Autorità della Bibbia o della
chiesa?
La Riforma protestante è
convinta che la norma per conoscere Dio, per giudicare la storia, per
disciplinare l'etica, per orientare gli indirizzi professionali,
politici e sociali dell' esistenza, non possa essere cercata in nessun
luogo se non nella Bibbia, e ribadisce perciò il principio del “sola
scriptura”.
di André Gounelle*
La Riforma pone coscientemente - in aperta rottura con Roma -
l'autorità della Scrittura al di sopra e contro l'autorità della
chiesa, della gerarchia ecclesiastica e della tradizione. Roma rifiuta
questa posizione e la sottopone a critica serrata sostenendo che,
accanto alla Bibbia, c'è anche l'autorità della chiesa e della
tradizione. E ricordando che è stata la chiesa a dare autorità agli
scritti che compongono la Bibbia. Come risponde il protestantesimo a
queste obiezioni?
A differenza per esempio del Corano, la Bibbia non è un solo libro,
un'opera unica, ma una raccolta composita che riunisce testi redatti
in epoche diverse da diversi autori. Questa raccolta è il risultato di
un complesso processo di selezione e di scelta tra la letteratura
religiosa di Israele e del cristianesimo primitivo. Da un punto di
vista teologico, e non storico o letterario, si possono distinguere -
in base all'importanza attribuita loro per la fede - tre categorie di
scritti:
a) Innanzitutto i libri “homologoumenoi”, o protocanonici,
universalmente riconosciuti, la cui autorità è riconosciuta dai
credenti e che costituiscono la norma, il criterio della loro fede.
Questi libri fanno parte del cànone (“cànone” (ovvero l'elenco dei
libri contenuti nella Bibbia, n.d.r.) significa “regola” e designa gli
scritti che regolano, delimitano e reggono la fede).
b) Poi ci sono gli scritti “antilegomenes” o deuterocanonici,
che sono considerati utili, dei quali si raccomanda la lettura, ma che
non possono fondare un articolo di fede, una dottrina obbligatoria.
Nel quarto secolo Girolamo precisa che di essi bisogna servirsi per
edificare il popolo, ma non per stabilire o confermare dogmi
ecclesiastici.
c) Infine ci sono gli scritti condannati e rigettati, giudicati
illegittimi, devianti, dichiarati nocivi ed eretici; si chiede ai
credenti di ignorarli o di rigettarli. Tra queste diverse categorie i
confini non sono sempre chiari e indiscutibili. È possibile constatare
valutazioni divergenti, sia per i libri contenuti nell'Antico
Testamento che per quelli contenuti nel Nuovo Testamento.
Nel giudaismo del primo secolo della nostra éra circolavano più cànoni:
i due principali erano il “cànone palestinese”, composto unicamente
dai libri biblici redatti in ebraico e aramaico, e il “cànone
alessandrino”, che aggiunge al cànone palestinese delle opere in
lingua greca (1). Nel sedicesimo secolo i protestanti (sotto
l'influsso dell'umanesimo) hanno adottato il cànone palestinese. Essi
hanno ritenuto che gli scritti aggiunti nel cànone alessandrino
appartenessero alla seconda categoria (cioè deuterocanonici, n.d.r.) e
che avessero perciò minore valore. I cattolici hanno rimproverato ai
protestanti di amputare la Bibbia, di rigettare i libri che essi non
gradivano (per esempio i libri dei Maccabei, che possono giustificare
la preghiera per i morti). La “Vulgata”, la traduzione latina della
Bibbia approvata e imposta dal Concilio di Trento, adotta il cànone
alessandrino e i protestanti l'hanno accusata di aggiungere alla
Bibbia dei testi che non le appartengono. Oggi gli uni e gli altri
giudicano “deuterocanonici” i libri che sono stati aggiunti dal cànone
alessandrino. Per quanto concerne gli scritti cristiani alcuni sono
stati accolti nel cànone biblico mentre altri ne sono stati esclusi,
alle volte dopo lunghe discussioni. Lunghe esitazioni si sono avute,
per esempio, a proposito dell'Apocalisse o dell'epistola agli Ebrei,
scritti che sono stati infine inclusi nel Nuovo Testamento; a lungo si
è discusso intorno alla Didaché o all'epistola di Barnaba o quella di
Clemente Romano, che ne sono stati invece esclusi (2). Questo semplice
sguardo storico mostra che la questione dei confini della Bibbia pone
dei problemi, perché essi appaiono spesso arbitrari, contestabili o
incerti. Quando il protestantesimo nascente ha affermato l'autorità
della Scrittura e l'ha contrapposta a quella della chiesa, si è
trovato immediatamente di fronte alla seguente obiezione, rivoltagli
sempre di nuovo, dai tempi della Riforma: chi, se non la chiesa, ha
stabilito e chiuso la lista dei libri canonici? È la chiesa che ha
deciso cosa fosse biblico e cosa non lo fosse. (...) Non si può quindi
contrapporre, come invece fa la Riforma, la Bibbia alla chiesa, perché
la Bibbia, secondo un'affermazione del teologo cattolico contemporaneo
Karl Rahner, è “un prodotto della chiesa” (3). Si rimprovera in altri
termini al protestantesimo di rinchiudersi in una sorta di
contraddizione: esso proclama l'autorità sovrana della Scrittura, ma
nega e rifiuta ciò che fonda questa autorità. Si comporta come se la
Bibbia fosse discesa dal cielo, mentre si sa che essa è il risultato
di una storia lunga e complessa.
A questa imbarazzante obiezione, il protestantesimo ha dato quattro
risposte. La prima risposta consiste nel dire che il Nuovo Testamento
è composto da libri scritti dagli apostoli o rifacentesi direttamente
alla loro autorità (così l'evangelo di Marco si rifà a Pietro, quello
di Luca e l'epistola agli Ebrei a Paolo). La chiesa non ha scelto
nulla e non ha preso alcuna decisione. Il carattere canonico di uno
scritto deriva dall'apostolicità del suo autore. Contro il
cattolicesimo, il protestantesimo afferma che la Scrittura e non il
clero o la chiesa assicurano la successione apostolica. Agli apostoli,
testimoni oculari della vita di Gesù e uditori diretti del suo
insegnamento, è stato affidato il compito di raccontare ciò che Gesù
ha fatto e detto ed essi hanno altresì posato le fondamenta della
dottrina cristiana. Dopo la loro morte essi continuano a svolgere
questo compito mediante i libri che trasmettono la loro testimonianza
e il loro insegnamento; il Nuovo Testamento trasmette e perpetua la
loro eredità. Questa prima risposta è sembrata, per molto tempo,
solida e convincente. Oggi tuttavia pone parecchi problemi a chi la
vuole sostenere. Essa si scontra con una difficoltà e solleva un
problema. La difficoltà sorge in quanto gli storici hanno accertato
che il Nuovo Testamento contiene dei testi erroneamente attribuiti
agli apostoli (per esempio, sembra assai probabile che le epistole a
Timoteo e a Tito non siano di Paolo). Nessuno si sogna, per questo
motivo, di escludere quegli scritti dal cànone del Nuovo Testamento,
ma la questione si riapre: la provenienza apostolica, smentita o
comunque messa in dubbio dai fatti, non può più essere usata quale
criterio per stabilire l'appartenenza al cànone. In seguito si pone un
problema: cosa fare se si scoprisse un nuovo testo apostolico, per
esempio una epistola sconosciuta dell'apostolo Paolo? Potremmo
accrescere la difficoltà supponendo che questa lettera contenga
qualche piccola eresia, che essa affermi, per esempio, che non si deve
celebrare la Cena o che divinizzare Gesù è blasfemo. Capite bene
l'imbarazzo che tale scoperta susciterebbe. Certo, si tratta di un
problema puramente ipotetico, ma le recenti scoperte di manoscritti,
per esempio quella dell'evangelo attribuito a Tommaso, non rendono del
tutto inverosimile che esso si possa un giorno concretamente porre.
Questa obiezione e questo problema mostrano l'impossibilità di
stabilire un'equivalenza pura e semplice tra “canonicità” (cioè,
appartenenza al cànone) e “apostolicità” (cioè, provenienza
apostolica). La canonicità degli scritti del Nuovo Testamento non
deriva direttamente dal carattere apostolico del loro autore, ma dal
giudizio o dalle convenzioni della chiesa. Questa prima risposta si
rivela dunque insufficiente.
Il professor Oscar Cullmann ha proposto e difeso una seconda
risposta. Egli ritiene che stabilendo il cànone la chiesa abbia
compiuto un “atto d'umiltà” (4) e di rinuncia. Essa ha pubblicamente
ammesso di non detenere l'autorità dottrinale suprema o ultima; essa
ha dichiarato la propria volontà di sottomettersi ai libri che, a suo
giudizio, contengono la parola di Dio. In qualche modo essa ha
rinunciato a esercitare un magistero ponendo la Bibbia come solo
magistero. Secondo Cullmann i cattolici affermano e sottolineano a
ragione che è stata la chiesa a fissare il cànone, ma ritiene che
traggano da questa constatazione una conclusione errata. Lungi
dall'affermare, con quel gesto, la propria autorità, la chiesa
riconosce di non avere che un ruolo subordinato e secondario in
materia di dottrina, di non essere lo strumento e il luogo della
rivelazione divina. Essa confessa la propria debolezza, la propria
incapacità di difendersi dalle deviazioni, dalle deformazioni e dagli
sviluppi leggendari (...). “La chiesa - scrive Cullmann - ha
riconosciuto di non essere in grado di controllare da sola le correnti
diverse che pullulavano... essa ha sottoposto ogni tradizione a una
norma superiore... fissata in determinati scritti che, soli, hanno
valore canonico”. L'autorità dell'elenco dei libri del Nuovo
Testamento si è imposta alla chiesa non appena questo è stato chiuso.
“Stabilendo il principio di un cànone - dichiara Cullmann - ...la
chiesa del secondo secolo... si è data una norma alla quale ha
sottoposto la chiesa di tutti i secoli a venire”. Secondo Cullmann
l'unica decisione infallibile presa dalla chiesa primitiva consiste
nell'avere rinunciato a ogni pretesa di infallibilità ponendo la
Bibbia al di sopra di sé stessa (5); essa ha affermato e proclamato di
non possedere la verità, ma di trovare la verità nelle Scritture che
le sono donate e che rendono testimonianza alla rivelazione.
La tradizione protestante ha dato al nostro problema una terza
risposta che è stata ripresa e sviluppata da Karl Barth. Questa
risposta parte da una constatazione storica. Prima del sedicesimo
secolo (6) gli organi direttivi della chiesa (papi, vescovi, concilii)
non hanno mai votato o regolarmente decretato la delimitazione del
cànone. Le confessioni di fede della Riforma e poi il Concilio di
Trento hanno ratificato per la prima volta l'elenco ufficiale dei
libri biblici aventi autorità. Prima esisteva solamente un elenco
ufficioso, nel senso che nessuno ne aveva sanzionato la validità. Per
essere precisi bisognerebbe dire che la chiesa non ha preso nessuna
decisione, ma ha accettato un'abitudine. (...) Il cànone dunque si
sarebbe imposto, poco a poco, alla chiesa. (...) La forza intrinseca
della Bibbia, e non una decisione esterna, fonda la sua autorità.
Questa risposta si trova già negli scritti di Calvino: “La Scrittura –
scrive - è in grado di farsi riconoscere...così come le cose bianche o
colorate mostrano il loro colore e le cose dolci o amare il loro
sapore” (7). Essa si impone con un'evidenza alla quale non ci si può
sottrarre. Seguendo il medesimo ragionamento il ginevrino Gaussen, uno
dei padri del fondamentalismo, afferma, nel 1842, che la Bibbia è “autopistos”,
si rende cioè testimonianza da sé stessa, fonda da sé stessa la
propria autorità convincendoci e conquistando il nostro assenso. “La
Bibbia - scrive Gaussen - è con ogni evidenza un libro autopistos, che
non ha bisogno che di sé stesso per essere creduto... da chiunque lo
studi con sincerità...essa si presenta in modo chiaro e da sé stessa
come un libro miracoloso” (8). Allo stesso modo Barth dichiara: “La
Bibbia è il cànone perché essa si impone come tale”. Questa risposta
ha un punto debole e uno forte. La sua debolezza consiste nel basarsi
su una prova che potrebbe semplicemente essere il risultato
dell'abitudine. Mi ricordo di un professore il quale diceva: “Prendete
due pagine dei vangeli apocrifi o della epistola di Barnaba e vi
accorgerete immediatamente della differenza che esiste tra quelli e
gli scritti canonici”. In effetti, l'impressione della differenza non
deriva forse dal fatto che abbiamo, da un lato, un testo familiare,
che sentiamo leggere e commentare sin dalla nostra infanzia, e
dall'altro un testo estraneo, che ci disorienta e sorprende? La forza
di questa posizione risiede nel suo prendere atto di un fatto
effettivamente sorprendente: l'accordo pressoché unanime dei cristiani
sui limiti del cànone. Su quasi nessun altro punto si trova un
consenso così ampio; veramente si ha l'impressione che le Scritture si
siano imposte. Tuttavia è possibile considerare questo consenso come
il risultato di una serie di avvenimenti casuali e rifiutarsi perciò
di riconoscergli un particolare valore.
La quarta risposta si iscrive nella linea e nello spirito del
luteranesimo. Il cànone (o regola o norma) non si definisce a partire
dai suoi limiti, ma dal suo centro: hanno autorità quegli scritti che
annunciano o trasmettono il Cristo, o che conducono al Cristo (9).
Lutero lo sottolinea in una sua celebre affermazione: “Ciò che non
conduce a Cristo non è apostolico, nemmeno se fosse opera di Giuda,
Anna, Pilato o Erode”. Lutero avrebbe anche affermato (riporto questa
citazione senza averla potuta verificare) che ogni persona che fosse
oggi ripiena della potenza dello Spirito di Cristo, come lo erano i
profeti e gli apostoli, potrebbe scrivere un nuovo decalogo e un nuovo
Testamento. In questa prospettiva i limiti del cànone rivestono poca
importanza in quanto disponiamo di un criterio che può essere
applicato sia ai libri biblici che agli altri. Lo sottolinea un
teologo protestante contemporaneo, lo zurighese Ebeling: “La
delimitazione del cànone – scrive - ...non è per niente una decisione
infallibile e definitiva”. Egli ritiene che l'ipotesi di una revisione
dell'elenco degli scritti biblici non dovrebbe sollevare né una feroce
opposizione né un'accoglienza entusiastica; vede in questo un problema
secondario, privato di reale importanza (10). Un altro contemporaneo,
specialista di Nuovo Testamento, il tedesco Ernst Käsemann, ritiene
che la chiesa abbia bisogno di un modello, di un paradigma al quale
fare riferimento per delimitare il cànone. Oltre al cristianesimo
primitivo, anche un qualsiasi altro “pezzo di storia” (per esempio la
Riforma) avrebbe potuto essere scelto come paradigma, ma per comodità,
e anche perché si tratta del periodo più prossimo alla fondazione
della chiesa, la chiesa ha scelto il primo secolo. Gli scritti biblici
hanno la funzione di stabilire (...) la regola su un esempio preso tra
altri possibili. Il cànone circoscrive un “luogo esemplare”, ma “la
superficie così delimitata non diviene per questo sacrosanta”. Nel
diciassettesimo secolo dei luterani hanno ipotizzato di aggiungere
alla Bibbia alcuni scritti di Lutero che avrebbero formato una sorta
di terzo testamento, séguito del Nuovo di cui l'Antico è la
preparazione (11). Questa risposta si scontra con un'obiezione
formulata dal neo-calvinista Auguste Lecerf (12). “C'è – scrive - il
Cristo di Santa Teresa, di Sant'Agostino, di Lutero e il Cristo degli
anabattisti di Münster; c'è il Cristo di Calvino e il Cristo di Socino”.
Come decidere? Se anche il vangelo di Tommaso entrasse a far parte del
cànone, ne risulterebbe un'immagine diversa del Cristo e del suo
messaggio. Detto altrimenti, non è possibile affermare, senza essere
contraddirsi, da un lato che il Cristo permette di discernere gli
scritti che sono veramente canonici e, dall'altro, che solamente gli
scritti canonici permettono di discernere chi è veramente Cristo.
Due osservazioni a proposito di queste quattro soluzioni: a)
A me pare che esse, tra di loro, non si escludano, ma che possano
piuttosto essere combinate (come del resto fanno anche Cullmann e
Barth). Gli scritti canonici si caratterizzano per la prossimità
storica dei loro autori rispetto al Cristo, per l'atto di rinuncia
compiuto dalla chiesa, per la forza con cui si sono imposti e per
l'annuncio del messaggio evangelico. Nessuno di questi criteri è
sufficiente, se considerato singolarmente, ma la somma dei criteri da
un insieme di indicazioni che non manca di una certa solidità, pur non
essendo in grado di eliminare ogni incertezza e ogni possibilità
d'errore. b) Il modo in cui poniamo e risolviamo il problema
soffre di una concezione troppo giuridica dell'autorità, di un bisogno
di certezza e di un criterio assoluto dimenticando come la fede debba
sempre contemplare una ricerca ed evitare il rischio di assolutizzare
le proprie formule. Non abbiamo forse bisogno di un cànone
indiscutibile perché ne vogliamo dedurre dei dogmi infallibili e
fondare una ortodossia dottrinale in quanto rifiutiamo la relatività
delle nostre convinzioni e delle nostre formule? (...)
Note:
1) Tralascio il cànone samaritano, marginale, che
comprendeva solamente il Pentateuco o l'Esateuco (i primi cinque o sei
libri dell'Antico Testamento).
2) Nel sedicesimo secolo Lutero mette in dubbio la canonicità
dell'epistola di Giacomo; egli ritiene che si tratti di uno scritto
apocrifo, erroneamente attribuito all'apostolo e incluso indebitamente
nell'elenco dei libri canonici. Egli non osa tuttavia escluderlo dal
cànone.
3) K.Rahner, “Traité fondamentale de la foi”, pp.403-404.
4) O.Cullmann, “La Tradition”, Delachaux & Niestlé, 1953, p.47.
5) K.Barth, “Dogmatique”, Labor et Fides, 1953, vol.I, p.103.
6) A eccezione di un testo, il cui statuto non è del tutto chiaro,
circolato in occasione del Concilio di Firenze del 1442.
7) (a cura di Giorgio Tourn) Giovanni Calvino, “Istituzione della
religione cristiana”, UTET, 1971, vol.I, p.176.
8) “Theopneustie”, 1842, p.189.
9) Si tratta della famosa espressione di Lutero: “Was Christum treibet”.
10) G.Ebeling, “La chiamata all'esistenza nella fede”, Gribaudi, 1971,
p.43.
11) Negli anni Sessanta di questo secolo, negli Stati Uniti, è stata
dibattuta la proposta di includere, tra gli scritti del Nuovo
Testamento, la “Lettera da una prigione di Birmingham” di Martin
Luther King (N.d.t.).
12) A.Lecerf, “Le canon des Saintes Ecritures”, in: Revue Réformée,
34/1958-2, p.8.
*André Gounelle, professore alla Facoltà
Protestante di Teologia di Montpellier (Francia). L'articolo, di cui
pubblichiamo la traduzione delle prime due di tre parti, è apparso in:
"Evangile et libérté", 125/1993 (trad. it. P. Tognina).