Predicazioni/Giudici/In quel tempo ognuno faceva ciò che gli pareva meglio
In quel tempo ognuno faceva ciò che gli pareva meglio
Il versetto di Giudici 17:6 — “In quel tempo non c'era re in Israele; ognuno faceva ciò che gli pareva meglio” — è stato spesso letto come una condanna dell’anarchia morale e una giustificazione implicita della monarchia (o comunque di una centralizzazione del potere da porsi meglio nelle mani di una classe dirigente “saggia e illuminata” contrapponendola alla “incompetenza” del popolo a governarsi e che causerebbe solo “caos”). Secondo questa interpretazione, decisamente “ideologica”, l’assenza di un re causerebbe disordine, e la monarchia (in particolare, nel contesto, quella davidica) apparirebbe come il rimedio necessario. Tuttavia, una lettura più attenta e coerente con l’insieme del testo biblico solleva serie riserve su questa interpretazione tradizionale.
Anzitutto, in 1 Samuele 8, il profeta denuncia esplicitamente la richiesta di un re come rifiuto della sovranità di Dio: “Da' ascolto alla voce del popolo in tutto quello che ti dirà, poiché essi hanno respinto non te, ma me, perché io non regni su di loro” (v. 7). La monarchia, inoltre è concessa da Dio, ma solo con riluttanza, e accompagnata da un’amara previsione: il re opprimerà il popolo, ne farà dei servi, lo condurrà alla rovina (1 Samuele 8:11–18). Si tratta quindi di un permesso concesso per la durezza del cuore ostile a Dio, non tanto ad un’istituzione di “diritto divino”.
In secondo luogo, la frase «ognuno faceva ciò che gli pareva meglio» (ish hayashar be‘eynaw) non equivale a “faceva il male”. Il testo non denuncia esplicitamente la malvagità morale, ma l’assenza di un’autorità centrale. Questa ambiguità lascia spazio a interpretazioni diverse: potrebbe trattarsi sì di disordine, ma anche di una forma di libertà delle tribù del popolo di Dio, regolata non da una monarchia, bensì dal patto con Dio e dalla responsabilità personale. Il problema, più che l’assenza di un re, è l’infedeltà all’alleanza.
Infine, il libro dei Giudici, nel suo insieme, presenta una visione critica e sfumata del potere: i giudici sono carismatici, spesso ambigui; il popolo alterna obbedienza e ribellione; l’ordine politico non è mai idealizzato. Quando la monarchia arriverà, essa stessa mostrerà gravi limiti, come i libri di Samuele e dei Re non esitano a raccontare.
In conclusione, Giudici 17:6 non va letto come un appello alla monarchia (o oligarchia, che dir si voglia), ma come una riflessione aperta sulla crisi dell’obbedienza a Dio in assenza di una guida visibile (che non necessariamente “risolve la questione). Il rimedio non è necessariamente un re, ma il ritorno alla fedeltà al Signore. In questo, la voce del profeta Samuele resta fondamentale per orientare una lettura più profonda e coerente con il messaggio profetico e teologico dell’Antico Testamento.
Dettagliatamente
L’affermazione «In quel tempo non c’era re in Israele; ognuno faceva ciò che gli pareva meglio» (Giudici 17:6; ripetuta in forma simile in 18:1; 19:1; 21:25) è generalmente interpretata in senso negativo, sia nel contesto immediato del libro dei Giudici sia secondo la maggior parte della tradizione esegetica, antica e moderna.
1. Contesto letterario e narrativo
Il libro dei Giudici si struttura in due parti principali:
- Giudici 1–16: racconta le imprese dei vari giudici in un crescendo di anarchia, idolatria e fallimento morale.
- Giudici 17–21: costituisce un’appendice narrativa con due episodi emblematici (la storia di Mica e del levita, e la guerra civile contro la tribù di Beniamino), che mostrano la decadenza morale e sociale del popolo.
In questo contesto, la formula ricorrente «non c’era re... ognuno faceva ciò che gli pareva meglio» non celebra l’autonomia individuale, ma segnala un vuoto di autorità e il disordine che ne consegue.
2. Esposizione dei maggiori commentatori
a) Commentari storici ebraici
- Talmud e Midrash: leggono questi versetti come evidenze della necessità di una guida centrale e giusta. Non si idealizza l’anarchia, ma si sottolinea il bisogno di una retta leadership (umana o divina).
b) Commentatori cristiani classici
- Giovanni Calvino (Commentario su Giudici): vede in questi versetti un esempio della «corruzione che segue all’assenza di leggi ben applicate». Il giudizio è chiaramente negativo.
- Matthew Henry: sottolinea che l’espressione indica «un tempo di confusione e disordine»; il popolo vive senza timore di Dio e senza rispetto per l’autorità, civile o divina.
c) Esegesi moderna
- Barry G. Webb (in The Book of Judges, NICOT): interpreta la frase come un’ironica denuncia dell’autonomia autodistruttiva del popolo. Webb sottolinea che non si tratta di un elogio alla libertà individuale, ma di una diagnosi di caos spirituale e sociale.
- Daniel I. Block (in Judges, Ruth – NAC): argomenta che l'autore deuteronomista sta preparando il lettore all’istituzione della monarchia (in particolare di Davide), mostrando quanto sia stato tragico il tempo senza un re fedele a Dio.
3. Dimensione teologica
Il «non c’era re» non è solo una constatazione politica, ma anche teologica: Dio stesso non è riconosciuto come Re. Il popolo non obbedisce né a un’autorità umana né a quella divina (si veda anche Deuteronomio 12:8, che usa un’espressione simile ma in riferimento alla necessità di centralizzare il culto a Gerusalemme).
La frase è, per la grande maggioranza dei commentatori, una critica velata o esplicita allo stato dell’Israele tribale senza guida, preludio implicito alla giustificazione della monarchia davidica. Essa denuncia la degenerazione che nasce quando ognuno è legge a sé stesso, senza riferimento all’autorità di Dio né a un ordine condiviso.
Le introspezioni di Jacques Ellul
Per meglio comprendere questa questione, ci può venire in aiuto Jacques Ellul, nel suo pensiero sulla “anarchia cristiana”. Egli offre effettivamente una lettura alternativa di testi come Giudici 17:6. Secondo il suo pensiero, l’affermazione «ognuno faceva ciò che gli pareva meglio» può assumere un significato positivo o almeno ambivalente, in netta dissonanza con la lettura tradizionale.
1. La “anarchia cristiana” secondo Ellul
Ellul, soprattutto in opere come Anarchie et christianisme (1988), afferma che:
- L’unico vero sovrano del cristiano è Dio.
- Ogni potere umano, anche quello monarchico o statale, è tentazione idolatrica e rischio di perversione (cf. 1Samuele 8).
- La fede cristiana, radicalmente centrata sul Vangelo, è antistituzionale, anticlericale e anti-autoritativa, nella misura in cui difende la libertà dell’uomo redento.
In quest’ottica, la “anarchia” non è sinonimo di caos, ma di rifiuto dell’imposizione coercitiva dell’autorità umana, in favore di una relazione diretta tra Dio e l’individuo.
2. Rilettura di Giudici 17:6
Ellul non fa una lunga esegesi di questo versetto in particolare, ma in coerenza con il suo pensiero possiamo dedurre:
- “Non c’era re in Israele”: non è visto necessariamente come un male. Anzi, Ellul avrebbe ricordato che Dio era il Re, e che la richiesta di un re umano in 1Samuele 8 è una ribellione contro Dio.
- “Ognuno faceva ciò che gli pareva meglio”: in una prospettiva teocratica e profetica, ciò potrebbe significare una libertà responsabile di agire secondo coscienza, illuminata dalla Legge e dalla Parola, senza la mediazione corrotta del potere umano.
Ellul sospetta sempre che dietro la richiesta di ordine e autorità si nasconda il desiderio di controllo e dominio, non giustizia.
3. Critica a letture tradizionali
L’interpretazione classica, che vede in Giudici 17:6 una giustificazione implicita della monarchia, è sospetta per Ellul. Egli considera il progetto monarchico come una degenerazione, un segno della perdita della vera fede nel Dio liberatore.
Il potere, per Ellul, anche quello religioso, tende sempre a congelare il dinamismo della fede, trasformandolo in ideologia e istituzione coercitiva.
4. Sintesi comparativa
Interpretazione tradizionale | Jacques Ellul |
Il versetto denuncia l’anarchia e la corruzione causate dall’assenza di un re. | Il versetto testimonia una fase in cui il popolo viveva senza mediazioni umane, in libertà sotto Dio. |
La frase prepara il lettore all’istituzione della monarchia come rimedio al disordine. | La monarchia è un tradimento della signoria divina, non una soluzione. |
“Fare ciò che pareva meglio” è segno di disobbedienza e individualismo. | “Fare ciò che pareva meglio” può essere libertà di coscienza sotto Dio, in assenza di autoritarismo. |
5. Osservazione finale
Questa lettura di Ellul non è una celebrazione ingenua dell’anarchia come assenza di regole, ma una visione profonda della libertà spirituale del cristiano. Per Ellul, la vera autorità nasce dalla Parola interiore e dallo Spirito, non dalla legge imposta dall’alto di un’autorità umana.
Altri esegeti che sostengono la lettura non tradizionale
Diversi autori contemporanei o moderni — pur non condividendo necessariamente l’ottica radicale di Jacques Ellul — propongono letture non tradizionali di Giudici 17:6, che mettono in dubbio l’idea che il versetto sia una semplice giustificazione della monarchia o una condanna assoluta dell’anarchia. Queste letture sono spesso contestuali, narrative o teologiche, e condividono una certa diffidenza verso l’autorità centralizzata come soluzione ai mali d’Israele.
Ecco alcuni autori significativi:
1. Walter Brueggemann
Brueggemann è uno dei più influenti esegeti e teologi dell’Antico Testamento. In varie opere (es. First and Second Samuel e The Prophetic Imagination), sottolinea che:
- La monarchia non è l’esito positivo della storia di Israele, ma una delle sue contraddizioni principali.
- Giudici 17:6 e i capitoli correlati devono essere letti come critica della disobbedienza all’alleanza, non come denuncia dell’assenza di un re.
- L’ideale biblico non è il potere centralizzato, ma la fede radicale e il patto comunitario sotto Dio.
Brueggemann vede nella richiesta di un re (1Sam 8) un tradimento dell’immaginazione profetica, sostituita da una forma di realpolitik.
2. Barry G. Webb
Nel suo commentario su The Book of Judges (New International Commentary on the Old Testament), Webb mostra una certa apertura a una lettura meno ideologica e più ambigua del versetto:
- Il narratore può anche non desiderare davvero un re, ma piuttosto lamentare l’infedeltà religiosa del popolo.
- L’espressione «ciascuno faceva ciò che era retto ai suoi occhi» può essere una critica della soggettività religiosa, non semplicemente politica.
- La monarchia, quando arriva, non risolve i problemi, ma li trasforma in altro tipo di corruzione (cf. Giudici 19–21 vs 1Samuele).
3. Cheryl Exum
In Tragedy and Biblical Narrative, Exum legge il libro dei Giudici come dramma narrativo, in cui le strutture di potere sono costantemente decostruite. Riguardo a Giudici 17:6:
- Non è tanto la mancanza di re a essere il problema, quanto la mancanza di discernimento spirituale.
- Il ciclo giudici-popolo-dio non mostra un progresso, ma un deterioramento narrativo, dove il rimedio politico (il re) si rivelerà illusorio.
- Il testo è carico di ambiguità deliberata, proprio per spingere il lettore a riflettere sul fallimento umano, non a invocare un potere forte.
4. John Goldingay
In varie sue opere sull’Antico Testamento (tra cui Old Testament Theology), Goldingay propone una visione teologica che valorizza le fasi tribali di Israele:
- Il periodo dei Giudici rappresenta un esperimento imperfetto di governo sotto Dio, ma non è presentato come fallito solo perché manca un re.
- L’autorità istituzionale non è di per sé redentrice: la fedeltà a Dio è sempre il criterio centrale.
- Giudici 17:6 va letto alla luce della tensione continua tra libertà e autorità, non come un semplice passo verso la monarchia.
5. Daniel J. Elazar
Politologo e studioso della Bibbia, Elazar (in Covenant and Polity in Biblical Israel) propone una visione federalista e decentralizzata del governo israelitico:
- Israele pre-monarchico è visto come una confederazione di tribù, unite dal patto e dalla Legge.
- La richiesta di un re è una rottura dell’equilibrio federativo e un passo verso la centralizzazione coercitiva.
- Giudici 17:6 va letto come descrizione della tensione fra libertà e responsabilità, più che come un’apologia del potere regale.
In sintesi
Pur in modi diversi, questi autori:
- Criticano la lettura lineare e apologetica della monarchia come rimedio al caos.
- Sottolineano che la fede e la fedeltà a Dio sono i veri problemi sollevati da Giudici 17:6.
- Leggono la frase “ognuno faceva ciò che gli pareva meglio” non come dissolutezza morale, ma come ambigua testimonianza di libertà in assenza di autorità imposta.