Storia/Heidelberg

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LA TRADIZIONE RIFORMATA

Il Catechismo di Heidelberg (1563)

Nel 1559 il Palatinato, uno degli stati tedeschi, acquisì un nuovo governatore, il principe elettore Federico in, detto "il Pio", il cui desiderio era che in quella regione si diffondesse la fede riformata. A tale scopo, decretò di formulare un catechismo che potesse essere usato sia nelle chiese sia nelle scuole. La stesura fu curata, nel 1562, da diversi teologi dall'università di Heidelberg, e in particolare da Zacharias Ursino e Kaspar deviano (entrambi meno che trentenni). Dopo essere stato approvato dal sinodo di Heidelberg, il catechismo fu pubblicato l'anno successivo. Quello stesso anno fu tradotto anche in latino e in altre lingue. Si tratta in effetti di uno fra i più noti e diffusi catechismi riformati, a proposito del quale è stato anche detto che combina l'intimità di *Lutero con la carità di Zelantone e il fuoco di *Calvino.

Il testo consiste di 129 domande e relative risposte, suddivise in 52 domeniche, in modo che il catechismo potesse essere inserito in un programma annuale. Globalmente, è ripartito in tre sezioni: la miseria dell'uomo, la redenzione, e la gratitudine dell'uomo.

D. 1: In che cosa consiste la tua unica consolazione in vita e in morte?

R.: Nel fatto che col corpo e con l'anima, in vita e in morte, non son più mio, ma appartengo al mio fedel Salvatore Gesù Cristo, il quale col suo prezioso sangue ha pienamente pagato il prezzo di tutti i miei peccati e mi ha redento da ogni potere del diavolo...

Per mezzo del suo santo Spirito egli mi assicura anche la vita eterna e mi rende di tutto cuore volenteroso e pronto a viver d'ora innanzi per lui.

D. 21: Che cos'è la vera fede?

R.: Non è solo una sicura conoscenza, in virtù della quale tengo per vero tutto ciò che Dio ci ha rivelato nella sua Parola, ma è anche l'intima fiducia, prodotta in me dallo Spirito Santo a mezzo dell'Evangelo, che non solo ad altri, ma a me pure è donato da Dio il perdono dei peccati e un'eterna giustizia e salvezza, per pura grazia e solo per i meriti di Cristo.

D. 56: Che cosa credi della «remissione dei peccati»?

R.: Che Dio, in virtù della soddisfazione resa da Cristo [sulla croce], non terrà mai più conto di tutti i miei peccati ne della natura peccaminosa con cui debbo lottare per tutta la vita; ma che mi elargisce per grazia la giustizia di Cristo, perché non abbia mai più a venire in giudizio.

D. 76: Che cosa significa cibarsi del corpo crocifisso di Cristo e bere del suo sangue versato?

R.: Non significa solo accogliere con animo credente tutta la passione e la morte di Cristo, e ottenere per tal modo perdono dei peccati e vita eterna; ma anche, oltre a ciò, esser sempre più uniti col suo corpo benedetto mediante lo Spirito Santo... così da essere carne della sua carne e ossa delle sue ossa, sebbene egli sia in ciclo e noi sulla terra; e cosi da aver vita ed essere governati eternamente da uno Spirito, come le membra del nostro corpo hanno vita e sono governate da un'anima.

D. 78: II pane e il vino [nella Cena del Signore] diventano dunque il vero corpo e sangue di Cristo?

R.: No; ma, come l'acqua del battesimo non si muta nel sangue di Cristo, ne diviene essa stessa lavacro dei peccati, ma ne è solo un segno e un'assicurazione divina — cosi anche il pane consacrato della Santa Cena non diviene il corpo stesso di Cristo, per quanto, secondo la natura e l'uso del sacramento, lo si chiami «corpo di Cristo».

D. 79: Perché dunque Cristo chiama il pane «mio corpo» e il calice «mio sangue» o «nuovo patto nel mio sangue», e S. Paolo li chiama «comunione col corpo e col sangue di Gesù Cristo»?

R.: Cristo parla così non senza gran ragione: cioè, non solo perché vuoi così insegnarci che, come il pane e il vino sostentano la vita temporale, così il suo corpo crocifisso e il suo sangue versato sono vero cibo e bevanda delle anime nostre, in vita eterna; ma più ancora perché vuole assicurarci mediante questo segno e pegno visibile che, per opera dello Spirito Santo, diveniamo veramente partecipi del suo vero corpo e sangue, con la stessa certezza con cui accogliamo materialmente in bocca questi santi segni, in memoria di lui; e che tutta la sua passione e la sua obbedienza son nostre proprie, come se proprio avessimo sofferto e adempiuto noi stessi ogni cosa nella nostra stessa persona.