La misericordia di Dio e la nostra (Luca 15:1-2,11-32)

Domenica 27 Marzo 2022 – Quarta domenica di Quaresima

(Culto completo con predicazione)

(solo predicazione)

Introduzione alle letture bibliche di oggi

Letture bibliche: Salmo 32; Giosuè 5:9-12; 2 Corinzi 5:16-21; Luca 15:1-3,11-32

Fino a qualche anno fa si insisteva in Italia su quello che si chiamava “La cultura della legalità”, cioè la consapevolezza dell’importanza e del valore di vivere nel rispetto delle leggi. Oggi questo concetto è sempre più in crisi perché prevale, anche presso le autorità, un’altra cultura, quella cioè del trovare sempre nuove giustificazioni e stratagemmi per contravvenire alle leggi e servire così gli interessi personali o dei potenti. Se questo vale per le leggi umane, sembra quasi scomparsa del tutto la cultura della legalità rispetto alle leggi di Dio, che vengono ignorate o piegate alla bisogna. Ne consegue che il linguaggio biblico che parla di peccato, trasgressione, confessione, ravvedimento e riabilitazione è sempre più lontano dalla consapevolezza persino della maggior parte dei cristiani. Che cosa, però, ci indica un Salmo come il 32, quando dice: “Beato l’uomo la cui trasgressione è perdonata e il cui peccato è coperto”? Voler vedersi liberati dal fardello della colpa e del peccato è rappresentato spiritualmente dalla liberazione del popolo di Dio dalla schiavitù in Egitto, come illustrato dalla seconda lettura tratta dal libro di Giosuè. Di questo ci parla pure la quarta lettura, la parabola evangelica del Figliol prodigo, che illustra la misericordia di Dio verso il peccatore che si ravvede. La riconciliazione con Dio del peccatore pentito e il diventare una nuova creatura in Cristo, rigenerata moralmente e spiritualmente, è il frutto dell’Evangelo annunziato dall’apostolo Paolo nella nostra terza lettura. La “cultura della legalità”, infatti, la si può comprendere e vivere appieno solo nell’ambito dell’esperienza cristiana della rigenerazione. Si tratta di un messaggio che la nostra generazione ha più che mai bisogno di udire.

La misericordia di Dio e la nostra

Chi sbaglia deve pagare, la giustizia deve trionfare: ecco un principio importante per la convivenza umana. Giustizia, però, non vuol dire la vendetta della società sul trasgressore delle sue norme, perché, come si dice giustamente, la sanzione penale deve essere finalizzata possibilmente al recupero del criminale alla legalità, non al suo annientamento. Giustizia e recupero del trasgressore trovano la loro origine nel messaggio incarnato da Gesù: sono concetti genuinamente cristiani. Sono doni che Dio concede a tutti coloro che, giungendo a comprendere la bontà della legge divina, ravvedendosi dai loro peccati, chiedendo perdono e, disponendosi ad una rinnovata obbedienza, desiderano sinceramente ritornare ad essere in comunione con Dio. Uno dei testi meglio noti che illustrano questo principio è la parabola del figlio prodigo di Luca 15. Da essa vorrei mettere in evidenza oggi in particolare la misericordia del carattere di Dio, quella che pure deve far parte del nostro carattere cristiano, e il fatto che qui troviamo la descrizione stessa della condizione umana. Come? Ascoltate:

Il testo biblico

Or tutti i pubblicani e i peccatori si accostavano a lui per udirlo. E così i Farisei come gli scribi mormoravano, dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro. Ed egli disse loro questa parabola: (…) Un uomo aveva due figli; e il più giovane di loro disse al padre: Padre, dammi la parte dei beni che mi tocca. Ed egli spartì fra loro i beni. E di lì a poco, il figlio più giovane, messa insieme ogni cosa, se ne partì per un paese lontano, e vi dissipò la sostanza, vivendo dissolutamente. E quando ebbe speso ogni cosa, una gran carestia venne in quel paese, sicché egli cominciò a essere nel bisogno. Allora si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi, a pascolare i porci. Ed egli avrebbe bramato sfamarsi con i baccelli che i porci mangiavano, ma nessuno gliene dava. Ma rientrato in sé, disse: Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza, e io qui mi muoio di fame! Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro te: non sono più degno d’esser chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi. Egli dunque si levò e venne a suo padre; ma mentre egli era ancora lontano, suo padre lo vide e fu mosso a compassione, corse, e gli si gettò al collo, e lo baciò e ribaciò. E il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il cielo e contro te; non son più degno d’esser chiamato tuo figliuolo. Ma il padre disse ai suoi servitori: Presto, portate qua la veste più bella e rivestitelo, e mettetegli un anello al dito e dei calzari a’ piedi; portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e rallegriamoci, perché questo mio figlio era morto, ed è tornato a vita; era perduto ed è stato ritrovato. E si misero a far gran festa. Or il figlio maggiore era nei campi; e tornando, mentre era vicino alla casa, udì la musica e le danze. E chiamato a sé uno dei servitori, gli domandò che cosa stesse succedendo. Quello gli disse: È giunto tuo fratello, e tuo padre ha ammazzato il vitello ingrassato, perché l’ha riavuto sano e salvo. Ma egli si adirò e non volle entrare; allora suo padre uscì fuori e lo pregava di entrare. Ma egli, rispondendo, disse al padre: Ecco, da tanti anni ti servo, e non ho mai trasgredito un tuo comando; a me però non hai mai dato neppure un capretto da far festa con i miei amici; ma quando è venuto questo tuo figlio che ha divorato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato. E il padre gli disse: Figlio, tu sei sempre con me, e ogni cosa mia è tua; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto, ed è tornato a vita; era perduto, ed è stato ritrovato” (Luca 15:1-2,11-32).

La misericordia di Dio 

Troviamo la parabola del “figlio prodigo”, nel vangelo secondo Luca, accanto ad altre due che descrivono la situazione di una persona che, avendo perduto qualcosa d’importante, si mette diligentemente a cercarla fintanto che, con grande gioia, non la ritrova. Ecco così la parabola della pecora smarrita, poi quella della moneta preziosa perduta, e infine questa, che racconta della gioia d’un padre che recupera il figlio che si era allontanato da casa. 

Queste parabole sono la risposta che Gesù dà a chi Lo criticava apertamente per il fatto che Egli si proponesse il recupero di persone che i benpensanti di allora consideravano spregevoli e negative, persone di cattiva reputazione. Diligenti, infatti, in tutti i loro doveri verso Dio e verso la società, vi erano quelli che avrebbero volentieri “abbandonato al loro destino” tutti “i peccatori” che contravvenivano alle regole di vita stabilite da Dio e che consideravano “maledetti”. Stranieri e pagani, collaborazionisti con l’occupante romano, gente disonesta e corrotta, prostitute e sfruttatori, e persino chi era afflitto da gravi malattie (considerate un castigo di Dio), insomma, tutta la gente “non a posto” con Dio: con essa non volevano avere nulla a che fare! Per questo “i farisei e gli scribi mormoravano contro Gesù dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro»”.

Facendo così, Gesù non intendeva certo dire che il loro modo di vivere andasse bene così, ma andava appositamente a cercare questa gente per recuperarla a Dio. Era gente perduta per Dio e per la società rispettosa della Legge. Per Lui “perduta” non significava necessariamente “per sempre”, destinata solo alla condanna. Se era perduta, andava ritrovata e  persuasa a essere e a fare ciò che è giusto davanti a Dio. Gesù qui vuole insegnare proprio questo: Dio è un Dio giusto, e chi si sottrae alla Sua legittima autorità dovrà subirne tutte le conseguenze, ma Egli non gode nell’applicare le sanzioni previste. Egli va a cercare il trasgressore per far sì che modifichi il suo modo di pensare e di agire. Se il trasgressore sinceramente si ravvede, Egli se ne rallegra e sarà da Lui volentieri riaccolto. Lo stesso atteggiamento di misericordia verso i perduti deve pure caratterizzare coloro che fedelmente sono rimasti in comunione con Dio, come indica la seconda parte della parabola. 

La nostra condizione 

In che modo, però, la parabola del figlio prodigo pure rappresenta la condizione umana? Consideriamone gli elementi.

1. “Un uomo…” (11 a). L’uomo di cui Gesù parla rappresenta Dio. Egli è padre delle creature umane, create a Sua immagine e somiglianza e destinate ad avere un rapporto privilegiato con Lui come amministratori di questo mondo. Iddio è il loro Padre, e come tale egli di loro si prende amorevole cura.

2. La parabola, poi, dice che quest’uomo: “…aveva due figli” (11 b). Rappresentino “due tipi di figli”. Uno di questi figli è fedele e ubbidiente, mentre il secondo è ribelle, indisciplinato, sfaticato e sprecone. Hanno avuto la stessa educazione e gli stessi privilegi ma il loro carattere è molto diverso, e il secondo non fa altro che “dare problemi”. Nella storia biblica (pensate per esempio a Caino e Abele), troviamo ricorrenti queste due caratterizzazioni: chi fedelmente fa quel che è giusto davanti a Dio e chi vorrebbe solo fare quel che gli passa per la testa. E’ sempre stato così.

3. “Padre, dammi la parte dei beni che mi tocca” (12 a). Il secondo figlio pretende per sé stesso senza tenere in alcuna considerazione il bene complessivo della famiglia. Pretende “ciò che gli spetta di diritto”: da parte di Dio tutto gli sarebbe dovuto senza alcuna contropartita. Non lo amministra con saggezza, ma pensa solo ad avvantaggiarsi per il proprio egoistico godimento. Il piacere per lui precede e persino sostituisce il dovere. Non pensa nemmeno al “dopo”: quello che conta è l’oggi. La grande follia dei peccatori è quella d’accontentarsi dei beni di questa vita sfruttandoli al massimo perché, dicono, “del domani non c’è certezza”. Ambiscono alle gratificazioni dell’oggi senza occuparsi del futuro. 

Perché questo figlio desiderava avere la parte dei beni che “gli spettava”? In primo luogo perché era stufo di dover sottostare all’autorità del padre, e ambiva a conquistarsi quella che riteneva essere “la sua libertà”. Non che il padre fosse autoritario e ingiusto: egli non sopportava dover sottostare alla sua autorità. Quanti, oggi, pensano di dover essere padroni di sé stessi, e tagliano così ogni rapporto con Dio. Sottraendosi al controllo di Dio Padre i peccatori non vogliono essere “costretti” dalle regole del governo di Dio, vogliono essere dèi a loro stessi. In secondo luogo, egli non aveva fiducia che il padre amministrasse rettamente ogni cosa. Chiedendo al padre la parte di beni che gli spettava, molto probabilmente pensava che il padre lo avesse limitato nelle sue spese, o gli negasse ciò di cui aveva bisogno. Egli era molto orgoglioso e aveva un concetto molto alto della propria sufficienza. Pensava che se solo egli avesse avuto la parte dei beni che gli spettava, egli l’avrebbe saputa amministrare meglio di suo padre. Ciò che rovina l’essere umano, infatti, è spesso la presunzione. 

4. Ed ecco così che: “Ed egli divise fra loro i beni”, calcola, cioè, che cosa spetta a ognuno di loro, e dà al più giovane la parte dell’eredità che gli toccava. Il figlio fedele aveva continuato, però, a lasciare nelle mani del padre la sua parte, sapendo che i beni della famiglia erano comunque un patrimonio comune. Presso Dio non ha senso il modo di ragionare di questo mondo, che dice: “Questo è mio”, “Quello è tuo”, perché nel regno di Dio i concetti che prevalgono sono: giustizia, generosità e condivisione responsabile. Comunque, il padre dà al figlio più giovane quel che gli chiede e forse di più. Perché? Perché potesse vedere quanto fosse generoso, quanto desideroso fosse di compiacerlo, nonostante tutto, anche se questo gli dispiaceva. 

Quant’è amaro il peccato! 

Ecco così che, dice Gesù, “…di lì a poco, il figlio più giovane, messa insieme ogni cosa, se ne partì per un paese lontano, e vi dissipò la sostanza, vivendo dissolutamente. E quando ebbe speso ogni cosa, una gran carestia venne in quel paese, sicché egli cominciò a essere nel bisogno” (13, 14). Questa è esattamente la condizione del peccatore lontano da Dio. 

1. La condizione di peccato è quella di “partenza” e “distanza” da Dio. La gravità del peccato, infatti, sta proprio nel fatto del voler fare a meno di Dio. Il figlio prodigo “parte per un paese lontano”. I peccatori, infatti, fuggono da Dio, si allontanano da Lui il più possibile. Il mondo degli empi è quel “paese lontano” in cui prendono la loro residenza. La miseria dei peccatori consiste proprio nell’essere lontani da Dio e da Lui si allontanano sempre di più. 

2. La condizione di peccato è quella di “sperpero”, di spreco. In poco tempo il figlio prodigo spende tutto quello che ha con gente che solo di lui ne approfitta di lui, “le prostitute”. E’ vero pure spiritualmente: i peccatori dissipano le loro risorse spirituali, perché usano male i doni che la provvidenza ha fatto loro. Intesi a servire Dio, li usano solo per soddisfare la loro concupiscenza e li rovinano.

3. La condizione di peccato è quella di gran bisogno. Una vita lontano da Dio, ha infatti, per solo risultato, l’immiserimento totale, morale e spirituale, del peccatore. Disprezzando Dio, fonte di ogni bene, dove potrebbero finire, se non nella miseria? La condizione di peccato è davvero come una terra dove regna “una grande carestia”. I peccatori sono miseri e il peggio è che loro stessi sono stati causa del loro male!

4. La condizione di peccato è una condizione servile, com’è scritto: “Allora si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi, a pascolare i porci” (15). Allontanarsi da Dio, infatti, non significa libertà, ma essere costretti, come dice la Scrittura ad avere “cura della carne per soddisfarne i desideri” (Romani 13:14), e questo non è meglio di dar da mangiare a porci affamati e sporchi. 

5. La condizione di peccato è quella d’insoddisfazione perenne, giacché il testo dice: “Ed egli avrebbe voluto sfamarsi con i baccelli che i maiali mangiavano” (16 a). Allontanandosi da Dio, il peccatore pregusta grandi soddisfazioni. In realtà vuol dire spendere denaro per ciò che non è pane e affaticarsi per ciò che non sazia (Isaia 55:2). I baccelli sono cibo per i maiali, non per gli uomini. Le cose di questo mondo possono temporaneamente soddisfare il corpo, ma non l’anima. Non soddisfano i suoi desideri, non suppliscono ai suoi bisogni. 

6. La condizione di peccato è tale da non potersi aspettare sollievo da creatura alcuna, infatti, “…ma nessuno gliene dava” (16 b). Il figlio prodigo, che non riusciva a guadagnarsi il suo pane lavorando, ci prova mendicando, ma nessuno viene in suo soccorso. Invano grideremo al mondo e alla carne di aiutarci: non hanno che veleno per l’anima, nulla che possa realmente nutrirla. 

7. Pure altre espressioni della parabola descrivono l’attuale condizione umana. Essa è una condizione di morte. Il padre dirà: “…questo mio figlio era morto” (24), “…questo tuo fratello era morto” (32). Secondo la Scrittura non solo grava sul peccatore una sentenza di morte, ma sono già spiritualmente morti. Il figliol prodigo, in quel lontano paese era come morto per suo padre e per la sua famiglia, e questo per sua scelta. 

8. La condizione di peccato è pure una condizione di perdizione. Il figliol prodigo è perduto (24), perduto a tutto ciò che è buono, perduto per la famiglia di suo padre. Le anime, infatti, separate da Dio sono anime perdute, come uno che abbia sbagliato strada e, se la misericordia di Dio non si interpone, saranno perdute per sempre. 

Infine: 9. La condizione di peccato è una condizione di follia, la condizione di chi “è fuori di sé”. Del figlio prodigo, infatti, la parabola dice a un certo punto “…allora, rientrato in sé…” (17). Certamente era stato un pazzo a lasciare la sua famiglia, e ancor di più a “mettersi con gli abitanti di quel paese” (15). I peccatori, come dei malati di mente, seguendo i loro istinti, sono di fatto autolesionisti, si ingannano con folli speranze.

Cominciare a riflettere 

Il peccatore si ritroverà, prima o poi, a causa della sua scelta insensata di voler fare a meno di Dio, in guai seri. La situazione è disperata. Però, qualcuno di essi comincia a riflettere sulla propria condizione. Quel figlio, infatti, comincia a pensare: “Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!” (17). Spesso sono le circostanze tristi della vita in cui siamo caduti che ci fanno cominciare a riflettere se le nostre scelte davvero ne erano valse la pena, e allora “rientriamo in noi stessi”. Il bisogno e la “nostalgia di casa” ci fanno finalmente riflettere.

Giungiamo allora a una decisione: “Io mi alzerò e andrò da mio padre, e gli dirò: … non sono più degno d’esser chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi” (18,19). Mentre alcuni non ammetteranno mai di avere sbagliato, chi sa di essere ormai caduto così in basso d’aver perso ogni dignità, non ricusa di confessare i propri errori. Non pretende il perdono, perché sa che il castigo è ben meritato: gli basterà solo qualche briciola di misericordia, “come i servi”. Non pretende di essere ristabilito come figlio. Sa di avere offeso e fatto del male a suo padre e a Dio stesso. Così, spinto dalla fame, raccoglie le sue ultime forze e torna da suo padre. Ha già preparato tutto un discorso da fargli. Incontrerà lo sguardo severo del padre, la sua giusta ira e riprovazione? Vedrà la porta sbattutagli in faccia? Se il padre non sarà pronto ad accettarlo vorrà essergli solo come uno dei suoi servi. 

Epilogo 

La storia giunge al suo epilogo. La sorpresa del figlio prodigo è veramente grande, perché con gran gioia il padre lo riaccoglie. Quel che accade è inaspettato e imprevedibile: invece d’incontrare l’ira del padre incontra la sua misericordia. Così è Dio: Egli non gode nell’infliggere la giusta condanna del peccatore, ma, a chiunque si rende conto dell’errore compiuto è disposto non solo a riaccoglierlo, ma a ristabilirlo. Quel padre così risponde ordinando ai suoi servi di preparare una gran festa di benvenuto. Il Signore Gesù mette in evidenza, con questa parabola, la gioia di Dio stesso quando uno stolto peccatore “rientra in sé stesso” e, confessando il suo peccato, torna umilmente da Lui. Il figlio diligente e ubbidiente, quello che non si era mai allontanato da casa, non dovrà, poi offendersi, ma rallegrarsi anch’egli perché la verità sarà riaffermata e le cose sono ristabilite come dovrebbero essere. In fondo, il figlio prodigo ha già subito il suo castigo, ha imparato la lezione. Quelli che odono il racconto di Gesù, e soprattutto vedono ciò che Egli fa quando va a cercare i perduti per recuperarli, sono invitati a fare altrettanto. ” … dice il Signore, l’Eterno, io non mi compiaccio della morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via e viva” (Ezechiele 33:11). E’ ciò che Gesù dice anche a ciascuno di noi oggi.

Paolo Castellina, 19-3-2022, riduzione di una mia predicazione del 3-5-2005