nella sua pienezza, e non fu considerato disonorevole per i vescovi che erano sposati né si pensò che questo recasse in alcun modo offesa al ministero.

27. Da allora sono sopravvenuti altri tempi in cui si è sviluppata questa folle superstizione di tenere in eccessiva stima l'astinenza dal matrimonio. Poiché la verginità è stata assunta in così alta stima, che si considerava difficilmente un'altra virtù esserle paragonata, e quantunque il matrimonio non venisse considerato in modo assoluto come impuro, tuttavia la sua dignità era così offuscata che si pensava un uomo non potesse aspirare alla perfezione senza astenersene.

Da qui hanno avuto origine i canoni con i quali è stato ordinato a coloro che già erano nello stato sacerdotale di non contrarre matrimonio. In seguito altri che proibirono di accogliere al sacerdozio uomini sposati a meno che non si impegnassero, Cl. Consenso della moglie a mantenere una castità perpetua, canoni che sono stati accolti con favore in quanto sembravano utili a rendere il sacerdozio più onorevole.

Tuttavia se i nostri avversari muovono l'obiezione dell'antichità risponderò, in primo luogo, che la libertà di sposarsi esisteva per i sacerdoti al tempo degli apostoli, e ha durato ancora a lungo; anzi gli apostoli e i santi Padri della Chiesa primitiva non hanno avuto scrupoli a valersene.

In secondo luogo affermo che dobbiamo tenere in considerazione il loro esempio e commettiamo un errore ritenendo illecito o disonesto ciò che è stato allora, non solo in uso, ma anche apprezzato.

Dico inoltre che quando il matrimonio non ha più goduto della stima necessaria, a causa della valutazione superstiziosa che si dava della verginità, non per questo si è immediatamente proibito ai sacerdoti di sposarsi, quasi si trattasse di una cosa necessaria; si dava solo preferenza alla continenza.

Infine affermo che questa legge non è stata intesa allora in modo tale da costringere alla continenza coloro che non la potevano mantenere. I canoni antichi infatti, hanno previsto pene severe per i preti che si fossero resi colpevoli di fornicazione mentre hanno solo previsto l'esclusione dall'ufficio per coloro che avessero preso moglie.

28. Ogniqualvolta perciò i nostri avversari, per mantenere questa nuova tirannia di cui fanno uso, citano la Chiesa antica noi risponderemo che diano le prove che nei loro sacerdoti esiste una castità quale si riscontrava nei sacerdoti antichi. Sopprimano gli adulteri e gli scapestrati, non tollerino oggi ogni sorta di grossolanità da parte di coloro a cui non permettono di convivere con una donna, rimettano in vigore l'antica disciplina, che è stata abolita fra loro per reprimere le azioni vergognose commesse fra loro e liberino la Chiesa da quella vergogna e turpitudine che da lungo tempo la sfigurano.

Quando ci avranno concesso tutto questo avremo ancora una replica da fare: non impongano vincoli in una materia che di per se è libera e deve avere per scopo l'utile della Chiesa.

Non intendo dire con questo che si debba, in qualche modo, accogliere i canoni che hanno vincolato i chierici in stato di continenza, ma affinché ogni persona di buon senso si renda conto dell'impudenza con cui i nostri avversari diffamano il santo matrimonio Cl. Pretesto di rifarsi alla Chiesa antica.

I Padri di cui possediamo gli scritti, eccetto Girolamo non hanno combattuto il valore del matrimonio anche quando hanno dichiarato in privato il loro pensiero. Ci accontenteremo di una citazione di san Crisostomo, che non si può sospettare di aver favorito troppo il matrimonio visto che al contrario era fin troppo incline a stimare e magnificare la verginità. Egli si esprime così: "Il primo grado della castità è la verginità immacolata, il secondo è un matrimonio serbato fedelmente. L'amore di un marito e di una moglie quando vivono rettamente lo stato matrimoniale può considerarsi una seconda forma di verginità ".