L’evangelismo tra crisi della modernità e sfida della postmodernità

di Leonardo De Chirico           (Studi di Teologia, N°17, I° Semestre 1997)

Modernità e postmodernità sono due categorie riassuntive, due concetti epocali, due chiavi interpretative della cultura occidentale che si trovano spesso accoppiate nella riflessione del mondo contemporaneo su se stesso[1]. Negli ultimi decenni, esse compaiono nei più svariati dibattiti disciplinari, dalla critica letteraria all’architettura, dalla sociologia alla teologia, come riferimenti a comprensioni del mondo diverse per non dire opposte, eppure intimamente collegate.

Come un rapporto tra madre e figlia, anche quello tra modernità e postmodernità è estremamente critico; tuttavia nessuno mette in questione che la postmodernità possa definirsi figlia legittima, anche se forse indesiderata o degenerata, della modernità. Il contrasto tra le due non è di poco conto, nè di carattere meramente speculativo; al contrario, la posta in gioco riguarda l’orientamento di fondo della concezione del mondo della cultura occidentale.

Due parole sulla metodologia e sulle finalità di questo studio. Esso parte dalla convinzione che l’odierno panorama culturale sia sempre più dominato dalla postmodernità. Pertanto, se da un lato c’è l’assoluta esigenza di aprirsi al confronto con la postmodernità per poter interagire col presente, dall’altra il passaggio obbligato del confronto passa attraverso la rivisitazione critica della modernità quale retroterra del presente. In altre parole, se la cultura del nostro tempo non si dà a prescindere dalla postmodernità, la postmodernità stessa non si dà a prescindere dalla modernità; la discussione sulla prima comporta una presa di posizione sulla seconda. Di qui la necessità di tratteggiare le caratteristiche distintive dell’una e dell’altra.

Oltre al modesto intento monografico, lo studio vuole essere anche un contributo alla riflessione evangelica intorno alla propria identità, al proprio recente passato e agli scenari che le si presentano alla fine del Secondo Millennio. Anche l’evangelismo è, in un certo senso, figlio del suo tempo e il discorso sulla modernità e la postmodernità lo riguarda a pieno titolo. Brillantemente o meno, la fede evangelica ha fatto i conti con la modernità; per quanto riguarda il nostro secolo, il fondamentalismo e il neo-fondamentalismo sono lì a testimoniare il modo in cui essa abbia reagito all’impatto e, a tutt’oggi, gli evangelici risentono nel bene e nel male degli strascichi di quella reazione. Tuttavia, la situazione odierna è radicalmente cambiata; la modernità, pur non uscita completamente di scena soprattutto per quanto riguarda le sue strutture sociali, ha tuttavia ceduto il passo sul versante ideologico. La fede evangelica è chiamata a fare i conti con la postmodernità. Come lo farà? Ciò che segue nasce dalla consapevolezza che le operazioni preliminari di computo sono già iniziate.

 1. LA MODERNITA’

 Moderno, modernità, modernismo, modernizzazione, ecc. sono termini che possono apparire come variazioni lessicografiche aventi un nocciolo semantico comune e possono essere usati quasi come se fossero sinonimi. In realtà, al di là della stessa derivazione etimologica dall’avverbio latino modo (“in questo momento”, “attualmente”), essi vengono impiegati in ambiti disciplinari svariati e distinti con significati altrettanto svariati e distinti. Comunque, al di là delle singole sfumature di significato di cui bisogna tener conto, ciò che accomuna tutte le espressioni che si rifanno a modo nascono dalla consapevolezza del nuovo rispetto al vecchio e dalla registrazione di una svolta nel rapporto tra passato e presente. Dalla fine del V secolo in poi, l’aggettivo modernus si è progressivamente imposto quale indicatore della coscienza di un’epoca che, pur essendo inserita nel fluire della storia, percepiva sia la novità di cui era portatrice sia lo stacco con l’età precedente[2].

Più in generale, si può affermare che il moderno è segnato dal confronto tra ciò che è in rapporto a ciò che era, tra l’innovazione rispetto alla tradizione, tra la realtà di oggi e quella di ieri; pertanto, il moderno implica un rapporto dialettico, se non proprio conflittuale, tra conservazione e rinnovamento, tra modelli tradizionali e proposte innovative.

Il discorso riguardante la modernità è in parte privilegiato per il fatto di avere un campo semantico piuttosto delimitato e trasversale rispetto alle varie discipline. Per modernità si intende la civiltà occidentale così come si è imposta dal Rinascimento in avanti, culminata poi nell’Illuminismo del XVIII secolo e ancora influente in quelli successivi. Comportando una svolta culturale imponente rispetto all’età antica e al medioevo, i tratti caratteristici della modernità sono stati, tra gli altri, il capitalismo, il razionalismo, l’individualismo, il progresso scientifico e tecnologico, la secolarizzazione.

Diverse sono state le teorie della modernità elaborate nello svolgersi della modernità stessa[3]. Tra le varie proposte avanzate, essa è stata considerata la risultante della transizione dalla società militare a quella industriale (Saint-Simon), dallo stadio religioso dell’evoluzione sociale a quello scientifico positivo (Comte), dalla Gemeinschaft alla Geselleschaft (Tennies), dalla solidarietà meccanica a quella organica (Durkheim), dalla tradizione alla razionalità strumentale (Weber), dalla visione naturalistica e ciclica del corso del mondo all’epoca storica  Löwith).

La modernità è quindi una categoria qualitativa più che cronologica, esprimente una modalità socio-culturale più che una periodizzazione storica[4]. Se l’età moderna è la cornice temporale e cronologica della modernità, quest’ultima è la coscienza storica, l’impianto dei valori, la forma di razionalità, la piattaforma intellettuale di riferimento dell’età moderna. La modernità è la visione del mondo che ha contraddistinto l’occidente moderno nella sua percezione della realtà, nella costruzione dei suoi ideali e nella sua capacità propositiva in ambito teoretico, etico, sociale, politico, ecc. Insomma, la modernità riassume in sè le strutture di plausibilità[5] dell’epoca moderna.

 1.1. Le coordinate storico-sociali della modernità

 Come si è visto, la modernità è strettamente legata all’età moderna. Dal punto di vista metodologico, non è tanto importante la determinazione di una data precisa che sancisca le sue origini o la fissazione di una periodizzazione storica; ciò che più interessa in questa sede è il tentativo di identificare il processo di formazione delle strutture portanti della cultura moderna.

Pertanto, nei parametri storici della modernità possono rientrare quei fenomeni storici, tendenze sociali e movimenti di pensiero che ne hanno contribuito il sorgere e l’imporsi.

In primo luogo, l’Umanesimo del XV secolo promuove la presa di coscienza di una missione tipicamente umana che si esprime attraverso le humanae litterae; il Rinascimento del XVI secolo conosce una renovatio dello spirito dell’uomo. La scoperta delle opere degli uomini antichi conduce alla scoperta dell’uomo stesso.

La Riforma protestante del XVI secolo è un altro movimento di estrema importanza. La crisi religiosa del Cinquecento segna la fine dell’unità del mondo cattolico e la messa in discussione dell’autorità e della gerarchia ecclesiastica; dalla Riforma in poi, la problematizzazione dell’autorità tradizionale e la sua ridefinizione accompagna il definirsi della modernità.

Un apporto decisivo è dato anche dalla rivoluzione scientifica dei secoli XVI e XVII. Dalla pubblicazione del De Revolutionibus di Copernico nel 1543 al Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Newton del 1687 si assiste ad un vero e proprio stravolgimento della scienza astronomica e della visione del mondo in generale.

La scienza diventa l’unico sapere oggettivo e l’avvento della tecnica trasforma il modo di vita consolidatosi nei secoli precedenti.

L’Illuminismo del XVIII secolo può considerarsi la realizzazione intellettuale della modernità, perlomeno sul piano del consolidamento di vari fermenti di pensiero e sul loro mutamento in progetto ideologico. La ragione illuminata assurge a criterio assoluto di verità, bellezza, bontà e ordine.

Sempre nel XVIII secolo, anche l’epoca dell’elaborazione politica repubblicana e delle rivoluzioni negli Stati Uniti e in Francia è un importante tassello nel mosaico della modernità. L’individuo si fa soggetto politico a pieno titolo all’interno di un contesto politico contrassegnato da libertà, fratellanza e uguaglianza.

Oltre alla dimensione intellettuale e politica, la modernità possiede anche una sua connotazione di carattere socio-economico. Lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, la rivoluzione scientifico-tecnologica e l’industrializzazione, la velocizzazione delle comunicazioni, l’urbanizzazione e la globalizzazione sono tutti fenomeni che determinano la modernizzazione delle strutture sociali dell’occidente e, con essa, il delinearsi della modernità.

 1.2. Il progetto della modernità

 La modernità ha conosciuto un periodo di gestazione di cui si è cercato di presentare i processi storici e sociali salienti. Ogni passaggio ha contribuito a precisarne e approfondirne l’impianto concettuale. Oltre a questo sviluppo diacronico, la modernità ha anche avuto un fase storica di maturazione intellettuale in cui le sue categorie teoretiche qualificanti sono state articolate in modo più organico.

Dalla pace di Westfalia del 1648 alla pubblicazione della Critica della ragion pura di Kant nel 1781, l’età dei “lumi” può infatti essere considerata il compimento paradigmatico della modernità e, non a caso, Habermas ha identificato nell’illuminismo l’essenza del “progetto della modernità”[6]. Se altre epoche e altri movimenti del pensiero europeo avevano posto singole o più istanze della modernità con intensità diverse, l’illuminismo si è configurato come un movimento alla cui base è riscontrabile con una certa nettezza la fisionomia ideologica della modernità.

 1.2.1 Il volgersi al soggetto e l’autonomia. Secondo la tesi di Burckhardt, l’umanesimo aveva sancito la nascita dell’individuo, cioè il riconoscimento della centralità della persona umana nell’universo; sulla medesima scia, la modernità, pervasa ancor più di ottimismo nelle capacità e nelle possibilità umane, ha decretato la definizione dell’uomo quale soggetto razionale in un mondo di oggetti da comprendere per mezzo della ragione. Per Descartes e per molti altri dopo di lui, il punto di partenza è la res cogitans, il soggetto pensante; tutto il resto è res extensa, realtà estesa nello spazio, esterna e subordinata rispetto al soggetto. La certezza fondamentale della modernità è l’essere del soggetto così come il fondamento della realtà sta nell’appercezione del soggetto di se stesso[7]; al di fuori di lui esistono oggetti nei confronti dei quali egli può esercitare un dominio totale.

Un risvolto fondamentale di tale postulato è la dichiarata autonomia dell’uomo rispetto a Dio. Tale autonomia si riverbera anche nell’attacco alle visioni del mondo metafisiche o alle istituzioni religiose. Ma è importante sottolineare il fatto che al centro della questione è la ridefinizione del rapporto con Dio, oltre al rigetto dei sistemi totalizzanti e dell’autorità ecclesiastica. In effetti, il progressivo sganciamento del soggetto dal Dio biblico, pur non essendo un fenomeno esclusivo della modernità, è tuttavia un processo che ne segna l’imporsi e il precisarsi del progetto.

L’opera di Descartes è una tappa importante di tale processo. Nel tentativo di introdurre il rigore della dimostrazione matematica in tutti i campi della conoscenza, l’impresa cartesiana inizia dal soggetto razionale. Tutto il resto deve essere affrontato con un atteggiamento di dubbio, ma il postulato da cui Descartes parte senza dubitare è la res cogitans, la sostanza pensante, l’uomo quale soggetto autonomo. Ogni cosa è sottoposta al dubbio tranne le facoltà razionali del soggetto che dubita. Il soggetto è pertanto colui che, mediante l’impiego della ragione, investiga, scopre, definisce, ordina la realtà. Anche l’idea di Dio, pur ritenuta imprescindibile da Descartes, rientra nell’ampissimo ventaglio degli oggetti del pensiero del soggetto e, in fondo, si adegua alla sua autonomia. Inutile sottolineare l’enorme influenza che queste categorie cartesiane hanno avuto sulla matrice del pensiero della modernità. David Tracy rileva come Descartes abbia parlato “per conto della modernità quando difendeva un metodo basato sull’autopresenza del soggetto”[8]. Dopo Descartes, il soggetto occupa prepotentemente lo spazio della rivelazione divina quale criterio normativo di riferimento della conoscenza; il banco di prova del sapere diventa la coscienza razionale. Se per Anselmo il peccato originale fu essenzialmente un peccato di aseità, cioè di pretesa autonomia da Dio, per Newbigin il punto di partenza cartesiano è una ripetizione su scala ridotta di quel peccato[9].

Anche in Kant, l’autonomia del soggetto viene presupposta, anzi essa è l’approdo finalmente raggiunto dall’uomo con l’imporsi dell’illuminismo. Nella sua celebre definizione del 1784, l’illuminismo è “l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità”, dove per minorità si intende “l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”. Citando Orazio, Kant prosegue: “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E’ questo il motto dell’Illuminismo”[10]. Con l’avvento della modernità, si assiste alla proclamazione dell’avvenuta liberazione dell’uomo dalle molteplici forme di asservimento che caratterizzavano le epoche precedenti. L’uomo si emancipa dal potere dei dogmi metafisici, dalle superstizioni religiose, dai pregiudizi morali. Da servo di Dio diventa padrone di sè, dallo stato di dipendenza dal mondo passa a quello di autonomia rispetto al mondo.

Anche in questo caso, la radice dell’autonomia è di natura teologica in quanto al centro del suo programma c’è il presunto ridimensionamento di Dio per far spazio all’affermazione del soggetto. Per la modernità, Dio e l’uomo stanno in rapporto inversamente proporzionale: la crescita di uno implica la diminuzione dell’altro e viceversa. Se nella concezione del mondo medievale e della Riforma, l’uomo trovava la sua identità e il suo ruolo in quanto posto in relazione a Dio, nella visione della modernità avviene il rovesciamento delle parti: è Dio che trova il suo posto, se lo trova e finchè lo trova, in funzione del soggetto. La Riforma aveva posto con forza il problema dell’autorità rigettando da un lato l’usurpazione ecclesiastica ma mantenendo la visione teocentrica del mondo dall’altro. Nella modernità invece l’uomo afferma la propria autonomia da chiunque è altro da sè o a lui ritenuto ontologicamente superiore, sia esso un soggetto istituzionale, religioso, politico o Dio stesso. Con Huber si può dire che “l’epoca moderna inizia con la scoperta della soggettività umana, che riceve la sua forza dal riconoscimento dato da Dio ... La modernità inizia con la scoperta della soggettività umana, risultato dell’indipendenza dell’uomo nei confronti di Dio e del mondo”[11]. E se l’autonomia quale necessità del soggetto razionale o quale uscita da uno stato di minorità diventa un attributo costitutivo dell’uomo della modernità, la dipendenza di Dio dall’uomo ne è la conseguenza inevitabile. Se in una visione teocentrica l’uomo rientra nei piani di Dio, nel progetto della modernità l’uomo fa il suo gioco e Dio sta a quel gioco.

La ricollocazione del rapporto uomo-Dio su basi autonomiste ha degli effetti a cascata in ogni ambito del pensiero e della vita. Se l’uomo è autonomo, non sarà più la rivelazione divina a mediare la conoscenza di Dio ma sarà l’uomo a farsi la propria immagine di Lui. Se l’uomo è autonomo, non potranno più esservi valori di riferimento che non siano quelli autodeterminati dal soggetto. Se l’uomo è autonomo, l’autorità dello stato non sarà ricondotta ad un’investitura divina ma alla libera risoluzione di soggetti che stipulano un contratto sociale. Insomma, la teologia, l’etica, la filosofia, la scienza, la politica saranno autonome, o presunte tali.

1.2.2 Il primato della ragione. La modernità rinvigorisce il principio dell’autonomia umana attribuendole carattere costitutivo dell’identità dell’uomo. Egli è in quanto soggetto e in quanto soggetto autonomo. Comunque, se autonomia significa pretesa indipendenza dall’autorità di Dio, della tradizione e delle istituzioni, essa non implica assenza di leggi o licenza assoluta di azione. Nell’accezione propria della modernità, autonomia non è sinonimo di anarchia o di anomia; al contrario, essa è rifiuto da parte del soggetto di riconoscere altra autorità che non sia quella della ragione. Il rigetto avviene in nome dell’autorità che il soggetto autonomo pone quale criterio unico, ultimo e normativo: la ragione. Alle autorità ricevute dal passato si contrappone quella della ragione che è stabilita autonomamente.

Nel progetto della modernità, la ragione viene considerata la capacità superiore dell’uomo di comprendere e ordinare la realtà. Ad essa vengono attribuiti i caratteri di oggettività, universalità e primato rispetto alle altre funzioni dell’essere umano. La ragione è oggettiva in quanto è sganciata dai miti antichi e dalle credenze magiche ed è fondata su misurazioni quantitative, modelli matematici e metodi empirici; essa acquisisce i fatti mediante l’osservazione, li trasforma in sistema attraverso la sua struttura concettuale e, così facendo, offre una descrizione vera della realtà. La ragione è universale perché è una facoltà innata che contraddistingue ogni essere umano in quanto tale; essa è sempre la stessa per tutti i soggetti pensanti di tutte le epoche, nazioni e civiltà.

La ragione ha quindi il primato in ogni ambito del pensiero e della vita in generale. Ogni espressione della rivelazione, ogni forma della tradizione, ogni enunciato dei sistemi metafisici deve essere messo al vaglio critico di questa facoltà che ne determina la validità; tutto deve essere indagato, compreso, discusso e promosso dalla ragione: i principi della conoscenza, la fede religiosa, i sistemi filosofici, i comportamenti etici, le istituzioni politiche, ecc.. La ragione è lo strumento critico per distruggere tutto ciò che si fonda su altre fonti di autorità e, nello stesso tempo, lo strumento di costruzione della visione moderna del mondo. Per la Riforma, la ragione aveva un ruolo ministeriale, cioè a servizio della rivelazione; per la modernità invece, essa ha un ruolo magisteriale.

Se la ragione è elevata a sistema totalizzante, si ha il razionalismo; essa non viene considerata una modalità della conoscenza tra le altre ma l’unico ed esclusivo criterio valido per la conoscenza, la norma che tutto misura e a cui tutto deve essere sottoposto. Nel razionalismo la verità si dà solo se è razionale, solo se è assoggettata alla ragione. Due assiomi rappresentativi di tale tendenza sono il principio di ragion sufficiente di Leibniz e l’idea kantiana che la ragione sia la struttura razionale che dà senso ai fenomeni.

1.2.3 La cultura tecnico-scientifica. Intrecciato al definirsi razionalistico della ragione è anche il percorso tortuoso che porta alla modifica della concezione della scienza e all’affinamento del metodo scientifico. Nella modernità si assiste ad una trasformazione radicale della concezione della natura e del modo di rapportarsi ad essa. Le metafore di riferimento cambiano; se per Calvino il mondo era “il teatro della gloria di Dio”, per Newton esso è “una grande macchina”. L’universo viene paragonato ad una macchina funzionante le cui leggi sono immanenti e universali, i movimenti regolari, le risorse sfruttabili. Trattandosi di un’unità composta avente una struttura ordinata, essa potrà essere descritta mediante l’impiego di modelli teorici meccanici.

Il fatto che il mondo non venga più rappresentato in modo statico ma dinamico ha delle ripercussioni sulle modalità in cui l’uomo interagisce con la realtà: l’interesse non è più rivolto alla sostanza delle cose ma alla loro funzione, la natura non è intesa in termini di essenza ma di relazioni di causa ed effetto, la ricerca non persegue più la cognizione della realtà in sè e per sè ma la sua trasformazione, la scienza non mira al godimento estetico (scientia contemplativa) ma all’utilità pratica del suo sapere (scientia activa).

Da Bacon a Galilei, da Kepler a Tycho Brahe, da Copernico a Newton, la modernità viene caratterizzandosi nel segno di un nuova fondazione della scienza e dell’impiego di una nuova metodologia d’indagine scientifica. Se la ragione è il criterio fondamentale della modernità, la scienza ne è il sapere per eccellenza; infatti è dalla scienza che pervengono proposizioni vere sul mondo ed è alla scienza che ci si deve rivolgere per ottenere risposte oggettive e universali. La scienza è fattuale ed empirica; il suo statuto è quello della fisica, della matematica, della logica; il suo linguaggio è rigoroso e analitico; la sua verità è assoluta e certa. Su questa concezione della scienza si fa strada lo scientismo che è un’altra risultante ideologica della modernità.

Con la rivoluzione scientifica cambia anche il modo di concepire le procedure della scienza. Secondo l’espressione di Galilei, essa si basa su “sensate esperienze” e su “necessarie dimostrazioni”; un secolo dopo, d’Alambert parlerà dell’età dei lumi come del secolo della “sperimentazione” e dell’”analisi”. Alla certezza della legge divina si sostituisce la certezza dell’osservazione empirica accompagnata dalla sistematizzazione razionale dei dati raccolti. La scienza è empirica nel senso che va alla ricerca di fatti, fenomeni, eventi; essi sono misurabili, quantificabili e spesso possono essere riproducibili mediante esperimenti. A loro volta, i fatti vengono affrontati per come appaiono ai sensi, per come si presentano alle facoltà percettive del soggetto. In più, il metodo scientifico della modernità prevede che gli stessi fatti vengano scomposti nei loro elementi costitutivi, analizzati e ricomposti alla luce di un quadro di riferimento razionalista. In fondo, come sostiene Kant, è la ragione stessa che fornisce le categorie entro cui l’esperienza può essere conosciuta. Risolvendo il conflitto tra il razionalismo di Leibniz e l’empirismo di Hume, Kant afferma che la condizione necessaria di ogni conoscenza, la sua possibilità cognitiva, l’a priori della sua pensabilità è la ragione. L’osservazione empirica deve unirsi alla misurazione esatta ma entrambe sono precedute da una teoria razionale all’interno della quale e l’una e l’altra sono praticabili.

Questo nuovo tipo di sapere promuove anche lo sviluppo tecnico e la modernità si afferma proprio all’insegna dell’esplosione della tecnica. Sollecitata dalle crescenti esigenze del metodo sperimentale, essa ne diventa lo sbocco ingegneristico. L’utilizzabilità tecnica assurge a criterio validante della scienza; secondo Bacon “ciò che nell’applicazione pratica è di massima utilità, è anche massimamente vero nella scienza”. Le invenzioni si moltiplicano e si affinano, le applicazioni della scienza si ampliano e si fanno più sofisticate, la produzione industriale le dissemina nella società. Via via la tecnica invade e trasforma tutte le dimensioni della vita fino a diventarne la cifra qualificante. Anche la tecnica può essere traslata dal piano meramente strumentale a quello ideologico: infatti, per la modernità le macchine danno luogo ad una società e ad un uomo migliori.

 1.2.4 L’idea di progresso. Come si è visto, la modernità è fortemente intrisa di fiducia nella ragione umana e nelle prospettive di felicità che potrebbe presentare un mondo in cui vige il primato della ragione. La modernità è una visione del mondo teleologico-evolutiva impregnata di ottimismo umanista; essa è l’impianto dei valori della borghesia in ascesa che si impegna e lavora per migliorare le proprie condizioni e quelle della società.

Un ottimismo fatalista ne pervade anche la concezione della storia; giudicando i secoli precedenti come dominati da superstizioni, da tirannie e da riflussi involutivi della cultura, il progetto della modernità ritiene di incarnare una fase nuova della storia dell’umanità in cui il progresso della civiltà e l’emancipazione dell’uomo sono gli approdi inevitabili e necessari del cammino segnato dal trionfo della ragione. La storia si svolge all’insegna della legge ineluttabile del progresso, le “magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria. Anche nell’idealismo hegeliano e nel positivismo scientista il divenire del mondo è segnato dal progresso. La fede nella divina provvidenza che caratterizzava il medioevo fino alla Riforma si tramuta in fede nel progresso provvidenziale, sia esso il processo di emancipazione dell’umanità (illuminismo), la realizzazione dello Spirito (Hegel) o il sopravvento dell’età della scienza (positivismo); questa fede secolarizzata caratterizza l’ethos della condotta di vita della modernità.

Esprimendo sia una fiducia incondizionata nel rinnovamento del mondo che un impegno a perseguirlo, Voltaire poteva dire: “Un giorno tutto andrà meglio, ecco la nostra speranza”. Infatti, se la ragione è universale, anche il progresso deve essere seguire la direzione dell’universalità. E dato che l’occidente è l’orizzonte culturale in cui la modernità si è forgiata, il progresso potrà verificarsi laddove la ragione occidentale si impone con la sua pianificazione razionale e la sua espansione finalizzata. La modernità si fa quindi paladina del processo di omologazione del mondo ai paradigmi culturali dell’occidente.

In conclusione, si può dire che l’individualismo, l’autonomia, il razionalismo, lo scientismo e la fiducia nel progresso rientrano tutti legittimamente nel ventaglio di piste aperte dal progetto della modernità; variamente articolati nei diversi momenti della modernità, essi ne costituiscono nondimeno il denominatore comune della visione del mondo.

 1.3. Teologia e modernità

 Come si diceva, la modernità, avendo connotazioni globali e totalizzanti, ha inciso su tutto, anche sulla teologia; essa ha profondamente permeato il ripensamento della teologia su basi immanentistiche, antropocentriche ed eticizzanti. Da Descartes in poi, passando da Kant e arrivando al liberalismo teologico del XIX-XX secolo, gran parte della teologia ha rielaborato la sua cornice di pensiero conformandola, adeguandola, accomodandola a quella della modernità stessa[12].

La ricognizione dell’incidenza della modernità sulla teologia potrebbe essere molto articolata ed includere cenni alle varie forme di razionalismo emergenti in età moderna nell’esegesi biblica e nel discorso teologico, alle tesi del deismo riguardanti la “religione naturale”, all’insorgenza dell’ateismo postulatorio, ecc. Tuttavia, il suo impatto si manifesta in modo più significativo e con effetti più duraturi nel liberalismo teologico del Kulturprotestantismus di Ritschl, Hermann e Harnack tra gli altri[13]. Sebbene influenzato anche dal romanticismo di Schleiermacher e dall’idealismo hegeliano, il liberalismo assimila alcuni presupposti distintivi dell’illuminismo e può essere considerato un progetto teologico profondamente imbevuto di strutture di plausibilità della modernità.

La strategia di fondo perseguita dal liberalismo è quella dell’accomodamento alla sensibilità culturale moderna. Secondo quest’impostazione, il nocciolo etico della fede (che viene ritenuto immutabile) deve essere distinto dall’involucro dogmatico che gli è stato imposto dalla chiesa delle origini. Per Harnack ad esempio, l’essenza del cristianesimo si risolve in un atteggiamento di pietà personale verso Dio che vede in Gesù il modello perfetto da imitare. La dottrina biblica neotestamentaria invece viene ritenuta il prodotto del processo di ellenizzazione del cristianesimo; tale dottrina non regge al vaglio critico della ragione moderna o alle esigenze del sentimento religioso; comunque sia, non è più proponibile all’uomo occidentale dopo l’illuminismo. Dato che Kant aveva trovato lo spazio della religione nella sfera morale, la fede cristiana viene ridotta a sistema etico svincolato dalle proposizioni dogmatiche della Scrittura, dei credi e della chiesa. Per il liberalismo, l’evangelo in quanto forza morale, modo di vivere, insieme di valori è il compimento della religiosità “naturale” dell’uomo e la sua autentica realizzazione.

Il debito del liberalismo nei confronti della modernità è di dimensioni ingenti; basti qui indicarlo per sommi capi. Se la modernità si è caratterizzata per il volgersi al soggetto autonomo, il movimento della teologia che si impone non è più quello della Riforma che va dalla rivelazione all’uomo ma quello che dall’uomo va alla rivelazione, mettendo quest’ultima alla mercè del soggetto. Quest’inversione produce un vero e proprio cataclisma: la ragione autonoma o il sentimento religioso determinano le strutture di plausibilità entro cui il messaggio cristiano deve essere compreso, vissuto e presentato; le categorie di riferimento dell’ermeneutica biblica e dell’elaborazione teologica sono dettate da tendenze antisoprannaturalistiche, storicistiche e immanentistiche; la fiducia nelle possibilità dell’uomo segna la visione ottimista dell’antropologia liberale; l’idea di progresso ne pervade la concezione del regno di Dio. Sulla base di queste osservazioni introduttive, non è azzardato dire che il liberalismo è una legittima versione della modernità in teologia. Gran parte della teologia in epoca moderna non ha fatto altro che subirne l’impatto ed elaborare in modo subordinato tendenze emerse nell’alveo della modernità.

 2. LA POSTMODERNITA’

Postmodernità è un termine impostosi di prepotenza negli ultimi decenni tanto da diventare una parola alla moda ed essere usata con una certa, forse troppa, libertà[14]. Pur essendo stato impiegato per la prima volta nel 1917 dal filosofo tedesco Rudolf Pannwitz in riferimento al tema nietzsceano del nichilismo, è dagli anni Cinquanta-Sessanta che compare praticamente in tutti gli ambiti immaginabili della cultura occidentale. La postmodernità ha oggi tantissimi canali di diffusione per qualsiasi fascia d’età e per tutte le classi di appartenenza; lo share dei suoi spettacoli multimediali segna picchi elevatissimi e la sua infiltrazione nella società ha già raggiunto livelli prossimi alla saturazione. Forse l’uomo della strada non avrà letto Derrida ma si riempie la bocca nel dire che “non c’è la verità, ma molte verità”; forse non avrà mai sentito parlare delle “grandi narrazioni” ma dice convinto che “ognuno ha la sua idea e non deve essere imposta agli altri”; forse l’anarchia epistemologica gli risulterà un’espressione del tutto priva di senso ma difende il principio secondo il quale “ognuno può fare ciò che vuole”; forse non immaginerà cosa sia il metodo genealogico ma sostiene convinto che “è il potere a muovere tutto”.

La sensibilità postmoderna testimonia in primo luogo il profondo disagio che l’uomo contemporaneo avverte di fronte alle conseguenze storiche del progetto della modernità, così come si presentano alla fine del Ventesimo secolo[15]. Esse sono alquanto ambivalenti, a volte contraddittorie, molto spesso deludenti. Nella Dialettica dell’illuminismo (1947), Horkheimer e Adorno hanno offerto un’analisi devastante della società tecnologica alla luce dell’esperienza della Germania di Hitler e della Russia di Stalin. L’illuminismo quale tragitto volto a razionalizzare il mondo va incontro all’”autodistruzione” e all’ulteriore alienazione dell’uomo; il progetto che ricercava l’emancipazione dell’uomo si ritorce contro se stesso e produce un sistema di oppressione universale. Questa celebre tesi della Scuola di Francoforte ha avuto profonde ripercussioni sulla formazione della critica postmoderna. Secondo questa visione, la modernità ha essenzialmente prodotto effetti nefasti: tra gli altri, la violenza contro la natura (es.: il buco di ozono e lo sfruttamento sconsiderato delle risorse) e contro l’umanità (es.: Auschwitz e Hiroshima), le catastrofi della civiltà tecnico-scientifica (es.: Bhopal, Chernobyl), la sete di dominio estesa su scala mondiale (es.: colonialismo, guerre mondiali), non solo la mancata emancipazione dei poveri e dei deboli ma la resa ancor più strutturale delle ingiustizie sociali (es.: allargamento della forbice Nord/Sud). Questa tragica presa d’atto non è fine a se stessa ma ha comportato anche la messa in discussione radicale della base ideologica della modernità che ne ha ispirato l’attuazione del progetto: in questa linea sono da collocare le riflessioni postmoderne sull’indebolimento della categoria del “soggetto”[16], sull’inevitabile assolutismo della ragione razionalista, sull’indebita coercitività di una metodologia della conoscenza universale, sulla necessaria contingenza di ogni sapere e di ogni valore, sulla pericolosa superficialità della fede nel progresso ineluttabile, sull’intrinseca imprevedibilità della tecnoscienza e sui rischi incalcolabili dello sviluppo industriale.

Anche all’interno del sapere della modernità per eccellenza, la scienza, si alzano voci che squalificano le certezze scientiste e ne ridisegnano i presupposti e le modalità operative. Nella teoria della relatività di Einstein, ad esempio, l’universo non può più essere visto come un sistema chiuso controllato da leggi deterministiche; con la Struttura delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn (1962), il lavoro dello scienziato non può più essere compreso come un apparato di procedure razionali e neutre.

 2.1. Il senso del “post”

 La postmodernità si configura quindi come registrazione della crisi teorico-pratica della modernità. Considerata l’evidente sintomatologia del malessere, su questa diagnosi il consenso appare molto ampio, ad eccezione di pochi osservatori ancora inebriati d’ideologia della modernità[17]. Dalla tesi dell’”incompiutezza” di Habermas a quella della vera e propria “fine della modernità” di Vattimo[18], il riconoscimento del suo stato di “crisi” sembra essere avvertito in modo quasi unanime, perlomeno nella classe intellettuale. Tuttavia, al di là di questa convergenza formale, è sulla comprensione del fenomeno della postmodernità che le analisi divergono sostanzialmente.

La domanda che divide è: cosa vuol dire “post”[19]? Il ventaglio di possibili risposte può essere ricondotto a due termini tedeschi, Aufhebung e Verwindung, il primo cardine della dialettica hegeliana, il secondo di estrazione heideggeriana. Essi ben riassumono i poli attorno ai quali si concentra il dibattito sulla consapevolezza che la postmodernità ha di sè nel suo essere “post” rispetto alla modernità.

Aufhebung evidenzia un superamento, un oltrepassamento, una successione, una nuova direzione succedutasi a quella precedente; esso indica che la postmodernità trascende la modernità, se la lascia alle spalle senza per questo eliminarla, rimuoverla, prescinderne ma anzi assumendosi il compito di riformularne criticamente le istanze (il soggetto, la ragione, la scienza, ecc.) dopo averle de-assolutizzate e ricontestualizzate; essa rappresenterebbe perciò un cambiamento profondo, un ripensamento complessivo della modernità ma nel segno della continuità ai suoi tratti caratterizzanti. In questa direzione svolgono le proprie riflessioni autori come Habermas, Maldonado e Ricoeur.

Verwindung invece ha una valenza nichilista e rimanda al concetto di congedo definitivo da ogni metafisica, di negazione di ogni valore assoluto, di dissoluzione del senso, di delegittimazione di ogni visione totalizzante. La modernità è stata un pensiero “forte” ormai demolito che ha lasciato sul terreno solo ceneri inservibili; per Lyotard la postmodernità nasce dal fatto che il progetto della modernità è stato “distrutto”, “liquidato”[20], senza alcuna possibilità di essere ripetuto, rielaborato o riproposto. La discontinuità radicale di Verwindung ispira anche l’opera di Vattimo e dei decostruzionisti.

 2.2. Preludi filosofici alla postmodernità

 La modernità ha sempre avuto al proprio interno delle voci critiche: Fichte, Burke, Malthus, de Sade, Weber hanno ad esempio espresso dubbi su vari aspetti della razionalità illuminista[21]. Pur senza attribuire alla modernità la natura di blocco monolitico, occorre tuttavia riconoscere che tali voci critiche non hanno costituito un’alternativa globale; piuttosto, esse hanno messo accentuazioni diversificate operando però all’interno dello stesso paradigma di riferimento. Non si deve pensare alla modernità come ad un gruppo di concertisti che suonano la stessa parte con lo stesso strumento ma ad un’orchestra in cui musicisti diversi suonano la stessa opera pur con parti diverse.

E’ solo dalla fine del XIX secolo in avanti che sono stati portati attacchi consistenti alla modernità provenienti da più direzioni. Il discorso riguarda certamente la portata critica della psicoanalisi, della fenomenologia di Husserl, dell’esistenzialismo di Kierkegaard e di Jaspers, del marxismo, dello strutturalismo di Levi-Strauss e dell’ermeneutica di Gadamer; insomma, il grosso della cultura contemporanea può essere pensato come un processo, non lineare ma irreversibile, di certificazione del deficit della modernità e di graduale presa di distanza dal progetto. Tuttavia, pur essendo formata da mille rivoli, la storia della postmodernità passa in modo preponderante attraverso l’opera di Nietzsche, Heidegger e Wittgenstein[22]. Con loro, la postmodernità ha conosciuto il suo preludio, da loro ha appreso il “metodo del sospetto”.

2.2.1 Nietzsche e lo “smascheramento” dei valori. Nella sua critica accanita al cristianesimo e alla modernità, Nietzsche è diventato uno dei punti di riferimento più influenti della postmodernità. Nella sua analisi tagliente, i valori propri dell’occidente, lungi dall’appartenere ad un ordine trascendente alle cui leggi si è chiamati a conformarsi, non sono altro che il riflesso della “volontà di potenza” che anima tutte le cose. Essa ha creato l’illusione che le sue manifestazioni siano dotate di uno statuto metafisico, razionale e universale. Per Nietzsche invece, i valori non si scoprono ma si creano, non sono dati ma inventati; non c’è più alcun “mondo vero” ma solo ciò che è posto dall’uomo spinto dalla volontà di potenza. In questa prospettiva, anche la verità non può più essere adaequatio mentis et rei[23] perchè non c’è alcuna res, nulla dietro o al di là della ragnatela delle nostre illusioni; la verità diventa una funzione del linguaggio che esiste solo nei contesti linguistici in cui viene usata. Il “Dio è morto” nietzsceano vuol anche dire la fine di ogni valore, di ogni verità di ogni fondamento in senso “forte”; rimangono solo frammenti, interpretazioni, il nulla. La strada verso esiti nichilisti è ben tracciata e alcune tendenze della postmodernità l’hanno percorsa con convinzione.

2.2.2 Heidegger e il “tramonto” dell’essere. Heidegger riprende sostanzialmente la ricostruzione nietzsceana della storia della cultura occidentale; è venuta meno la metafisica, ossia l’identificazione dell’essere[24] con il dato oggettivo, la cosa che sta davanti, la semplice presenza degli enti. Per Heidegger, il punto di partenza non è il soggetto cartesiano di fronte ad un mondo di oggetti; l’uomo è Esserci (Dasein), essere-nel-mondo (in der-Welt-sein) e essere-con-gli-altri (Mit-sein); egli è sempre in una situazione, gettato in essa e in rapporto con essa. Il dualismo tra soggetto conoscente e cosa conosciuta viene così frantumato. D’altra parte, per Heidegger, l’essere non ha alcun senso, fondamento o fine che sia; dell’essere “non ne è più nulla”. L’esistenza autentica è quindi essere-per-la-morte (Sein zum Tode); essa si identifica nel nulla di ogni progetto e nel nulla dell’esistenza stessa. L’essere si risolve in linguaggio e la verità in esercizio retorico.

Un altro filone del pensiero heideggeriano che trova eco nella postmodernità è la tesi secondo cui l’essenza della tecnoscienza occidentale non sia qualcosa di tecnico o scientifico; essa è invece lo strumento onnivoro e minaccioso di una concezione dell’essere misurabile e manipolabile che disumanizza, aliena e distrugge.

 2.2.3 Wittgenstein e la teoria dei “giochi di lingua”. Un breve cenno deve essere fatto anche alla teoria dei “giochi di lingua” del cosiddetto “secondo” Wittgenstein, quello delle Ricerche filosofiche per intendersi. Per Wittgenstein il linguaggio, qualsiasi tipo di linguaggio, viene impiegato nell’ambito di un sistema di regole interne al linguaggio stesso; in questo senso, usare il linguaggio è come partecipare ad un gioco. Le modalità operative (la grammatica) e il significato dei termini (la semantica) dipendono dall’uso, dal contesto, dallo scopo per i quali si impiega il linguaggio; ciascuno di essi costituisce un “gioco” a parte, indipendente dagli altri. Anche per Wittgenstein, il linguaggio non può più corrispondere alla realtà, non può più rappresentarla com’è; al massimo può produrre asserzioni che sono vere all’interno del contesto dello specifico gioco linguistico. La postmodernità ha fatto sua la visione wittgensteiniana del linguaggio e la presunzione tutta moderna riguardante la capacità della ragione di descrivere il mondo mediante l’oggettività del linguaggio scientifico ha subito un duro colpo; così come tutte le altre discipline, anche la scienza è un “genere narrativo” che produce la sua verità. Essa non può essere assoluta ma relativa al gioco del suo linguaggio.

 2.3. La condizione postmoderna

 Pur attingendo alla critica di inizio Novecento, è a partire dagli anni ‘70 che la riflessione sulla crisi della modernità può definirsi propriamente postmoderna. La decolonizzazione, la rivolta studentesca, i movimenti di liberazione razziale, femminista e omosessuale, l’estendersi della coscienza ecologica, il declino delle ideologie, sono fenomeni che hanno contribuito a dare fisionomia alla condizione postmoderna. Nel 1979, il maitre à penser parigino Jean-François Lyotard pubblica un rapporto sul sapere (La condizione postmoderna, appunto) in cui sostiene che la modernità ha prodotto tre “grandi narrazioni” (metarécits) per orientare in modo unitario il corso della storia del mondo occidentale e per legittimare istituzioni, pratiche sociali e modi di pensare. Esse sono l’emancipazione dell’Umanità (con l’Illuminismo), la teleologia dello Spirito (con l’Idealismo) e l’ermeneutica del Senso (con lo Storicismo). Secondo Lyotard, la postmodernità si caratterizza come incredulità non solo verso queste “grandi narrazioni” ma anche verso tutti i tentativi di collocarsi nella storia mediante l’impiego di un apparato fondativo totalizzante. Per la postmodernità, alla metafisica religiosa del Medioevo, la modernità ha sostituito un’altra metafisica, quella della ragione. Alla luce di questa nuova sensibilità, ogni visione metafisica viene ritenuta obsoleta e sottoposta a critica radicale.

Se la modernità aveva sancito la “svolta antropologica” (il volgersi al soggetto autonomo), la condizione postmoderna si precisa all’insegna della “svolta linguistica”[25]; la realtà è linguaggio, il mondo un’incommensurabile pluralità di segni, la conoscenza un gioco infinito d’interpretazioni. Anche le strutture di plausibilità della postmodernità si conformano al paradigma linguistico; il soggetto viene de-centrato e visto come abitante di “testi” contradditori, della ragione vengono messi in evidenza la dimensione socio-culturale e l’istinto violento, l’epistemologia diventa ermeneutica, la razionalità non si distingue dall’irrazionalità, l’etica si risolve in una serie sempre rivedibile di combinazioni pragmatiche. La postmodernità esalta la differenza, la pluralità, la discontinuità, la frammentazione, la molteplicità, l’eterogeneità, l’indeterminatezza, la relatività

Comunque, al di là di questi tratti generali, le opere di cinque autori contemporanei possono indicare meglio alcuni indirizzi specifici che trovano diritto di cittadinanza all’interno della condizione postmoderna[26].

 2.3.1 Il decostruzionismo di Derrida[27]. Derrida definisce “logocentrica” la tradizione occidentale che si è costruita sul concetto di “presenza” dell’essere e sulla sua conoscibilità mediante il linguaggio; essa ha assunto che il linguaggio potesse essere fondato sull’essere (il “significante trascendentale”) e fosse in grado di veicolare il senso unico e autentico (il “significato trascendentale”). Per Derrida questo impianto concettuale deve essere “decostruito” in quanto si è infranto il patto tra parola e mondo. Ciò significa che in primo luogo si deve riconoscere l’”assenza” dell’essere; nulla è presente immediatamente al di fuori della rappresentazione del linguaggio, “lì non c’è nessun lì”[28] pre-linguistico o extra-linguistico. La realtà è un “testo” privo di significati originali, autentici o legittimi. Ogni lettura è arbitraria, manipolante eppure valida perchè non esiste un criterio assoluto. Per il decostruzionismo, il linguaggio è auto-referenziale, cioè non descrive una realtà esterna ma rimanda da segno a segno secondo una dinamica interna a se stesso. Se il mondo è un testo, la vita è un gioco di interpretazioni libere.

 2.3.2 Il metodo archeologico di Foucault. L’intento smascherante di Nietzsche viene ripreso anche da Foucault e applicato in particolar modo al rapporto tra potere e sapere[29]. Per Foucault, le “pratiche non discorsive” del potere determinano quelle “discorsive” del sapere. In altre parole, non si dà sapere che sia neutro e oggettivo; esso è in funzione del potere che lo legittima e lo strumentalizza. Se per Bacon il sapere doveva permettere all’uomo di dominare la natura, per Foucault esso è lo strumento con cui la volontà di potenza domina l’umanità. Ogni sapere è quindi un “regime di verità”, un’ideologia oppressiva e violenta inserita in una strategia di potere che la garantisce. Dato che il dispositivo del potere può essere ricostruito a posteriori, solo un’”archeologia del sapere” può ritrovare le modalità secondo cui il potere si è organizzato e mostrare che, contrariamente all’illusione della modernità, nella storia non c’è progresso nè continuità alcuna.

 2.3.3 L’anarchia epistemologica di Feyerabend. Muovendosi nell’ambito dell’epistemologia e della filosofia della scienza post-popperiana, Feyerabend critica l’idea che un apparato ordinato di regole, di princìpi fermi e vincolanti debba presiedere al lavoro dello scienziato. Tale visione è ingenua e semplicistica sia sul piano storiografico sia su quello metodologico; nel “labirinto di interazioni” offerto dalla vita, è assolutamente necessario avere libertà d’azione, libertà anche di contravvenire a ciò che viene ritenuto l’unico metodo perseguibile. La proposta di Feyerabend è “contro il metodo” razionalista della modernit… e per una metodologia anarchica ispirata al principio del “qualsiasi cosa può andar bene”[30]. Nella postmodernità, questa forma di anarchismo deborda dalla specificità dell’epistemologia per inondare la visione complessiva del mondo.

2.3.4 Il pragmatismo di Rorty. Pur richiamandosi alla scuola del pragmatismo di Dewey, Rorty apporta al pragmatismo stesso una venatura tipicamente postmoderna[31]. Sul presupposto non-realista dell’essere, Rorty sostiene che il pensiero non può nè deve perseguire proposizioni vere in quanto gli enunciati non sono lo “specchio”[32] del mondo; “là fuori” non c’è alcun fondamento permanente e trascendente ma solo una rete di relazioni contingenti che si rimandano a vicenda. Il pensiero deve invece perseguire ciò che è bene, buono e bello da pensare, insomma ciò che è “utile” alla comunità alla quale si appartiene per far fronte alla vita. Alla ricerca di obiettività della modernità, Rorty contrappone quella di solidarietà in cui i rapporti umani siano contrassegnati da una mistura di accordi non forzati e di disaccordi tolleranti.

 2.3.5 Il pensiero debole di Vattimo. Oltre alla ricezione dei fermenti provenienti dall’estero, in Italia la postmodernità in sede filosofica ha conosciuto anche uno sviluppo originale: il “pensiero debole”, in genere associato all’opera di Gianni Vattimo[33]. Riprendendo ed elaborando soprattutto l’eredità di Nietzsche e di Heidegger, Vattimo persegue un’impronta ermeneutica e nichilista che gli fa prediligere l’opzione per l’ontologia debole e per la natura retorica della verità. Ogni discorso è situato in rapporto con la struttura mobile della cultura, del linguaggio e della storia; nulla può essere descritto “oggettivamente”, tutto deve essere interpretato “rischiosamente”[34]; questo approccio introduce ad “un’esperienza fabulizzata della realtà”[35] in cui il nichilismo è “la nostra unica chance”[36]. L’essere non può che essere “debole” in quanto appare nel frammento, è in perenne mobilità ed esige interpretazione. Collocandosi a pieno titolo nell’ambito della “svolta linguistica” della postmodernità, Vattimo sostiene che il linguaggio anticipa e determina la relazione con la realtà; la verità è pertanto un concetto di carattere estetico e retorico e la carità è l’unico valore che resiste al vaglio del nichilismo[37].

 2.4. Teologia e postmodernità

 La postmodernità ha permeato tutti gli ambiti disciplinari nonché la visione del mondo della società occidentale contemporanea; dato che è almeno da quattro secoli che la teologia si è limitata a fungere da portavoce della cultura del suo tempo, non ci si stupirà allora di sentir parlare anche di teologia postmoderna[38]. L’abbraccio tra teologia e modernità sfociato nel liberalismo appare più distante dei soli cent’anni che ci dividono dal Kulturprotestantismus; sono cambiati i paradigmi, le sensibilità, le strutture di plausibilità e la teologia si è adeguata più o meno prontamente e docilmente. Se la cultura è “post”, anche la teologia è diventata tale.

La “svolta linguistica” è evidente nell’opera di molti teologi contemporanei. Ad esempio, George Lindbeck propone che l’elaborazione teologica nella nostra età “post-liberale” debba abbandonare sia il modello “cognitivo-proposizionale” dell’ortodossia pre-moderna sia quello “esperienziale-espressivista” del liberalismo; per Lindbeck, la teologia di oggi deve lavorare in un orizzonte “cultural-linguistico” e prendere sul serio la “testualità” della fede[39] . Per dirla con McFague, la teologia non può che essere “metaforica”[40] e non può sottrarsi al gioco interpretativo con cui aggrega in modo perennemente provvisorio tracce linguistiche disomogenee; essa infatti legge i testi biblici che a loro volta sono letture della realtà che nel tempo hanno dato luogo a molteplici forme di lettura. La categoria di rivelazione divina viene sostituita da quella di tradizione narrativa; l’obbiettivo della teologia è aggirarsi nell’universo intratestuale della fede e aprirsi al confronto con altre tradizioni ermeneutiche per apprezzare le diverse verità “narrative”. Ogni racconto può trovare posto nell’antologia della teologia postmoderna a patto che non si trasformi in un “grande racconto” con pretese universalizzanti e fondatrici. Insomma, il messaggio cristiano è una storia tra le tante che vengono raccontate nel mondo e la teologia è uno tra i tanti giochi linguistici in cui sono impegnati gli interpreti umani.

Diverse tematiche e tendenze postmoderne risalenti all’esperienza degli anni ‘60 sono inoltre rintracciabili in molti filoni di teologia ecologica (es.: D.G. Hallman e il Moltmann recente), femminista (es.: R. Radford Ruetheford e Mary Daly) e della liberazione (es.: Gustavo Guti’rrez); nel mondo anglosassone, in posizione più radicale possono essere annoverate la spiritualità della creazione di Matthew Fox, l’a-teologia di Mark Taylor, il nietzsceanesimo teologico di Don Cupitt. Parallelamente al compito dell’intellettuale postmoderno, il teologo è chiamato a “smascherare” i sedimenti ideologici, la volontà di potenza e le visioni metafisiche che nel testo biblico e nella tradizione cristiana hanno legittimato il dominio patriarcale, la difesa dello status quo, lo sfruttamento dell’ambiente, dei poveri e dei diversi; in ciò starebbe la sua funzione “profetica”.

Comun denominatore di gran parte della teologia postmoderna è il forte afflato pluralistico, la rivalutazione delle singole tradizioni religiose, la condanna dell’esclusivismo, lo sforzo dialogico, l’intento ecumenico, l’opzione in favore di coloro cui la modernità ha negato identità e dignità, la questione ecologica.

Se quanto detto non è una caricatura fuorviante dello scenario teologico postmoderno, allora una riflessione s’impone; attuando in modo analogo la strategia dell’adeguamento che fu perseguita dal liberalismo nei confronti della modernità, anche gran parte della teologia contemporanea sembra conformarsi (per non dire appiattirsi) alle istanze della postmodernità. Essa partecipa a pieno titolo al coro cacofonico della postmodernità tanto che c’è da chiedersi se la sua voce “profetica” non sia invece il tentativo di ripetere pedissequamente la lezione dei maestri di canto della cultura postmoderna.

 3. EVANGELISMO E MODERNITA’ NEL VENTESIMO SECOLO: TRA FONDAMENTALISMO E NEOFONDAMENTALISMO

 L’evangelismo ha avuto stretti legami con la modernità. In età moderna la storia del movimento evangelico è passata attraverso le tappe della Riforma, dell’ortodossia protestante, del puritanesimo, del pietismo e dei risvegli; si può dire che il definirsi della modernità sia stato parallelo a quello dell’evangelismo. Certamente, parallelo non vuol dire scollegato o indipendente; al contrario, la modernità ha inciso a più livelli, a più riprese e con diverse intensità sul movimento evangelico nello svolgersi della sua storia. Delineare i contorni del rapporto in chiave storica, sociale, teologica e sul piano della mentalità sarebbe un’impresa ambiziosa ma meritevole di essere tentata[41]. Basti qui evocare la fase più recente del rapporto tra evangelismo e modernità, quella che dall’inizio del nostro secolo in poi ha visto il fondamentalismo prima e il neofondamentalismo poi cimentarsi con la versione liberale della modernità.

 3.1. Il fondamentalismo e l’opposizione frontale al liberalismo

 Sia nella classe intellettuale che nell’opinione pubblica più in generale, il termine fondamentalismo ha assunto tali connotazioni negative che il solo nominarlo può suscitare un certo imbarazzo. Ciò che spesso si dimentica è che fondamentalismo può voler dire cose estremamente diverse.

Nell’ambito della storia recente dell’evangelismo, esso possiede una valenza del tutto rispettabile e si riferisce ad un vasto movimento sorto all’interno della tradizione revivalista del protestantesimo americano che si è contrapposto al diffondersi delle tesi del liberalismo e al tentativo di emarginare socialmente gli ambienti conservatori; esso ha preso il nome da una serie di 12 volumi intitolati appunto The Fundamentals pubblicati a Chicago tra il 1910 e il 1915[42]. Il contesto storico in cui il fondamentalismo si è sviluppato assume un’importanza rilevante per la comprensione del fenomeno stesso. Richiamando quanto detto in precedenza, il liberalismo non aveva messo in discussione qualcosa di periferico ma il cuore stesso della fede biblica; il rifiuto dell’autorità della Bibbia, lo scetticismo verso il soprannaturale, l’ottimismo sulle capacità dell’uomo, la fiducia nella “scienza” evoluzionista ne costituivano i capisaldi principali a cui adattare l’evangelo. A detta di un acuto osservatore come Gresham Machen, che ha scritto uno dei libri più importanti dell’evangelismo nella prima metà del ‘900 (Christianity and Liberalism), il liberalismo non solo era “una religione diversa dal Cristianesimo” ma apparteneva “ad una tipologia religiosa totalmente diversa”[43]. Per Machen e per i fondamentalisti d’inizio secolo, la modernità nella sua versione liberale non era da avversare per pudori tradizionalistici o per idiosincrasia verso il cambiamento; in nome dell’integrità della fede biblica, essi hanno compreso che la posta in gioco era uno stravolgimento radicale dell’evangelo determinato dall’assorbimento delle strutture di plausibilità della modernità e dalla conseguente rifondazione del suo messaggio su basi estranee rispetto alla fisionomia biblica e storica della fede.

L’attenzione dei Fundamentals si è concentrata soprattutto su cinque dottrine irrinunciabili per il cristianesimo e la cui comprensione ortodossa era stata pesantemente attaccata; queste verità tanto imprescindibili quanto minacciate erano l’ispirazione e l’inerranza della Bibbia, la divinità e la nascita verginale di Cristo, la sua resurrezione fisica e il suo ritorno personale, il carattere sostitutivo e penale dell’espiazione. In continuità con l’evangelismo di tutti i tempi, queste “fondamenta” sono divenute il simbolo d’identità su cui la gran parte degli evangelici americani a cavallo tra Ottocento e Novecento si riconosceva. Da principio in grado di compattare e di rappresentare le diverse anime denominazionali dell’evangelismo, il fondamentalismo è stato una reazione decisa ed energica contro il liberalismo e una non indifferente azione ecumenica per la fede evangelica. Alla strategia liberale dell’accomodamento, l’evangelismo ha invece optato per la contrapposizione critica a tutto campo. Uno dei presupposti principali del fondamentalismo è stato che alla modernità non doveva venire concessa la facoltà di dettare le condizioni della fede e i criteri del messaggio evangelico; ciò avrebbe costituito la resa alle pretese dell’autonomia dell’uomo moderno dal Dio rivelato e la capitolazione dell’ortodossia alla moda di pensiero del tempo.

Pur non priva di elementi spuri e non esente da limiti strutturali che si sarebbero manifestati nei decenni successivi, appare del tutto motivata l’analisi di chi ha definito il fondamentalismo d’inizio secolo come “l’ortodossia a confronto con la modernità”[44].

 3.2. Il paradosso del neofondamentalismo

 Dalla fine degli anni ‘20 in poi, il fondamentalismo assume connotazioni teologiche e culturali non assimilabili a quelle delle origini; in sede storiografica, per marcare lo stacco avvenuto, si è soliti chiamare neofondamentalismo questa nuova fase del movimento la cui influenza è tutt’oggi ben avvertibile nell’evangelismo. Il prefisso neo sta ad indicare l’emergenza di caratteristiche che, pur presenti in posizione marginale nel fondamentalismo, diventano successivamente preponderanti al punto di determinarne un mutamento sostanziale nell’identità e nella strategia. Se sulla base dell’adesione alle “fondamenta” nel fondamentalismo avevano potuto riconoscersi evangelici riformati e arminiani, battisti e pedobattisti, presbiteriani, episcopaliani e indipendenti, pentecostali e cessazionisti, nel neofondamentalismo si verifica una riduzione della piattaforma teologica ed un restringimento della rappresentatività; emergono e s’impongono infatti le tendenze del movimento di spiritualit… “holiness”, il pentecostalismo seguito al risveglio di Azusa Street (1906) e soprattutto il dispensazionalismo premillenarista[45]. Nel neofondamentalismo, accanto alle “fondamenta”, assume sempre maggior peso la matrice dispensazionalista fino a diventarne la cornice teologica di riferimento. Le conseguenze di questo mutamento non tardano ad affiorare in ambiti diversi: l’approccio irenico alla diversità evangelica del fondamentalismo si trasforma nella pratica separatista nei confronti di chi non adotta un’ottica dispensazionalista; la battaglia contro il liberalismo si cristallizza in pregiudizio anti-intellettuale; la fedeltà all’evangelo viene scambiata con l’assunzione di un atteggiamento isolazionista dalla società e dalla cultura. Nell’area neofondamentalista, la distanza dalla modernità non si esprime più tanto nella critica circostanziata della cultura dominante quanto nella ritirata totale dal mondo.

Eppure, a proposito del rapporto con la modernità, nel neofondamentalismo si verifica un fenomeno alquanto ambiguo, per non dire paradossale. Da un lato, l’opposizione radicale ereditata dal fondamentalismo viene mantenuta e, anzi, i toni si acuiscono ulteriormente; dall’altro, determinate strutture di plausibilità della modernità vengono tacitamente o inconsciamente assimilate. Il discorso potrebbe essere molto ampio ma alcune modalità d’assorbimento possono essere accennate.

 3.2.1 Il letteralismo interpretativo. Il neofondamentalismo si caratterizza per il suo rigido letteralismo nella lettura della Bibbia; l’auto-presentazione della rivelazione biblica, che comprende una ricchezza notevole di generi letterari, viene invece appiattita ad una sola dimensione, quella del testo da comprendere letteralisticamente. Tale riduzione interpretativa è una forma di razionalismo figlio della modernità; esso assume che il discorso senza eccessive mediazioni letterarie sia maggiormente in grado di veicolare senso e, dato che la Scrittura è la “verità” per eccellenza, il suo messaggio deve essere compreso in modo letterale. Ora, se l’intento di salvaguardare la chiarezza della Bibbia è encomiabile, non lo è affatto la mancanza di rispetto verso le molteplici forme, gli stili, i generi che il Signore ha scelto per comunicare la sua parola. L’indebito razionalismo del letteralismo deve essere problematizzato alla luce dell’apprezzamento della ricchezza espressiva della Bibbia.

 3.2.2 L’isolazionismo culturale. Un’altra influenza della modernità riguarda il disinteresse del neofondamentalismo nei confronti del mandato culturale, dei risvolti sociali della fede, delle implicazioni della signoria di Dio in ogni ambito della vita. Si sa che la modernità relega il ruolo della fede all’esistenza privata e alla pietà personale e che non sopporta ingerenze di una visione del mondo cristiana nella sfera pubblica, politica, sociale, economica, dove deve vigere incontrastato il primato della ragione tecnoscientifica. Rifiutando la battaglia sul fronte della cultura e rifugiandosi nel ghetto ecclesiastico, il neofondamentalismo è stato al gioco secolarizzante della modernità; ciò che la seconda si era prefissa, il primo lo ha attuato convincendosi che la soggettivizzazione della fede fosse l’unica via per mantenersi puri dal mondo.

3.2.3 L’evidenzialismo apologetico. Un terzo e ultimo esempio ha a che fare con l’apologetica “evidenzialista” adottata, ma non solo, in molti ambienti neofondamentalisti. In essa, la strategia di difesa della fede mette in risalto le “evidenze”, i “fatti” del cristianesimo che, se analizzati da un punto di vista oggettivo, dimostrerebbero l’attendibilità della Bibbia e la credibilità del messaggio cristiano. Al di là delle buone intenzioni, tale apologetica assume che i “fatti” parlino da soli e che i criteri validanti della conoscenza siano essenzialmente quelli cartesiani; anche la modernità prescrive il ricorso ai “fatti” e stabilisce che la ragione, la logica, la scienza siano il tribunale imparziale e insindacabile a cui sottoporre ogni cosa. Così, i tentativi apologetici del neofondamentalismo, pur diretti contro la modernità, non ne mettono in discussione l’impianto teorico, cioè la concezione positivista del “fatto” autoevidente e il postulato del primato della ragione, la sua universalità e neutralità. Anche in questo caso, il neofondamentalismo ha in sostanza accettato le regole del gioco imposte dalla modernità.

 4. COGLIERE LA SFIDA DI FINE MILLENNIO: PER UN CONFRONTO CON LA POSTMODERNITA’

 Il Secondo Millennio si avvia velocemente alla conclusione e il progetto della modernità, delineatosi nella sua seconda parte e che avrebbe dovuto condurre all’età compiuta della ragione, sta invece per arrestare il corso della sua realizzazione; in compagnia di tante altre visioni ideologiche, anche la sua “spinta propulsiva” si sta esaurendo. Il Terzo Millennio è destinato ad aprirsi all’insegna della postmodernità; quest’ultimo scorcio di secolo attesta che il cambio di consegne è avvenuto. Dal mondo delle università dove già impera quasi incontrastata, la postmodernità sta via via penetrando nella società allargata, nei media, nella vita di tutti i giorni, .... nella chiesa.

Se dalla Riforma in poi l’evangelismo ha dovuto confrontarsi e scontrarsi con la modernità, da ora in poi dovrà farlo con la postmodernità; per la fede evangelica, essa rappresenta una sfida, cioè una preziosa opportunità di ascolto delle istanze del mondo contemporaneo ma anche un’ennesima minaccia per l’integrità della fede cristiana. La postmodernità comporta per l’evangelismo possibilità di convergenze e pericoli di soffocamento, aperture e rischi, occasioni di co-belligeranza e terreni di conflitto.

Nel tracciare il quadro entro cui si è svolto il rapporto tra l’evangelismo e la modernità nel Ventesimo secolo, si è utilizzato un approccio di tipo storiografico; in altre parole, si è guardato al recente passato valutando i comportamenti, le strategie e i risultati ottenuti. La sfida della postmodernità riguarda invece l’oggi e il domani e, nel prenderla in considerazione, la storiografia deve lasciare il posto all’analisi degli scenari che si presentano e alla proposta di comportamenti e di strategie per farvi fronte; tutto ciò nella consapevolezza che saranno altri, tra qualche decennio, ad esaminare i risultati da un punto di vista storiografico.

 4.1. Lasciarsi interrogare dalla postmodernità

 Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, è confortante osservare che in ambito evangelico non sono mancati i primi segnali d’interesse nei confronti della postmodernità[46] . Essi sono da considerare esercizi preliminari di messa a fuoco della portata critica della postmodernità soprattutto in relazione al messaggio cristiano, nonché tentativi introduttivi di presentarne una controcritica alla luce dello stesso messaggio. Un altro elemento che colpisce è la disponibilità di molti autori evangelici a formulare un’autocritica sulla base delle istanze sollevate dalla postmodernità; molti di loro mostrano una certa apertura a recepirne l’apporto critico per quegli aspetti in cui l’evangelismo è stato eccessivamente influenzato dalla modernità e che occorre non considerare come necessari all’identità evangelica.

Nel cogliere la sfida della postmodernità, è opportuno che l’evangelismo metta prima di tutto in discussione quelle strutture di plausibilità che, nel corso del tempo, sono state assorbite dalla modernità e che rappresentano un’intrusione di elementi ad esso estranei. Ciò non significa cedere alla postmodernità come gran parte della religiosità e della teologia contemporanee. L’unico modello a cui conformarsi, l’unica voce critica a cui sottomettersi è e deve rimanere il messaggio biblico; il tentativo di ascoltare qualche voce del coro cacofonico della postmodernità può invece favorire la presa di coscienza delle incrostazioni che la modernità ha prodotto nell’evangelismo. Non tutte le connotazioni dell’evangelismo odierno sono fondamentali per la sua identità; quelle che sono il risultato dell’assimilazione di categorie della modernità devono essere sottoposte a profonda revisione in base all’insegnamento scritturale. Alcuni esempi, tra i tanti che si potrebbero citare, possono chiarire quanto detto.

4.1.1 Dualismi vari. In molti aspetti, la modernità ha consolidato l’abitudine a pensare in modo dualista, cioè ad immaginare la realtà all’interno di una cornice di riferimento caratterizzata dalla presenza di due elementi costitutivamente distinti tra loro. La forma più tipica di tale dualismo è il rapporto tra soggetto e oggetto (es.: il soggetto razionale di Descartes nella macchina del mondo di Newton o il soggetto kantiano nel mondo dei fenomeni) in cui il soggetto è pensato come se fosse di fronte agli altri e al mondo. Nell’antropologia, il dualismo di fondo ha separato la sostanza pensante (l’anima) dalla sostanza fisica dell’uomo (il corpo); nell’epistemologia, una distinzione è stata operata tra fatto oggettivo e interpretazione soggettiva, tra dato indiscutibile e teoria speculativa; nella comprensione del mondo, esso ha scisso la ragione dalla fede, la scienza dalla religione, il regno della “natura” da quello dello “spirito”. Ora, la postmodernità guarda con molto sospetto a quest’impronta di pensiero preferendole una visione olistica in cui ogni elemento compenetra l’altro. Gli elementi non starebbero uno di fronte all’altro ma l’uno nell’altro come se facessero parte di un tutt’uno dinamicamente articolato.

Non è difficile notare come l’approccio dualista abbia finito per echeggiare in molte espressioni dell’evangelismo; ne sono testimonianza le frequenti polarizzazioni, se non vere e proprie contrapposizioni, tra etica e dogmatica, pietà e conoscenza, spiritualità e cultura, anima e corpo, creazione e redenzione, sacro e profano, materiale e spirituale, evidenze e presupposti. Questi accoppiamenti visti in chiave dualista sono escrescenze della modernità che la postmodernità aiuta a diagnosticare e che bisogna sottoporre ad urgente terapia biblica. Non si tratta di scegliere tra il dualismo moderno e l’olismo postmoderno; lasciandosi interrogare dalla postmodernità, si tratta invece di ridimensionare certe indebite propaggini dualiste nell’evangelismo e di riformarle alla luce della rivelazione biblica[47].

 4.1.2 L’enfasi sull’individuo. Un altro bersaglio polemico della postmodernità è l’individualismo di stampo borghese e capitalistico cresciuto all’ombra della modernità in cui tutto ruota intorno al ed è visto in funzione del protagonismo del soggetto individuale.

L’evangelismo vi ha in parte attinto per l’articolazione della propria antropologia (l’individualità definisce l’identità umana), della soteriologia (la redenzione riguarda gli individui presi singolarmente) e dell’ecclesiologia (chiesa come insieme di individui). Però, biblicamente parlando, questi sono appiattimenti riduttivi della ricchezza del messaggio della Scrittura; infatti, l’individualità non esaurisce l’immagine di Dio nell’essere umano, non onora la dimensione cosmica della salvezza e non rispetta la natura comunitaria della chiesa.

Anche l’ethos evangelico è spesso caratterizzato da forti accenti individualistici che spingono al proliferare di iniziative che possono risultare tanto frenetiche quanto poco incisive. Coscienza comunitaria, visione d’insieme e disciplina della collaborazione sono attrezzi arrugginiti nel laboratorio evangelico che andrebbero invece utilizzati più spesso.

 4.1.3 L’etnocentrismo occidentale. La modernità si è configurata come visione del mondo tipicamente euro-americana; essa ha attribuito il carattere di universalità prospettiva occidentale e si è imposta su scala mondiale con la forza del potere economico, scientifico e politico. In epoca moderna, anche l’evangelismo è cresciuto soprattutto in occidente e, inevitabilmente, ne ha acquisito il punto di vista etnocentrico. Nel campo delle missioni evangeliche, ciò ha comportato l’identificazione tra cultura euro-americana e messaggio della grazia tanto che la propagazione dell’evangelo avrebbe dovuto tradursi in un processo di occidentalizzazione dei popoli evangelizzati.

Si sa che la postmodernità ha contribuito a sbaragliare l’equazione tra civiltà e cultura occidentale e a relativizzare ogni visione del mondo. Non è il caso di accondiscendere a queste tendenze relativistiche fino alla loro deriva nichilistica; occorre invece coglierne la provocazione. Per la grazia di Dio, l’evangelismo oggi non è più strettamente imparentato con l’occidente; esso è un fenomeno sempre più mondiale e multiculturale in cui le componenti asiatiche, africane e latinoamericane stanno emergendo considerevolmente sul piano numerico ed anche su quello più strettamente teologico. L’evangelismo occidentale ha all’interno stesso dell’ecumene evangelica la possibilità di rivedere criticamente certi connubi con la cultura occidentale che lo hanno appiattito sulle categorie euro-americane; ciò potrà favorire il riascolto della rivelazione biblica per discernere il “tesoro” dell’evangelo e i propri “vasi di terra”.

 4.2. Resistere alla postmodernità

 In questa fase caratterizzata dalla crisi della modernità, l’evangelismo non deve ergersi a paladino difensore di un progetto ormai in via di liquidazione; d’altro canto, l’ascesa della postmodernità non deve trovare nell’evangelismo un’ulteriore cassa di risonanza per le sue ambizioni demolitrici.

Si è detto che la postmodernità porta con sè possibilità e rischi e ciò non viene sempre tenuto in debita considerazione. Disillusi da esperienze passate negative e folgorati dal nuovo trend di pensiero, alcuni potrebbero abdicare al dio postmoderno; è il caso di Dave Tomlinson che recentemente si è definito un post-evangelico[48]. Al di l… di casi tanto singolari quanto marginali, alcuni segnali preoccupanti mostrano che la condizione postmoderna sta progressivamente e capillarmente intaccando anche quella evangelica[49].

 4.2.1 L’indifferentismo dottrinale. Tra gli effetti più vistosi di questa penetrazione è da registrare un certo indifferentismo dottrinale figlio del sospetto postmoderno verso tutti le “grandi narrazioni”; se nei secoli passati gli evangelici conoscevano la dottrina biblica in modo approfondito, nella situazione odierna pare vigere un pressapochismo teologico in cui la ricchezza del messaggio biblico è ridotta ad una serie di formulette semplicistiche. Il disagio verso ciò che viene considerato un bagaglio di verità astratte, astruse e pedanti è davvero l’anticamera della resa incondizionata. La fede evangelica non può assolutamente permettersi di sminuire l’importanza attribuita alla propria identità dottrinale e di far raffreddare l’amore per la dottrina del “buon deposito”.

 4.2.2 Influenze mistiche. La postmodernità si caratterizza anche per l’attenzione che rivolge alla dimensione mistica delle religioni, soprattutto quelle di derivazione orientale; il coacervo religioso-filosofico della “New Age”[50] è espressione lampante di questo interesse tipicamente postmoderno emergente dalla constatazione del senso di vuoto esistenziale prodotto dal materialismo moderno. Subendo (forse inconsapevolmente) il fascino di tutto ciò, in alcune frange carismatico-pentecostali dell’evangelismo si ricerca un tipo di spiritualità evanescente, che va alla caccia di sensazioni profonde ma che è povera di contenuti autenticamente spirituali. La tendenza irrazionalista riscontrabile nell’ethos postmoderno si può riverberare nel bisogno diffuso di esperienze forti per accedere alle quali è richiesto un atteggiamento di abbandono totale alle sollecitazioni provenienti da dinamiche di gruppo o da personalità carismatiche. La spiritualità evangelica deve però guardarsi dalla tentazione di tingersi di tonalità mistiche postmoderne e riscoprire continuamente la propria radice che è situata nella pratica del timore di Dio.

 4.2.3 Il pragmatismo tatticista. Infine, affette dall’allergia postmoderna verso tutti i princìpi stabili e le visioni d’insieme, molte iniziative evangeliche sono dettate da un pragmatismo di fondo che fa sì che i comportamenti siano modellati dalla mutevolezza delle situazioni, dagli interessi del momento, dalle necessità contingenti più che dall’attinenza ad un progetto organico, ad un punto di riferimento unitario, ad un obbiettivo complessivo. Il tatticismo prevale sulla strategia e l’incidenza dell’evangelismo sulla società è circoscritto ad iniziative di tipo estemporaneo, localistico e frammentario.

Insomma, le spie che indicano la possibilità di cedimento sono numerose. Per l’evangelismo, vegliare criticamente sull’invasione della postmodernità è un compito tanto difficile quanto necessario per non soccombere alle manovre asfissianti che spingono all’adeguamento nei confronti delle strutture di plausibilità del momento.

 4.3. Problematizzare la postmodernità

 Per fare i conti con la postmodernità, è altresì necessario imbastire una metodologia d’indagine e una criteriologia di base che s’ispirino alla visione biblica del mondo. La neutralità della valutazione è un altro mito estinto della modernità che propugnava la possibilità di un giudizio sganciato da valori di riferimento; ogni analisi è invece debitrice di un insieme di presupposti che la informano e la dirigono. Pertanto, nei lineamenti critici evangelici dovrà emergere la configurazione biblica della propria cornice di pensiero[51]. E’ vero che alcuni rilievi potranno essere condivisi con le voci che da più parti si elevano contro questo o quell’aspetto della postmodernità; tuttavia, l’evangelismo non dovrà rinunciare alla propria specificità critica la cui connotazione di fondo non potrà trovare nè prendere a prestito altrove. La problematizzazione perseguita da un punto di vista evangelico deve saper discernere innanzitutto la piattaforma di presupposti che definiscono una visione del mondo e la dinamica del loro articolarsi.

 4.3.1 L’autonomia e la dialettica razionalismo/irrazionalismo. L’originalità di quest’analisi applicata alla cultura contemporanea sta nel fatto che essa fa emergere un dato sorprendente: in fondo, la modernità e la postmodernità sono due variazioni sullo stesso collaudatissimo tema, due interpretazioni contrastanti dello stesso copione, due germogli sbocciati dallo stesso tronco.

Tra la “svolta antropologica” della prima e quella “linguistica” della seconda ci sono differenze profonde e la prima parte dell’articolo ha cercato di presentarne le caratteristiche salienti. Tuttavia, tali svolte derivano entrambe da una radice comune, quella dell’autonomia dell’uomo dal Dio rivelato. La postmodernità si è scagliata contro l’indirizzo antropologico della modernità (il volgersi al soggetto), quello epistemologico (il primato della ragione), quello tecnico-scientista e quello idealista (il progresso); a questi ha contrapposto un’impronta nichilista e un indirizzo linguistico-ermeneutico esteso a tutti gli ambiti del sapere e della vita. Tuttavia si deve rilevare che non si è discostata di un millimetro dal presupposto della pretesa autonomia delineatosi con la modernità, anzi su quello ha costruito anch’essa. In questo senso, sia che si tratti di Aufhebung o di Verwindung, la postmodernità si pone comunque in lineare continuitè con la modernità nella piena accettazione dell’autonomia dal Dio rivelato; in una metafora topografica, le direzioni sono state diverse eppure rintracciabili sulla stessa mappa. Se nella modernità, l’autonomia si era espressa nello spodestamento di Dio da parte del soggetto razionale, nella postmodernità essa si manifesta nel tentativo di irretirlo nei meandri del linguaggio. Cambiano alcune strutture di plausibilità ma la matrice presupposizionale rimane inalterata; alla base di entrambe c’è la mancata sottomissione e la conseguente ribellione dell’uomo nei confronti di Colui che era e rimane il Signore dell’uomo.

In questa prospettiva, c’è da chiedersi se in fondo modernità e postmodernità non siano altro che due risultanti estreme scaturite però dai “sobbalzi”[52] della stessa struttura di pensiero fondata sull’autonomia. Per Dooyeweerd, tale struttura è intrinsecamente innervata da una dialettica in cui ora il razionalismo, ora l’irrazionalismo prevalgono l’uno sull’altro in molteplici combinazioni storiche; anche per Van Til, questa tensione è endemica al pensiero che si riconosce nel postulato dell’autonomia[53] . Pertanto, modernità e postmodernità possono essere considerate due visioni del mondo con accentuazioni opposte ma all’interno di una medesima dialettica, quella tra razionalismo e irrazionalismo. Nella prima, l’enfasi cade sul polo razionalista in cui tutto deve essere ricondotto e piegato alle istanze della ragione che si autodetermina; nella seconda invece, la priorità spetta al polo irrazionalista con i suoi accenti nichilistici e soggettivistici nel quadro della natura linguistica della realtà. La loro contrapposizione è indiscutibile ma di fatto è assimilabile ad una diversa polarizzazione dialettica più che ad una radicale eterogeneità strutturale.

 4.3.2 La “grande narrazione” della postmodernità. Il sospetto, l’incredulità e l’intento demolitivo nei confronti di tutte le “grandi narrazioni” sono elementi qualificanti della condizione postmoderna. Le metafisiche, siano esse religiose o laiche, teologiche o filosofiche, sono ritenute oppressive, violente e aventi una funzione legittimante del potere; gli assoluti vengono attaccati in nome dell’intrinseca relatività di ogni interpretazione; la verità viene svuotata di qualsiasi contenuto unitario e fatta rientrare nel variegato pluralismo dei giochi retorici. La postmodernità scredita tutto ciò che si erge a discorso totalizzante. Eppure, questa valanga critica che tutto distrugge lascia perplessi soprattutto nel rifiuto a riconoscersi per quello che è: una “grande narrazione” anch’essa[54]!

In effetti, l’anti-metafisica postmoderna ha a sua volta bisogno di una metafisica con la quale scalzare le altre, il suo anti-realismo propugna un’altra visione della realtà, il suo anti-fondazionismo poggia su altri princìpi di fondo, il suo relativismo è una nuova forma di assolutismo, il suo scetticismo diventa un’altra certezza, il suo particolarismo sfocia nell’universalismo, l’enfasi sulla soggettività si eleva a nuova oggettività, il pensiero “debole” richiama altri assunti “forti”, la sua decostruzione implica un altro progetto costruttivo, ecc. Insomma, pur nella sua repulsione verso le metafisiche, anche la postmodernità si configura come una metafisica, quella della testualità da cui e con cui ogni cosa viene affrontata: questa è la prospettiva direttrice, il grande racconto, la cornice interpretativa della postmodernità che relativizza tutte le altre avocando a sè una funzione totalizzante. In quest’ottica, si assiste ad una sorta di “corto circuito” della postmodernità in quanto la contestazione di ogni grande narrazione viene perseguita surrettiziamente mediante l’appello ad un’altra grande narrazione. Dalla demolizione postmoderna non affiorano soltanto le macerie fumanti della modernità ma s’intravede anche la fisionomia di un altro edificio che ne ha preso il posto.

Non occorre biasimare eccessivamente quest’approccio; in fondo, non ci sono possibilità di vivere senza una visione del mondo, più o meno coerente ed esplicita, che dia significato, più o meno frammentato e minimale, alla vita stessa. Anche nella condizione postmoderna, l’inevitabilità dei presupposti non viene meno perché nella condizione umana essa non può venir meno.

Da un punto di vista evangelico, questa constatazione non è fine a se stessa né esaurisce il discorso critico; non ci si deve infatti limitare alla problematizzazione della postmodernità senza contemporaneamente impegnarsi nel compito di riaffermare la prospettiva sul mondo che la Scrittura presenta e che il movimento evangelico deve testimoniare.

L’evangelismo deve continuamente nutrirsi della visione biblica, attingere ad essa per affrontare la sfida della cultura del nostro tempo, promuoverla nel villaggio globale, incarnarla nella società mettersi in discussione in vista di una sempre maggiore fedeltà ai suoi valori; solo così potrà apprezzare la sua “coerenza intellettuale”[55] e rivendicare la sua “credibilità”[56]. Nelle parole di Carson, “Scilla della modernità e Cariddi della postmodernità risultano ugualmente poco attraenti per coloro che vogliono seguire un’altra Via e sono convinti che ... l’unica posizione ragionevole sia quella dell’apostolo Paolo: “sia Dio riconosciuto verace ma ogni uomo bugiardo” (Rom 3,4)”[57].

La sfida passeggera della postmodernità potrà essere colta solo se sarà a sua volta sfidata a confrontarsi con la Parola che non passerà.

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[1] Letture introduttive su modernità e postmodernità sono Rossi (1989) pp. 39-63, Van Gelder (1991), Finger (1993), Baude (1993) e Lyon (1995); un’utilissima opera di consultazione è l’antologia curata da Cahoone (1996).

[2] Cf. il saggio “Da modernus a moderno” di Maldonado (1987) pp. 173-185.

[3] Cf. Frisby (1996).

[4] Cf. Koselleck (1986) e Osborne (1992).

[5] “Strutture di plausibilità” è un’espressione impiegata soprattutto dal sociologo americano Peter Berger; essa fa riferimento ai presupposti e alle pratiche che una data società accetta e che definiscono cosa sia ragionevole o meno.

[6] Habermas (1987). Più in generale sull’illuminismo, cf. Casini (1994) mentre sulla filosofia dell’illuminismo, cf. Cassirer (19522).

[7] Cf. Taylor (1993).

[8] Tracy (1995) p. 225.

[9] Newbigin (1991) p. 27.

[10] Kant (1987) p. 48.

[11] Huber (1992) p. 47.

[12] Per una lettura orientativa sugli sviluppi della teologia nel Sette-Ottocento, cf. Grenz-Olson (1992) pp. 15-62, Berkhof (1992) pp. 19-99, 153-170, 185-207, Lane (1994) pp. 261-268 e Brown (1996) pp. 50-185.

[13] Cf. Sorrentino (1977); per quanto riguarda il cattolicesimo, i fermenti del liberalismo teologico si sono manifestati nel “modernismo” di fine Ottocento, cf. Guasco (1995)

[14] Utili letture introduttive sono Connor (1989), Harvey (1993) e Veith (1994); per un taglio più filosofico, cf. Verhaar (1995), Coccolini (1995) e Llano (1996).

[15] Cf. Giddens (1994).

[16] Cf. Bein Ricco (1990).

[17] Come ad esempio Melograni (1996).

[18] Vattimo (1985).

[19] Sul senso da attribuire a “post”, cf. Maldonado (1987) pp. 15-20, Lyotard (1987) pp. 85-91 e Vattimo (1985) pp. 9-23.

[20] Lyotard (1987) p. 28.

[21] Cf. Harvey (1993) pp. 23-33.

[22] Per riferimenti bibliografici su questi autori, cf. Grenz (1996) pp. 83-121 o l’antologia di Cahoone (1996).

[23] Corrispondenza tra pensiero e realtà

[24] ”Essere” si riferisce alla realtà, verità ed essenza delle cose.

[25] Cf. Rorty (1994).

[26] La scelta è ovviamente parziale; il discorso avrebbe potuto allargarsi a Gilles Deleuze, Jean Baudrillard, Luce Irigaray, Gregory Bateson ...

[27] La lettura dei testi di Derrida è un’impresa estremamente ardua; cf. Derrida (1971).

[28] “There is no there there”: l’espressione è di Gertrude Stein ed è riportata da Steiner (1992) p. 120.

[29] Cf. l’antologia di scritti foucaultiani curata da Veronesi (1978)

[30] “Anything goes”; cf. Feyerabend (1979) p. 25.

[31] Cf. Conseguenze del pragmatismo (1986).

[32] Cf. La filosofia e lo specchio della natura (1986).

[33] Cf. in particolare Vattimo (1983) e (1994).

[34]In quest’ottica, il ruolo dell’intellettuale postmoderno non è più legiferare ma interpretare; cf. Bauman (1992).

[35] Vattimo (1985) p. 38.

[36] Ibidem, p. 28 (corsivo nel testo).

[37] Cf. Vattimo (1996).

[38] Cf. Griffin (1989), Rizzi (1991) pp. 13-55, Watson (1994) pp. 124-153, AaVv (1994), Tracy (1995), Ingraffia (1995), Thiselton (1995), Blaser (1996); un’ottima presentazione da un punto di vista evangelico è offerta da Lints (1993) pp. 191-233.

[39] Lindbeck (1984); le tesi del libro sono sintetizzate da Van den Toren (1993).

[40] Cf. McFague (1983).

[41] Tentativi preliminari in questa direzione sono Marsden (1984), Bebbington (1991), Volf (1994) e Sampson-Samuel-Sudgen (1994).

[42] Cf. Marsden (1980); per un’analisi storica e teologica del fondamentalismo, cf. Packer (19832), AaVv (1990) e Lints (1993) pp. 29-56.

[43] Machen (1923) p. 7

[44] Hunter (1990) p. 57.

[45] Questo sviluppo è ottimamente documentato e commentato da Noll (1994) pp. 109-145.

[46] Cf. ad esempio Oden (1990), Topping (1991), Cooper (1993), Lints (1993), Runia (1993), Wells (1993) e (1994), Shin (1994), Blocher (1995), Edgar (1995), Jones (1995), Middleton-Walsh (1995), Vanhoozer (1995), Phillips-Okholm (1995), McGrath (1996), Grenz (1996) e Carson (1996).

[47] Cf. Wolters (1986).

[48] Tomlinson (1995). Va detto che la sua proposta è alquanto singolare; il post-evangelismo di Tomlinson, ex-appartenente alle chiese dei fratelli e ora carismatico indipendente, è una commistione di radicalismo libertario, comunitarismo sociale e barthismo dottrinale!

[49] Da segnalare soprattutto le analisi allarmanti di Wells (1993) e (1994); esse riguardano soprattutto la situazione americana ma contengono elementi utili per una ricognizione più generale. Inoltre, cf. Carson (1996) pp. 443-489.

[50] Per uno studio evangelico sul fenomeno della “New Age”, cf. Oxenham (1996).

[51] Cf. Middleton-Walsh (1984).

[52] L’espressione è di Blocher (1995).

[53] Cf. Edgar (1995) pp. 360-363

[54] Questa linea critica viene sostenuta, ad esempio, da Penati (1987), Watson (1994) pp. 84-85 e Middleton-Walsh (1995) pp. 69-79.

[55] Cf. il sottotitolo del libro di McGrath (1996).

[56] Vanhoozer (1995).

[57] Carson (136-137).