Il suicidio

Le discussioni sulla moralità del suicidio sono confuse perché non spesso non si distingue fra la resa volontaria della propria vita e il prendersi la vita volontariamente. La dottrina cristiana tradizionale afferma che in certe circostanze una persona possa rinunciare senza colpa alla propria vita (1). Vi sono infatti occasioni in cui si è chiamati al sacrificio di sé stessi – per esempio, nell’adempiere al proprio dovere nel servizio militare, nel difendere un amico ingiustamente attaccato, nel prendersi cura di ammalati contagiosi, nel testimoniare la propria fede in tempo di persecuzione. In tutti i casi simili a questi, le persone coinvolte non desiderano primariamente o direttamente la loro propria morte, ma sono pronte ad accettarla come conseguenza inevitabile della loro volontà ad eseguire un atto di carità, di giustizia, di misericordia, o di pietà, al quale esse sono persuase Iddio le chiami. Se gli stessi atti avessero potuto essere eseguiti senza  la loro morte, esse non avrebbero scelto di morire. L’atto, però, che può essere propriamente chiamato suicidio, cioè, il prendersi la vita in modo deliberato e diretto (con o senza assistenza) per qualsiasi motivo personale, è un’altra questione. Nell’antichità, e nei tempi moderni, il suicidio è stato difeso come permissibile, o persino virtuoso ed onorevole, sulla base che, come essere umano, la nostra vita ci appartiene e che, come ultima risorsa, possa essere permesso ad un individuo di porre fine alla propria vita a sua propria discrezione. Alcuni cristiani hanno pure cercato di giustificarlo nel caso di dolorose e devastanti malattie incurabili, specialmente quanto queste costituiscono un grave fardello per gli altri (l’eutanasia). Il peso prerponderante, però, dell’opinione cristiana tradizionale (nonostante quei casi di suicidio nella Bibbia che non sono espressamente condannati) ha sostenuto che il suicidio (come sopra definito) sia un grave peccato.

L’essere umano non è l’autore della propria vita e neanche il suo proprietario assoluto. La vita ci è stata affidata da Dio, affinché trovi il suo adempimento nel servizio amorevole di Dio e degli altri qui in questo mondo, e non tocca a noi decidere per quanto tempo dovrà essere così usata. Distruggere direttamente e deliberatamente la propria vita è, quindi, (a) un peccato contro Dio, suo Creatore e Redentore, respingere il Suo amore e negare la Sua sovranità; (b) è un’offesa contro l’amore appropriato che dovremmo avere verso la nostra persona come creatura fatta ad immagine di Dio e destinata a condividerne la gloria, una violazione del Sesto Comandamento, ed un atto di disperazione che preclude il ravvedimento; e (c) un’offesa contro l’umanità nel fatto che esso priva prematuramente la società e la propria famiglia di un suo membro, come pure nega loro l’opportunità di servire ai suoi bisogni.

E’ in accordo con questa dottrina che molti codici di leggi penali abbiano imposto delle pene per il suicidio ed il tentato suicidio, e che per lungo tempo la legge ecclesiastica abbia negato il funerale cristiano a colui che “ha usato con violenza le proprie mani” su sé stesso. E’ stato però riconosciuto che atti di suicidio (che sono sempre peccaminosi “materialmente” ed “oggettivamente”) possano variare dall’essere freddamente premeditati ad essere il risultato di forti pulsioni interiori, e che essi possano essere associati ad una grande varietà di circostanze avverse personali, sociali ed ambientali, e che, in un caso particolare, il grado di colpevolezza dipenda dallo stato mentale in cui ci si trova quando lo si commette. Nel XX secolo,  si è data sempre più grande attenzione alla psicopatologia del suicidio, e sembra sempre più chiaro che il suicidio è molto spesso un atto meno volontario di quanto normalmente si sia creduto. In questo modo, senza concedere né che si abbia il diritto di prendersi la propria vita o che tutti coloro che tentano il suicidio siano da considerare malati di mente, un numero crescente di cristiani è favorevole all’idea che né il suicidio né il tentato suicidio debba essere considerato un crimine, dato che studi medici e sociologici hanno mostrato l’irrilevanza della legge penale alla soluzione del problema. In alcuni paesi questo è ora ampiamente riconosciuto.  A questo riguardo si sono rilevate particolarmente importanti associazioni di volontari, come il Telefono Amico, che assistono, chi contempla il suicidio, a far desistere dall’idea e a cercare di risolvere attraverso la solidarietà pratica, il problema che ne sta alla base.

(Da: “The Westminster Dictionary of Christian Ethics”, a cura di James F. Childress e John MacQuarrie, Philadelphia: The Westminster Press, 1967, p. 609. Traduzione di Paolo Castellina, 20/11/2000).

Note

(1) “Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la salverà” (Lu. 17:33); “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la propria vita per i suoi amici” (Gv. 15:13).


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