I decreti di Uniformità (Acts of Uniformity)


Misure prese dal parlamento inglese in materia ecclesiastica. Sono da considerarsi in numero di quattro.

1) Il decreto del 1549. Questo statuto di Edoardo VI impone alla Chiesa di Inghilterra l’uso del primo Book of Common Prayer (libro di liturgia). Per il clero che non vi si sarebbe conformato, erano imposte diverse sanzioni: multa ed imprigionamento per la prima infrazione, sospensione del salario ed imprigionamento per la seconda, e prigione a vita per la terza. Il decreto pure dichiarava che tutti i culti (eccetto che nelle università e nella devozione privata) dovessero svolgersi il lingua inglese.

2) Il decreto del 1552. Altro statuto di Edoardo VI, ma emanato sotto il protettorato di Northumberland in un tempo di crescente conservatorismo politico e religioso. Stabiliva l’obbligo di usare il Book of Common Prayer in versione riveduta, ed estendeva le sanzioni del decreto precedente fino ad includere l’assenza dai culti e la partecipazione a conventicole private. I decreti del 1549 e del 1552 furono entrambi abrogati dalla regina cattolica Maria di Tudor, nell’ottobre 1553.

3) Il decreto del 1559. Stabiliva il compromesso adottato dalla regina Elisabetta sulla situazione religiosa e regolò la disciplina della Chiesa di Inghilterra per i prossimi 90 anni. Abrogava tutta la legislazione della regina Maria, che aveva ristabilito il Cattolicesimo, e stabiliva l’uso di un’edizione leggermente modificata del Book of Common Prayer del 1552. Le sanzioni venivano ristabilite, e i paramenti sacri dovevano essere quelli stabiliti nel 1549. La regina stessa veniva stabilita come Capo della Chiesa, riservandosi il privilegio di introdurre ulteriori necessarie cerimonie e riti – provvedimento questo poi fortemente contestato dai puritani.

4) Il decreto del 1662. La più importante delle leggi che ristabiliva l’istituzione della Chiesa di Inghilterra, stabilito dal parlamento dei cavalieri di Carlo II, in seguito alla Restaurazione, e il primo di questi atti fu il decreto di repressione sistematica conosciuto come il Clarendon Code. Imponeva l’universale adozione di una forma leggermente riveduta del Prayer Book elisabettiano, ricevendo il consenso regale il 19 maggio. Prima del giorno di S. Bartolomeo (24 agosto) tutti i ministri di culto dovevano pubblicamente dovevano dare il loro "consenso ed assenso non finto" al Prayer Book, e ricevere la consacrazione da parte del vescovo, se questa non era ancora stata per loro eseguita. Doveva pure essere fatto un giuramento di fedeltà e di ripudio del National Covenant. Questi provvedimenti condussero alla grande espulsione (Great Ejection) di circa 2000 ministri presbiteriani, indipendenti e battisti, il che condusse alla definitiva separazione fra Anglicani e Puritani, e la susseguente nascita del Nonconformismo inglese. Per quanto riguarda i dissenzienti, l’atto fu reso praticamente non operativo dall’Atto di Tolleranza di William e Mary (1689), ma rimaneva in vigore per la Chiesa di Inghilterra, sebbene fosse più tardi modificato in diverse direzioni – in modo particolare durante l’episcopato di A. C. Tait. Storicamente, gli ecclesiastici "aperti" lo hanno valorizzato come base di unità e pluralismo all’interno della Chiesa stabilita, e gli evangelici lo hanno considerato una salvaguardia dei 39 articoli. I ministri della "Chiesa alta", specialmente i più estremisti, lo trovavano però vessatorio e restrittivo.

 

Il codice di Clarendon

Il parlamento, detto Cavalier o dei Pensioner si riunì la prima volta l’8 maggio 1661. Emanò una serie di severi statuti conosciuti appunto come il Codice di Clarendon. Essi erano il Corporation Act (1661), il Act of Conformity(1661), il Conventicle Act (1664) e il Five Mile Act (1665). Loro scopo era quello di rimuovere dal ministero della Chiesa, come pure dai governi nazionale locale, tutti coloro che non sottoscrivessero alla liturgia e dottrina della Chiesa di Inghilterra. Il suo nome deriva dal principale proponente, Sir Edward Hyde, Earl of Clarendon (1609-74), che fu Lord Cancelliere sotto Carlo II, ma che comunque non ne è il solo responsabile.


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