Preghiera/Meditazioni quotidiane Proverbi/Giugno

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Meditazioni quotidiane basate sul libro di Proverbi

1 Giugno

"Un cuore allegro è un buon rimedio, ma uno spirito abbattuto fiacca le ossa" (Proverbi 17:22).

Questo proverbio illumina il legame profondo tra la condizione interiore e la salute complessiva della persona. Un cuore allegro — cioè sereno, fiducioso, grato — è paragonato a un rimedio salutare, capace di dare vigore e guarigione. La gioia qui non è superficialità o frivolezza, ma la letizia profonda che nasce dalla fiducia nel Signore e dalla pace della coscienza. Nel pensiero biblico, la vera gioia è frutto dello Spirito (Galati 5:22) ed è radicata non nelle circostanze favorevoli, ma nella comunione con Dio. Per questo può coesistere con la prova: “Siate sempre lieti nel Signore” (Filippesi 4:4).

In netto contrasto, uno spirito abbattuto fiacca le ossa. Il linguaggio è corporeo e vivido: lo scoraggiamento prolungato, la tristezza senza speranza, debilitano anche fisicamente. L’anima afflitta può influire sulla salute e sull’energia vitale, come mostra anche l’esperienza dei salmisti: “Finché ho taciuto, le mie ossa si consumavano fra i gemiti che facevo tutto il giorno” (Salmo 32:3). Il proverbio, dunque, non riduce il problema a una questione psicologica, ma mostra che l’interiorità umana è al centro della vita spirituale, emotiva e fisica.

Questa connessione tra spirito e corpo non significa che noi si possa salvarci attraverso un atteggiamento positivo, ma ci ricorda che la redenzione in Cristo tocca tutta la persona. In Cristo abbiamo motivo di vera gioia, anche nella sofferenza. Egli stesso ha detto ai suoi: “Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia dimori in voi e la vostra gioia sia completa” (Giovanni 15:11). È una gioia che nasce dalla grazia, dalla certezza del perdono, dalla presenza dello Spirito Santo, e dalla speranza della gloria futura.

Il messaggio è chiaro: coltivare un cuore allegro — mediante la gratitudine, la fede e la contemplazione della bontà di Dio — non è un lusso, ma una medicina per l’anima e per il corpo. La tristezza non è peccato in sé, ma quando diventa disperazione e sfiducia, ci allontana dalla fonte della vita. Rallegrarsi nel Signore, anche nel pianto, è una disciplina spirituale e un dono da chiedere.

Preghiera. Padre di ogni consolazione, tu che conosci le nostre angosce e le nostre gioie, donaci un cuore che sappia rallegrarsi in te. Quando lo spirito si abbatte, rialzaci con la tua parola vivente. Fa’ che possiamo gustare la letizia della tua presenza anche nei giorni difficili. Insegnaci a coltivare la gioia come rimedio del cuore, e a riconoscere in Cristo la nostra fonte di vita. In Lui, che ha portato il nostro dolore per darci la sua pace, preghiamo. Amen.


2 Giugno

"L'empio accetta regali di nascosto per pervertire le vie della giustizia. La sapienza sta davanti a chi ha intelligenza, ma gli occhi dello stolto vagano agli estremi confini della terra. Il figlio stolto è il dolore del padre e l'amarezza di colei che lo ha partorito" (Proverbi 17:23-25).

Il v. 23 denuncia con forza la corruzione, espressa qui nella figura dell’empio che accetta regali di nascosto con lo scopo di pervertire la giustizia. Il concetto è chiaro: la giustizia, fondata sulla verità e sull’equità, viene violata quando è manipolata da interessi personali. Questo principio, che attraversa tutta la Scrittura, si colloca al cuore della legge mosaica (Esodo 23:8; Deuteronomio 16:19) e trova piena continuità nel Nuovo Testamento, dove l’apostolo Paolo esorta Timoteo a non agire con favoritismi (1 Timoteo 5:21). La giustizia venduta è un’ingiuria non solo verso gli esseri umani, ma verso Dio stesso, che è giusto giudice.

Il v. 24 pone in contrasto la persona saggia e quella stolta. La sapienza sta davanti a chi ha intelligenza significa che la persona che teme Dio ha uno sguardo diretto, realistico, centrato. Il cuore saggio non ha bisogno di cercare la verità lontano, perché l’ha riconosciuta vicino, nella Parola di Dio. Lo stolto, invece, è descritto come instabile e dispersivo: i suoi occhi vagano agli estremi confini della terra. Egli cerca risposte altrove, fuori dal timore del Signore, e si perde in infinite possibilità senza mai arrivare alla verità. È un'immagine che anticipa le parole di Paolo: "Essi sempre imparano e non possono mai giungere alla conoscenza della verità" (2 Timoteo 3:7).

Nel v. 25 ritorna il tema familiare del dolore che la stoltezza infligge ai genitori. Il figlio stolto — non semplicemente immaturo, ma moralmente deviato — diventa dolore del padre e amarezza della madre. Il testo riconosce con realismo le conseguenze relazionali della follia morale: essa non è mai neutra, ma colpisce profondamente chi ama. È un richiamo alla responsabilità intergenerazionale, e insieme un invito alla preghiera e alla speranza per i genitori provati. Anche Dio prova questo stesso dolore davanti al popolo ribelle (cf. Osea 11:1–4): l’amore del Padre resta, anche quando il cuore del figlio si allontana.

Nel loro insieme, questi versetti tracciano il profilo di una stoltezza che è non solo individuale, ma sociale, familiare, sistemica. La Riforma ha sottolineato la profondità del peccato e la necessità di una grazia sovrana per redimere cuori, relazioni e istituzioni. Solo la sapienza di Dio, manifestata in Cristo (1 Corinzi 1:24), può redimere l’ingiustizia, trasformare gli stolti e consolare i cuori feriti.

Preghiera. Dio giusto e fedele, liberaci dalla tentazione della corruzione e dalla complicità con l’ingiustizia. Donaci occhi fermi sulla tua sapienza e non vaganti dietro alle illusioni del mondo. Consola i genitori afflitti per i figli smarriti, e richiama alla tua verità chi si è allontanato. Fa’ che in ogni cosa il tuo Spirito ci guidi nella retta via, per la gloria del tuo nome. Per Cristo, nostra giustizia e nostra speranza. Amen.


3 Giugno

"Non è bene condannare il giusto, fosse anche a un'ammenda, né colpire i prìncipi per la loro onestà. Chi modera le sue parole possiede la scienza e chi ha lo spirito calmo è un uomo prudente. Anche lo stolto, quando tace, passa per saggio; chi tiene chiuse le labbra è un uomo intelligente" (Proverbi 17:26-28).

Il v. 26 afferma con decisione l’inviolabilità della giustizia: non è bene condannare il giusto, fosse anche a un’ammenda. Anche una minima sanzione inflitta ingiustamente a chi è integro è un atto perverso, che viola l’ordine stabilito da Dio. Ugualmente, colpire i prìncipi per la loro onestà — ossia punire chi esercita fedelmente il proprio ruolo — è un’ingiustizia doppia, perché scoraggia la rettitudine e premia la malizia. Nella Scrittura, il giusto è sotto la protezione di Dio (cf. Salmo 37:28), e chi si fa strumento di oppressione si oppone al Signore stesso. Il Nuovo Testamento ribadisce questa verità in Romani 13, dove le autorità sono chiamate a premiare il bene e punire il male, non il contrario.

Il v. 27 passa dal piano giuridico a quello personale: chi modera le sue parole possiede la scienza, e chi ha lo spirito calmo è un uomo prudente. La padronanza della lingua è segno di sapienza. Chi sa tacere, pesare le parole, parlare con misura e discernimento, dimostra di avere dominio di sé e profondità d’animo. Questa è una virtù rara, ma essenziale per ogni credente. Il Nuovo Testamento insiste su questo punto: “Siate pronti ad ascoltare, lenti a parlare, lenti all’ira” (Giacomo 1:19). In un’epoca rumorosa e reattiva, il silenzio sapiente è una testimonianza controculturale.

Il v. 28, con fine ironia, conclude che anche lo stolto, quando tace, passa per saggio. Il proverbio non esalta l’ipocrisia, ma sottolinea che il silenzio può evitare molti errori e disonori. Non parlare può non essere segno di sapienza reale, ma può almeno evitarne la manifesta mancanza. Questo principio — antico e sempre attuale — mette in guardia dal parlare impulsivo e ci invita a riflettere prima di esprimerci. La prospettiva riformata sul messaggio biblico, nel richiamare il governo sovrano di Dio su ogni parola e pensiero, ci incoraggia a vivere in sobrietà anche nel linguaggio, come frutto della santificazione operata dallo Spirito.

Nel complesso, questi versetti ci spingono a riconoscere che giustizia e moderazione, integrità e prudenza, sono tratti inseparabili della persona saggia. Solo chi è stato ammaestrato dal timore di Dio, e trasformato dalla grazia di Cristo, può davvero custodire la bocca e onorare la verità in ogni circostanza.

Preghiera. Dio di giustizia e di pace, liberaci dalla tentazione di pervertire il diritto e di usare le parole senza discernimento. Fa’ che amiamo la verità, sosteniamo chi è onesto e impariamo il silenzio che nasce dalla sapienza. Forma in noi cuori calmi e bocche misurate, per essere strumenti di pace nel mondo. Te lo chiediamo nel nome di Gesù, Sapienza incarnata e nostro Giudice giusto. Amen.


4 Giugno

"Chi si separa dagli altri cerca la propria soddisfazione e si arrabbia contro tutto ciò che è giusto. Lo stolto prende piacere, non nella prudenza, ma soltanto nel manifestare ciò che ha nel cuore. Quando viene l'empio, viene anche il disprezzo e, con la vergogna, viene il disonore" (Proverbi 18:1-3).

Il v. 1 ci mette in guardia contro un individualismo arrogante e autodistruttivo: “Chi si separa dagli altri cerca la propria soddisfazione”. Non si tratta del sano ritiro per meditare o pregare, ma di una rottura volontaria con la comunità e con il consiglio sapiente. Questo isolamento nasce da un desiderio egoistico, da un rifiuto di sottomettersi a una verità comune e condivisa. Invece di cercare la giustizia e la verità, si arrabbia contro tutto ciò che è giusto. È l’atteggiamento dell’uomo che rifiuta il consiglio di Dio e degli altri, un segno della ribellione del cuore. Il Nuovo Testamento mette in guardia da questo spirito settario: “Non abbandoniamo la nostra comune adunanza” (Ebrei 10:25).

Il v. 2 approfondisce il ritratto dello stolto, il quale “non prende piacere nella prudenza, ma soltanto nel manifestare ciò che ha nel cuore”. L’insensato è innamorato della propria opinione. Non ascolta, non cerca sapienza, ma vuole solo sfogare il proprio pensiero. Questa è una forma di narcisismo spirituale, in cui parlare vale più che comprendere. Contrapposto a ciò, lo Spirito di Dio forma cuori docili, che amano la verità più della propria voce. Il Signore Gesù ci ha insegnato che “dalle molte parole non si evita il peccato” (Matteo 12:36-37) e che è beato chi ha fame e sete della giustizia, non della propria espressione.

Il v. 3 presenta una dinamica inevitabile: “Quando viene l’empio, viene anche il disprezzo, e con la vergogna viene il disonore”. L’empio — colui che vive senza timore di Dio — porta con sé un’atmosfera di disprezzo per ciò che è santo. Dove si diffonde la malvagità, la vergogna e l’onore vengono sovvertiti. È un avvertimento non solo morale ma anche sociale: tollerare l’empietà conduce alla rovina dell’ordine giusto e al discredito delle cose buone. Questa sequenza è visibile ovunque il peccato venga celebrato e la verità ridicolizzata. Ma la Chiesa è chiamata a testimoniare contro tale spirito, proclamando Cristo come colui che ha portato su di sé la nostra vergogna per ridonarci onore (Ebrei 12:2).

Nel loro insieme, questi versetti denunciano una mentalità orgogliosa e autosufficiente, che rifiuta la comunione, il consiglio e la verità. È un richiamo potente a vivere nella sottomissione reciproca, nell’ascolto e nella vigilanza morale. La vera soddisfazione non si trova nell’isolamento, ma nella comunione dei santi e nella sapienza che viene dall’alto.

Preghiera. Signore nostro Dio, preservaci dall’orgoglio che ci isola e ci indurisce. Dacci un cuore che ama la comunione, che ascolta i tuoi consigli, e che non si compiace della propria voce, ma della tua verità. Allontana da noi lo spirito del disprezzo e rivestici dell’onore che viene da Cristo. Fa’ che siamo umili, pronti a imparare e a edificare, per camminare nella luce della tua giustizia. Nel nome di Gesù, nostra Sapienza e nostra guida. Amen.


5 Giugno

"Le parole della bocca di un uomo sono acque profonde; la fonte di sapienza è un ruscello che scorre perenne" (Proverbi 18:4).

Questo proverbio presenta un contrasto tra due tipi di parola: da un lato, “le parole della bocca di un uomo” descritte come “acque profonde”; dall’altro, “la fonte di sapienza” che è “un ruscello che scorre perenne”. Le “acque profonde” evocano mistero e ambiguità: possono essere sorgenti di vita, ma anche nascondere pericoli. Le parole umane, per quanto elaborate o suggestive, non sono sempre limpide: possono essere difficili da decifrare, doppie, o persino ingannevoli. In Geremia 17:9 leggiamo: “Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa” — e dalle profondità del cuore sgorgano le parole (cf. Matteo 12:34).

A confronto, la fonte di sapienza è come un ruscello che scorre perenne: limpido, costante, vitale. Qui il testo ebraico sembra indicare una sorgente che, anziché celare, irriga e disseta. È l’immagine della sapienza divina, che non è oscura né mutevole, ma chiara e benefica, come quella che Dio dona a chi lo teme (cf. Proverbi 1:7). Nel Nuovo Testamento, Gesù promette: “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete... diventerà in lui una fonte d’acqua che scaturisce in vita eterna” (Giovanni 4:14). La vera sapienza dunque non nasce semplicemente dall’intelligenza umana, ma dal rinnovamento operato dallo Spirito Santo.

Il proverbio ci invita quindi a discernere tra parole che appaiono profonde ma non nutrono, e la sapienza che, come ruscello vivo, dona luce e vigore. L’uomo e la donna rigenerati da Dio non parlano per impressionare, ma per edificare. Le loro parole, imbevute della Parola eterna, hanno un effetto benefico su chi le ascolta: “La vostra parola sia sempre con grazia, condita con sale” (Colossesi 4:6).

Ogni bene spirituale, compresa la sapienza, viene unicamente da Dio. Non possiamo produrla da noi stessi, ma dobbiamo riceverla come dono del cielo, meditando costantemente la Scrittura, che è la vera fonte della conoscenza salutare.

Preghiera. O Dio eterno, sorgente di ogni vera sapienza, donaci parole che dissetano, pensieri che edificano e silenzi che parlano di Te. Allontanaci dall’apparenza della profondità e immergici nella chiarezza della tua verità. Fa’ che le nostre bocche non riflettano solo l’umano, ma il divino che opera in noi per mezzo di Cristo, Parola incarnata e nostra fonte di vita eterna. Amen.


6 Giugno

"Non è bene avere dei riguardi personali per l'empio, per fare torto al giusto nel giudizio. Le labbra dello stolto causano liti, e la sua bocca attira percosse. La bocca dello stolto è la sua rovina, e le sue labbra sono un laccio per la sua anima. Le parole del maldicente sono come ghiottonerie, e penetrano fino nell'intimo delle viscere" (Proverbi 18:5-8).

Questo breve gruppo di versetti presenta, nella sua unità tematica, due grandi aree della vita morale e spirituale: da un lato, la giustizia nel giudizio (v. 5), dall’altro l’uso della parola (vv. 6–8). Le due realtà sono connesse, perché nella sapienza biblica la parola non è mai neutra, né secondaria: essa crea, divide, giudica, consola, inganna o salva. Chi parla male agisce male; chi giudica con parzialità, tradisce Dio stesso.

Il versetto 5 afferma con chiarezza che non è bene avere riguardi personali verso l’empio, ossia mostrare favoritismo a chi è colpevole, facendo torto al giusto nel giudizio. È un principio di etica pubblica e privata: non si devono proteggere i potenti, i corrotti, i violenti, a danno di chi è giusto. Questa è un’offesa diretta a Dio, che si definisce «difensore dell’orfano e della vedova», ovvero di chi è più facilmente vittima dell’ingiustizia. Oggi, questo principio interpella i sistemi giudiziari, ma anche le dinamiche delle nostre comunità: ogni volta che si prende posizione per interesse, amicizia o convenienza contro la verità e contro le persone giuste, si perverte il giudizio. E Dio lo vede.

I versetti successivi offrono una descrizione progressiva dello stolto. La sua stoltezza non è mera ignoranza intellettuale, ma cecità etica, disordine interiore. Chi è stolto, dice il testo, parla senza discernimento, e il suo parlare causa liti (v. 6a), persino la sua rovina (v. 7). La sua stessa bocca è come un laccio: si intrappola con le sue stesse parole. Non sa tacere, né frenarsi, né ponderare il peso di ciò che dice. Quante volte una persona ha distrutto relazioni, occasioni, comunità con una parola incauta, un giudizio frettoloso, una frase colma d’ira!

Il proverbio culmina (v. 8) in una severa denuncia contro la maldicenza. La parola usata indica letteralmente colui che mormora o sussurra alle spalle. Il maldicente non colpisce apertamente, ma agisce come veleno sottile, infettando lentamente. Le sue parole sembrano «ghiottonerie» – cioè dolci, appetibili – ma penetrano fino in fondo: seducono l’ascoltatore, lo coinvolgono, lo avvelenano. Questo è un fenomeno tragicamente comune: si ascoltano con piacere pettegolezzi, critiche, insinuazioni, e si sottovaluta il danno spirituale che provocano. La maldicenza distrugge la fiducia, diffonde paura, isola le persone, disonora il corpo di Cristo.

Questo passo ci richiama quindi a una doppia vigilanza: sul cuore e sulla lingua. Non c'è giustizia senza verità e non c'è santità senza padronanza della parola. Lo Spirito Santo non ispira la maldicenza, ma la verità detta con amore. Chi parla da saggio, come altrove afferma il libro, è fonte di vita; ma chi usa la lingua per ingannare o dividere, è alleato della morte (cfr. Giacomo 3:5–10).

Che ogni nostra parola sia «condita con grazia» (Colossesi 4:6) e ogni nostro giudizio illuminato dalla giustizia di Dio.

Preghiera: Signore, Dio giusto e veritiero, che scruti i cuori e pesi le parole, insegnaci a rifiutare ogni parzialità e ogni ingiustizia. Donaci occhi limpidi per riconoscere il giusto, e il coraggio di non favorire mai l’empio, neppure quando ci è vicino, amico o potente. Purifica le nostre labbra, perché non siano strumenti di contesa, ma canali di pace, di saggezza, di edificazione. Difendici dal fascino della maldicenza: fa’ che non ci compiaciamo nel giudicare, ma che impariamo a coprire gli sbagli con amore, e a cercare il bene di chi ci sta intorno. Donaci, o Padre, il cuore del saggio, che parla con prudenza e ascolta con umiltà; donaci la forza di tacere quando le parole feriscono, e la grazia di parlare quando la verità libera. Rendici simili a Cristo, la tua Parola vivente, che ha pronunciato solo ciò che veniva da Te, che ha difeso i deboli, e smascherato l’ipocrisia, che ha taciuto davanti agli accusatori, e ha pregato per chi lo condannava. Amen.


7 giugno

"Anche colui che è pigro nel suo lavoro è fratello del dissipatore" (Proverbi 18:9).

Meditazione su Proverbi 18.9

Il libro dei Proverbi ci offre spesso contrasti netti e affermazioni incisive, ma in questo versetto troviamo un’accusa indiretta quanto sorprendente: il pigro e il dissipatore – pur nella diversità delle loro azioni – appartengono alla stessa famiglia morale. Il primo non fa nulla, l’altro spreca tutto. Entrambi però contribuiscono alla distruzione: uno per omissione, l’altro per eccesso. La pigrizia non è solo un difetto personale, ma una mancanza di responsabilità verso il bene comune, un lento sgretolamento dell’ordine e del frutto che Dio ci ha chiamati a coltivare.

Nel Nuovo Testamento, l’apostolo Paolo ammonisce con chiarezza: "Se qualcuno non vuole lavorare, neppure deve mangiare" (2 Tessalonicesi 3:10). E altrove esorta: "Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini" (Colossesi 3:23). Non c'è dunque separazione tra vita spirituale e lavoro quotidiano: anche il mestiere più semplice o faticoso, se fatto con integrità e zelo, diventa offerta gradita a Dio. L’etica protestante ha sempre considerato il lavoro come vocazione (Beruf), cioè chiamata divina a servire Dio attraverso il servizio concreto al prossimo.

Non si tratta solo di evitare la pigrizia, ma di abbracciare con cuore riconoscente il compito affidatoci, grande o piccolo che sia. Colui che trascura il proprio lavoro non danneggia solo sé stesso, ma può recare danno a molti altri. In questo senso, egli è “fratello del dissipatore”: entrambi mancano di responsabilità verso ciò che Dio ha affidato loro. La diligenza nel lavoro è una forma di amore, un segno di fedeltà al mandato ricevuto nel giardino dell’Eden: "Coltivalo e custodiscilo."

Ogni vocazione – dalla cura della casa all’insegnamento, dall’agricoltura alla programmazione informatica – può glorificare Dio se vissuta con dedizione, onestà e spirito di servizio. Non conta la visibilità del lavoro, ma la fedeltà a chi ce lo ha affidato. Il nostro lavoro è un terreno sacro, e la pigrizia lo profana quanto la superficialità o l'avidità.

Preghiera. Signore Dio nostro, tu che hai dato ad Adamo il compito di coltivare il giardino, insegnaci a vedere nel lavoro quotidiano la tua chiamata. Allontana da noi lo spirito pigro e l’indifferenza, e donaci la gioia di servirti anche nelle cose semplici. Fa’ che ogni nostra opera sia compiuta con cura, non per apparire, ma per onorarti. Salvaci dalla tentazione di trascurare il dovere, e ricordaci che anche chi non spreca nulla può ancora distruggere, se manca di zelo e responsabilità. Dacci, o Padre, mani diligenti, cuori riconoscenti e la consapevolezza che ogni cosa fatta per amore ha valore eterno davanti a te. Nel nome di Gesù, il fedele servitore, che ha compiuto l’opera che gli avevi affidato, Amen.

Immagine e audio in: https://sfero.me/podcast/impegnarci-qualsiasi-lavoro-gloria-dio


8 Giugno

"Il nome dell'Eterno è una forte torre; il giusto vi corre e vi trova un alto rifugio" (Proverbi 18:10).

Nel linguaggio biblico, il nome non è una semplice etichetta, ma esprime la realtà profonda della persona. Conoscere il nome di Dio significa conoscere il suo carattere, le sue promesse, la sua volontà e la sua fedeltà. Per questo motivo, invocare il nome dell’Eterno equivale a rivolgersi a Lui stesso, con fiducia e timore reverente. Il nome di Dio è rivelazione e presenza: racchiude la sua potenza salvifica, la sua giustizia, la sua misericordia e la sua santità.

L’immagine della forte torre era facilmente comprensibile nel mondo antico: le torri elevate e fortificate erano rifugi sicuri durante gli assedi, punti strategici da cui ci si difendeva e si manteneva il controllo. Dire che il nome dell’Eterno è una torre significa affermare che Dio stesso è per il giusto un rifugio inespugnabile, un luogo sicuro contro ogni minaccia, visibile o invisibile. È un’immagine di protezione, ma anche di elevazione: chi vi si rifugia è "in alto", sopra il caos, al riparo dal male.

Il giusto, cioè colui che cammina nella via del Signore, vi corre – non cammina lentamente, non indugia. La sua reazione è immediata, come quella di chi sa dove trovare salvezza senza esitazione. Egli ha imparato per esperienza che solo Dio è degno di fiducia. Non cerca rifugio nella propria forza, nei beni, nella posizione sociale, ma corre al nome del Signore, invoca la sua presenza e si appoggia interamente alla sua fedeltà.

In un mondo che esalta l’autosufficienza, Proverbi 18:10 ci ricorda che la vera sicurezza non è nel nostro controllo delle situazioni, ma nel carattere immutabile di Dio. Quando tutto vacilla, il credente ha una torre: alta, stabile, eterna. Chi confida nel nome dell’Eterno non è abbandonato, anche quando ogni altro sostegno viene meno. Per fede, troviamo in Dio non solo riparo, ma anche ristoro, speranza e pace.

Preghiera. O Signore, tu sei per noi torre elevata e rifugio sicuro, il tuo nome è santo, potente e misericordioso. Noi ti benediciamo, perché ci permetti di invocarti e trovarti, non secondo i nostri meriti, ma per la tua grazia. Quando il pericolo ci circonda, insegnaci a correre a te. Quando il cuore è smarrito, ricordaci il tuo nome: «Io sono colui che sono» – sempre presente, sempre fedele. Non ci rifugeremo nel nostro sapere o nelle nostre ricchezze, ma nel tuo amore che non delude. Sii tu oggi la nostra torre, e donaci la gioia di vivere sotto la tua protezione, sicuri che nulla può separarci dal tuo amore in Cristo Gesù. Amen.


9 Giugno

"I beni del ricco sono la sua città forte; sono come un'alta muraglia, nella sua immaginazione. Prima della rovina, il cuore dell'uomo s'innalza, ma l'umiltà precede la gloria" (Proverbi 18:11-12).

Questi due versetti sono strettamente legati e pongono in contrasto l’illusione della sicurezza materiale con la realtà della condizione spirituale del cuore umano. Il ricco immagina che i suoi beni costituiscano per lui una città forte, una muraglia alta, capace di proteggerlo da ogni male. È interessante notare l’espressione nella sua immaginazione: si tratta di una costruzione mentale, non di una sicurezza reale. Le ricchezze possono certamente offrire vantaggi temporanei, ma non possono salvare l’anima, né garantire protezione dalla sofferenza, dalla morte o dal giudizio di Dio.

L’autosufficienza economica tende facilmente a tradursi in orgoglio spirituale. Si pensa di essere al sicuro, al di sopra degli altri, invulnerabili. Ed è proprio qui che si inserisce il monito del versetto successivo: "Prima della rovina, il cuore della persona s’innalza". L’orgoglio precede la caduta. L’antica sapienza biblica, confermata da innumerevoli esempi nella storia, ci insegna che l’arroganza, l’autocompiacimento e la presunzione sono sintomi di un cuore malato, pronto a precipitare.

Ma in contrapposizione a questa parabola discendente, c’è un principio spirituale opposto e redentivo: "l’umiltà precede la gloria". Non si tratta qui della gloria mondana, effimera, ma della gloria secondo Dio – quella che viene da una vita retta, da una relazione giusta con Lui, da un cuore contrito e consapevole della propria fragilità. Solo chi riconosce di non essere autosufficiente può essere rivestito della vera gloria che viene dall’alto. Solo l’umile può essere innalzato.

Cristo stesso ha vissuto questo paradosso: *"spogliò sé stesso", divenne servo, *fu umiliato fino alla croce, e proprio per questo Dio lo ha sovranamente innalzato (cfr. Filippesi 2:5–11). La croce precede la risurrezione, l’umiliazione precede l’esaltazione. Il discepolo non è sopra il suo maestro: anche noi siamo chiamati a rinunciare alla fiducia nei nostri beni, nella nostra posizione o nei nostri meriti, per camminare con umiltà davanti a Dio.

Preghiera: Signore nostro Dio, tu conosci i pensieri nascosti del cuore umano, e vedi quanto facilmente ci rifugiamo nell’illusione della sicurezza materiale. Insegnaci a non confidare nei beni, né nel nostro status, ma solo in te, nostra vera roccaforte e salvezza. Preservaci dall’orgoglio che precede la rovina, donaci invece l’umiltà che tu ami e onori. Fa’ che il nostro cuore si abbassi davanti a te, perché tu possa innalzarlo a tuo tempo, secondo la tua grazia. Vogliamo seguirti nel cammino dell’umiltà, guardando a Cristo, nostro esempio perfetto. E quando saremo tentati di fidarci di noi stessi, ricordaci che senza di te non possiamo nulla. Nel nome di Gesù, nostro Signore e Salvatore, Amen.


10 Giugno