Perdere per trovare: la logica paradossale del discepolato cristiano  (Marco 8:34–38)

Domenica 19 ottobre 2025

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Autoconservazione

In ogni creatura c’è un istinto naturale di autoconservazione. È la forza che ci fa fuggire il pericolo, difendere ciò che abbiamo, cercare sicurezza e sopravvivenza. L’essere umano, con la sua intelligenza e sensibilità, non sfugge a questa legge: in fondo, quasi ogni nostra decisione quotidiana nasce dal desiderio di continuare a vivere e di vivere bene.

Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer chiama questo impulso volontà di vivere: una spinta cieca, irrazionale, che attraversa tutto ciò che esiste, mantenendo in moto la vita stessa. Più tardi, Sigmund Freud, nel suo libro “Al di là del principio di piacere”, parla di una pulsione di vita (Eros), in contrasto con una pulsione di morte (Thanatos). In altre parole, la vita si mantiene solo lottando per conservarsi, e ogni essere tende a proteggersi, a preservarsi, a durare.

Eppure, quando ascoltiamo le parole di Gesù nel Vangelo di Marco, restiamo sorpresi. Egli dice: “Chi vorrà salvare la sua vita la perderà; ma chi perderà la sua vita per causa mia e dell’Evangelo, la salverà” (Marco 8:35). È un pensiero paradossale, quasi scandaloso. Gesù sembra rovesciare la logica stessa della natura e dell’uomo: non salvare, ma perdere; non trattenere, ma donare. Eppure, dietro questo linguaggio “controintuitivo”, Egli rivela una verità più profonda: la vita vera non si trova nella conservazione di sé, ma nella donazione di sé.

Il cristianesimo non nega il valore della vita, ma la libera dall’idolatria dell’ego. Gesù non ci chiede di disprezzare la nostra esistenza, ma di smettere di considerarla un possesso da difendere ad ogni costo. Egli ci invita a offrirla a Dio, come Egli stesso ha fatto nella sua vita, sofferenza, morte in croce, per ritrovarla rinnovata, redenta e piena.

Il testo di Marco e il suo contesto  

Le parole di Gesù si trovano in un punto decisivo del Vangelo di Marco (8:34–38). Ascoltiamole.

“Chiamata a sé la folla con i suoi discepoli, disse loro: Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà, ma chi perderà la sua vita per amor mio e dell’evangelo, la salverà. E che giova all’uomo se guadagna tutto il mondo e perde l’anima sua? Infatti, che darebbe l’uomo in cambio dell’anima sua? Perché se uno si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando sarà venuto nella gloria del Padre suo con i santi angeli” (Marco 8:34-38).

Fino a quel momento, i discepoli hanno seguito un Gesù potente, che guarisce, insegna e affascina le folle. Ma ora Egli comincia a rivelare il vero senso della sua missione: “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto… essere ucciso e dopo tre giorni risuscitare” (v. 31). Lo stesso Pietro reagisce indignato — “questo non ti accadrà mai!” — ma Gesù lo rimprovera duramente: “Va’ via da me, Satana!”. È una delle scene più forti del Vangelo.

Subito dopo, Gesù allarga il discorso: non parla più solo ai discepoli, ma “alla folla con i suoi discepoli”. È come se dicesse: “Ciò che vale per me vale anche per voi”. Seguire Cristo significa accettare quella che potremmo chiamare la via della croce, la via crucis, la stessa logica di dono e di perdita per amore, per conseguire risultati “per i molti”, come scrive l’apostolo Paolo: “Perché, se per la trasgressione di uno solo, molti sono morti, molto più la grazia di Dio e il dono per la grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, hanno abbondato verso i molti” (Romani 5:15).

Gli evangelisti Matteo (16:24–26) e Luca (9:23–25) riportano le stesse parole, ma con sfumature diverse. Matteo parla ai discepoli, Luca dice che Gesù le rivolse “a tutti”, sottolineando il carattere universale dell’invito. Giovanni, invece, non riporta esattamente questa frase, ma la esprime in altro modo: “Chi ama la sua vita la perde; e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Giovanni 12:25). Tutti e quattro, però, concordano su questo punto: seguire Gesù significa rinunciare a vivere solo per sé stessi.

1.  Rinnegare sé stessi: la liberazione dall’io

Gesù comincia dicendo: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinunci a sé stesso». Rinnegare sé stessi non significa annullare la propria personalità o disprezzare la vita, ma rifiutare di porre sé stessi al centro. È la liberazione dall’ego tirannico che vuole controllare tutto, ottenere tutto, essere servito da tutti.

Il “sé” che deve essere rinnegato è quello che pretende autonomia da Dio. È l’io che dice: “La mia volontà sia fatta”. Ma chi vuole seguire Cristo deve imparare a dire: “La tua volontà sia fatta”. Solo così la vita torna a essere vera vita, perché ritrova il suo ordine naturale: Dio al centro, e non l’uomo.

È una rinuncia che libera. Chi vive per sé stesso resta prigioniero del proprio io; chi vive per Cristo entra nella libertà dei figli di Dio. Il discepolato comincia quando smettiamo di dire “io” e cominciamo a dire “Cristo”. L’apostolo Paolo lo trasforma giustamente in uno stile di vita arrivando a dire: “Sono stato crocifisso con Cristo, non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me e la vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Galati 2:20).

2. Prendere la propria croce: la fedeltà quotidiana

Gesù aggiunge: «Prenda la sua croce e mi segua». La croce, per gli ascoltatori del tempo, non era un simbolo religioso ma lo strumento della morte più crudele e vergognosa. Prendere la propria croce significa quindi accettare la possibilità del supremo sacrificio, della sofferenza, di un modo che ci rifiuta e condanna, per amore di Cristo e della Sua causa.

La croce, però, non è solo il martirio estremo: è ogni fedeltà quotidiana che costa qualcosa. È restare fedeli alla verità quando conviene mentire; è perseverare ad amare anche quando si è feriti; è scegliere la via della giustizia quando la menzogna sarebbe più facile.

Il discepolo non cerca la sofferenza, ma non la rifiuta se essa è la via della fedeltà a Dio ed al bene del prossimo. Gesù non chiede eroismi isolati, ma coerenza quotidiana: portare la croce è vivere ogni giorno sotto il segno dell’obbedienza a Dio. Nella parabola del Buon Samaritano, questi aiuta una vittima sconosciuta della criminalità non solo interessandosene, ma spendendo del suo. “… presi due denari, li diede all’oste e gli disse: ‘Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, quando tornerò, te lo renderò’” (Luca 10:35).

3. Perdere per salvare: il paradosso della vita cristiana

Gesù dice: «Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà». È la legge del Regno. Chi vive solo per sé stesso, chi cerca sicurezza e successo a qualunque prezzo, finirà per perdere di fatto ciò che voleva salvare. Ma chi accetta di perdere la propria vita “per Cristo e per l’Evangelo”, cioè per amore e per fedeltà alla verità, con Cristo al servizio della salvezza del prossimo scoprirà la vita significativa , vera ed eterna.

Gesù ribalta così i criteri che prevalgono in questo mondo decaduto. La vita non è un possesso da difendere a spese di chiunque altro, ma un dono da spendere, da investire per il Regno di Dio. Gesù dice: “Cercate prima il regno e la giustizia di Dio e tutte queste cose vi saranno date in più” (Matteo 6:33). Chi si aggrappa alla propria vita, la perde ma chi la affida a Dio, la ritrova.

Cristo stesso ne è il modello supremo: egli ha “perduto” la sua vita sulla croce, ma proprio così l’ha “salvata” e ha salvato la nostra, riscattandoci dai tragici effetti del peccato. L’Apostolo scrive: ”… poiché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 6:23). Seguirlo significa ripercorrere il suo stesso cammino, certi che la via della croce è la via della gloria.

4. L’abnegazione cristiana non è fanatismo

A questo punto bisogna pure chiarire un malinteso frequente: Gesù non ci chiama a quello che di solito è considerato fanatismo, né invita a cercare la morte. La sua via non è quella di chi si annienta per un’idea religiosa o un’ideologia politica, e neanche per il discutibile concetto di “nazione”. Spesso “morire per la patria”, per esempio, vuol dire dare la propria vita per servire stupidamente le ambizioni di classi dirigenti e potentati che sfruttano l’idea di “patria” per i propri interessi politici ed economici. In quel caso bisogna rifiutarsi di farlo smascherandone l’inganno – e si, anche a proprio rischio e pericolo. Il fanatismo nasce dall’orgoglio e dalla volontà di dimostrare qualcosa; l’abnegazione cristiana nasce dall’amore e dalla fiducia.

Chi perde la vita “per causa mia” lo fa per amore di una Persona, Gesù, che non dice dall’alto di un comodo e protetto ufficio: “Armatevi e partite”, “Combattete per me”, “Servire la mia causa”, ma per la causa di Colui che è entrato Egli stesso “nel campo di battaglia”. L’Apostolo Giovanni scrive: “Noi abbiamo conosciuto l’amore da questo: egli ha dato la sua vita per noi; noi pure dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli” (1 Giovanni 3:16). Non muore per disprezzo del mondo, ma per servire il mondo secondo la volontà e i propositi di Dio. Non cerca la sofferenza, ma accetta di non fuggirla quando la fedeltà a Cristo la comporta.

La croce non è un simbolo di distruzione, ma di redenzione. Chi la abbraccia, unito a Cristo, non si spegne, ma si ritrova partecipe della sua vittoria sull’egoismo, sul peccato e sulla paura. La vera abnegazione è l’amore che si dimentica di sé, non la violenza che si esalta.

5. La fedeltà in una generazione adultera e peccatrice

Gesù conclude: «Chi si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre».

Una “generazione adultera e peccatrice” è quella che, pur conoscendo la verità, preferisce seguire altri dèi — l’idolatria spirituale del potere, del piacere, dell’autonomia. È una generazione che si vanta della propria libertà, ma rifiuta la fedeltà.

La nostra epoca non è diversa. Anch’essa è “adultera”, perché tradisce il Dio vivente per adorare l’io e il successo. È “peccatrice”, perché chiama bene il male e male il bene, perché sostituisce l’Evangelo con la religione del sé.

Il discepolo di Cristo è chiamato a non vergognarsi di lui, ma a confessarlo apertamente, anche quando il mondo deride, isola o condanna. Vergognarsi di Cristo oggi significa tacere per paura; ma il vero discepolo non si vergogna del suo Signore, perché sa che un giorno Cristo stesso lo riconoscerà davanti al Padre.

Gesù non ci invita a un eroismo tragico, ma a una libertà profonda: quella di chi ha scoperto che la vita vale davvero solo quando si dona. Il discepolo non è un asceta cupo né un idealista disperato, ma una persona che ha visto in Cristo l’amore più grande e desidera seguirlo.

A chi non crede, queste parole possono sembrare dure; ma chi le vive scopre che in esse c’è una gioia nuova. La vita non si salva trattenendola, ma consegnandola. E chi impara a farlo, anche solo un poco, sperimenta la verità di Gesù: “chi perde la sua vita per causa mia e dell’Evangelo, la salverà. A noi, cristiani già in cammino, queste parole ricordano che la maturità della fede non consiste nel credere più cose, ma nell’amare di più, anche quando costa. La crescita spirituale è imparare, giorno dopo giorno, a fidarsi del Signore fino in fondo. Egli ha perso la sua vita per noi: perderla per Lui non è mai una sconfitta, ma la via che conduce alla vita piena.

Conclusione

Le parole di Gesù sulle quali abbiamo oggi riflettuto, restano un’offesa al buon senso del mondo, ma una luce per chi cerca la verità. Egli non parla come un moralista, né come un asceta deluso dalla vita, ma come Colui che la conosce fino in fondo, perché l’ha data e l’ha ripresa nella risurrezione. Il suo messaggio capovolge ogni logica umana: chi vive solo per sé stesso si smarrisce; chi si dona, si ritrova; chi fugge la croce, perde la vita; chi l’abbraccia per amore, entra nella vera gloria. È la logica dell’Evangelo, il contrario della logica del mondo.

A chi guarda con scetticismo a queste parole, Gesù propone una sfida: osserva il mondo che esalta l’ego, la ricchezza, il potere. Ha forse trovato la felicità che promette? Tutto ciò che il mondo chiama “successo” si consuma, e chi vive per sé finisce per perdere sé stesso. Gesù offre una via diversa: non la fuga dalla vita, ma la sua redenzione. “Perdere per trovare” è la sua formula, ma è anche la legge segreta di ogni vera esistenza. Solo chi è disposto a donarsi scopre la pienezza che cercava invano. Gesù, il Salvatore del mondo, ha aperto la strada.

E a noi, che già lo conosciamo e lo seguiamo, il Signore rinnova oggi il suo invito: “Resta fedele, non vergognarti di me, porta la tua croce ogni giorno al servizio dei propositi ultimi di Dio”. Non è un invito al sacrificio fine a sé stesso, ma alla libertà che nasce dall’amore. Chi cammina con Cristo impara a non misurare più la vita con i criteri del mondo, ma con quelli del Regno. La perseveranza, la fedeltà, il coraggio di rimanere saldi quando la verità non è di moda — queste sono le croci quotidiane che rivelano la potenza della grazia.

Il ravvedimento che Gesù chiede è dunque un ritorno alla realtà, alla verità delle cose: distaccarsi da questa generazione adultera e peccatrice, che adora sé stessa, per ritrovare in Dio la sorgente della vita. È un passo di libertà, non di rinuncia; di fiducia, non di rassegnazione.

E a chi teme di “perdere”, Gesù risponde ancora: “Non temere. Ciò che perdi per amore mio non lo perderai mai davvero: in me lo ritroverai, trasformato in vita eterna”. Ecco il paradosso divino: la vera vita si conquista solo quando si smette di difenderla.

Chi perde la propria vita per Cristo, non si spegne: entra nella vita che non muore. Questa è la promessa, questa è la vittoria — e questa è la nostra speranza.

Preghiamo. Signore Gesù Cristo, Tu che hai dato la tua vita per noi, e nella croce hai rivelato la vera misura dell’amore, insegnaci a non temere di perderci per Te. Tu conosci quanto forte è in noi l’istinto di conservare, di difendere, di trattenere: ma Tu solo puoi liberarci da questa paura che ci imprigiona. Rendici disposti a seguire le tue orme, a non vergognarci di Te e delle Tue parole in mezzo a una generazione che troppo spesso chiama bene il male e male il bene. Donaci il coraggio di vivere diversamente, di non cercare il nostro vantaggio ma la Tua gloria, di non temere il giudizio degli altri ma di desiderare il Tuo sguardo approvante. Ravviva in noi lo spirito del ravvedimento: che ci allontani dall’orgoglio, dall’amore di questo mondo, e ci riporti all’umiltà e alla fiducia dei figli. Fa’ che comprendiamo che solo chi si arrende al Tuo amore trova la vera libertà, solo chi si dona senza riserve scopre la vita che non muore. Signore, insegnaci a perdere bene — a perdere ciò che non serve per guadagnare ciò che è eterno, a perdere per amore, per trovare in Te la nostra gioia. E quando la Tua gloria si rivelerà, fa’ che Tu non Ti vergogni di noi, ma ci riconosca come Tuoi. Nel Tuo nome, o Cristo crocifisso e risorto, affidiamo a Te le nostre vite, e Ti preghiamo: rendici veri discepoli del Tuo Evangelo. Amen.

Paolo Castellina, 9 ottobre 2025

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