Storia/Storia dei Valdesi/L'esilio

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Ritorno


14. L'esilio

Com'è noto, il 18 ottobre 1685 Luigi XIV revocò l'editto di Nantes e proibì il culto evangelico in tutto il regno di Francia. Per effetto immediato dell'esecuzione di queld ecreto sciagurato, già prima della fine dell'anno vi erano più Chiese Valdesi nelle valli appartenenti alla Francia, cioè in quelle del Deilfinato, del Pragelato e di Perosa. Dalla sola valle di Pragelato non meno di duemila valdesi con tre pastori emigrarono verso la Svizzera, e andarono a costituire un primo nucleo di colonie in Germania. Ma molti e molti profughi, anche da lontane Province della Francia meridionale, affluivano nelle valli del Piemonte. La qual cosa non poteva non dispiacere assai a Luigi XIV, che infatti ripetutamente invitò il Duca di Savoia non soltanto a non accoglere nei suoi Stati nessun protestante francese, ma addirittura ad «approfittare di una così felice opportunità per ricondurre i suoi sudditi alla nostra religione».

Duca di Savoia era Vittorio Amedeo II, giovanissimo, che aveva sposato Anna di Orléans, nipote del Re. Alla pressione che su di chi esercitasse l'imperioso zio e potente monarca, il Duca cercò di resistere per qualche mese, mostrandosi indeciso, anzi riluttante: «I miei predecessori misero più volte le mani a reprimere i Valdesi e ne seguirono gravi disordini». Ma Luigi replicava tenace, ed alle esortazioni finì per aggiungere velate minacce; si decidesse, se aveva cara la sua amicizia e se non voleva che le milizie francesi marciassero da sole contro i Valdesi, annettendone poi le Valli al regno ài Francia, per diritto di conquista.

Allora Vittorio Amedeo II piegò il capo ai cenni di Luigi XIV, come questi aveva ubbidito a suggerimenti di confessori e di cortigiane bigotte. Cedette. Ed il 31 gennaio 1686 emianò un editto, modellato su quello della Revoca ; per esso erano aboliti i privilegi assicurati dai trattati anteriori; dovevano cessare le riunioni, essere distrutti i templi; ed i pastori ed i maesti uscire dagli Stati o entrare nella Chiesa Romana, tempo quindici giorni, se volevano aver salva la vita. Agli altri intimava l'abìura senza discussione né indugio, pena l'esilio e la confisca dei beni; frattanto consegnassero i loro nati al prete per il battesimo, pena la pubblica flagellazione per la madre e la galera per il padre.

Atterriti dall'editto atroce, i Valdesi provarono di mandare a Torino una deputazione, ma né il Duca né i suoi Ministri la vollero ricevere. La notizia commosse tutta quanta l'Europa protestante, e anche questa volta i Cantoni Svizzeri decisero d'inviare subito a Torino alcuni delegati, che intercedessero presso il giovane Duca in favore dei miseri così gravemente minacciati. L'Olanda era in guerra contro la Francia e non poteva quindi intervenire; e quanto all'Inghilterra, vi regnava allora il re cattolico Giacomo II. I rappresentanti della Svizzera giunsero in marzo, e riuscirono a conferire con Vittorio Amedeo, ma lo trovarono poco disposto ad ascoltarli, e ancor meno a parlare: quando parlò fu per dire che il dado era ormai tratto. «Che volete — soggiungeva, lavandosi le mani —sono le ruote grandi che fan muovere le piccole».Avutane licenza, gli ambasciatori svizzeri salirono nelle Valli e, dimostrando ai Valdesi come la situazione fosse quanto mai pericolosa, consigliarono loro con insistenza di abbandonare senza ulteriore indugio la terra natia e di emigrare in Svizzera.

Furono settimane di dolorosissima incertezza, durante le quali si tennero diverse assemblee generali. Dinanzi alla crudele alternativa fra l'esilio e la guerra, si comprende che i Valdesi esitassero alquanto. La maggioranza sembrava rassegnarsi alla emigrazione, ma in Angrogna, Bobbio, San Giovanni e in parte di Torre era prevalente la tendenza a resistere sino alla morte; onde un accordo non potè essere raggiunto.

Frattanto, il Duca di Savoia fece sapere che non intendeva trattare con sudditi armati. Che prima deponessero le armi, poi chiedessero come grazia la libertà di espatriare. Codesta mossa non fece che eccitare vieppiù gli animi, rafforzando il partito della resistenza; e quando il 9 aprile uscì un nuovo editto a confermare quello di gennaio, intimando la consegna immediata delle armi alle autorità e la deportazione in massa di tutta la popolazione valdese, si levò nelle Valli un grido di protesta e di sdegno. Quell'editto parve non solo barbaro, ma insidioso e gli avvenimenti in seguito lo dimostrarono — onde fu respinto in due adunanze tenute a Roccapiatta, nelle quali venne votata la resistenza ad oltranza. Così cessarono i negoziati ed il giorno di Pasqua, 21 aprile, i Valdesi celebrarono solennemente la Comunione, preparandosi alla estrema difesa.

I pastori erano stati tutti contrari alla resistenza, tranne uno che ne fu invece l'anima e che doveva diventare il più grande condottiero che i Valdesi abbiano avuto mai. Si chiamava Enrico Arnaud. Nato in Embrun il 30 settembre 1641 da nobile famiglia protestante, aveva dovuta, ancora giovanetto, passare i confini «per fatto di religione». Fissata la sua dimora a Torre Pellice nel 1656, vi aveva studiato il latino negli anni del terrore, pieni dei ricordi del marchese di Pianezza, dell'eroico Gianavello e del moderatore Léger. S'era poi recato a Basilea e in Olanda, per gli studi superiori, e vuolsi che in quest'ultimo paese entrasse nell'esercito del principe d'Orange, raggiungendo il grado di capitano. Infine, era andato a studiare teologia a Ginevra; di lì aveva fatto ritorno nelle Valli, dove venne consacrato al ministero pastorale nel 1670 (l'anno stesso dellamorte di Léger), e resse successivamente le parrocchie di Massello, del Villar e di Pinasca. Quivi lo troviamo nel 1685, l'anno della Revoca.

Nell'ora del pericolo, Amaud è sulla breccia. Aveva natura di soldato, temperata alquanto dalla vocazione pastorale; era magnanimo, imperioso e non scevro di ambizione. Non ci stupisca pertanto che, quantunque avesse il carico d'una famiglia, egli sorgesse gagliardamente trascinando il popolo a scegliere il partito della più ostinata resistenza. Ma questa, per mancanza di uomini armati e di denaro e sopratutto di unione, non poteva durare a lungo. Il lunedì di Pasqua, 22 aprile, cominciarono le ostilità. I Valdesi potevano fare assegnamento su duemilacinquecento combattenti in tutto, ma purtroppo non riuniti sotto un comando unico. Il Duca Vittorio Amedeo disponeva di sette reggimenti di fanteria, oltre alla cavalleria e all'artiglieria ed a soldatesche di Barge, Bagnolo e Mondovì. V'erano inoltre le milizie francesi — altri sette reggimenti di fanteria e molta cavalleria — agli ordini del generale Catenat. Tutte queste truppe furono passate in rivista a San Secondo, dopo di che mossero all'assalto : quelle ducali — comandate da Gabriele di Savoia, zio del Duca e dal marchese di Pardla —nella Valle di Luserna e di Angrogna ; e quelle francesi nella Valle di Perosa e di San Martino. Arnaud si trovò tra coloro che si distìnsero in un primo combattimento a San Germano dove il Catinat fu respinto. Ma codesto successo non doveva avere alcun effetto sull'andamento della guerra disastrosa: gli abitanti della Valle San Martino, venendo meno al patto d'unione, s'erano arresi subito, sperando di essere trattati con clemenza a motivo della loro sottomissione. Invano! Vennero considerati come ribelli, incarcerati e martoriati alla pari degli altri, e la loro valle non sfuggì alla devastazione. Il 24 aprile i Valdesi, che si difendevano accanitamente in Val d'Angrogna, ebbero il torto di prestar fede ad un biglietto fìlrmato dal co mandante della spedizione, Gabriele di Savoia, il quale prometteva a tutti che sarebbero trattati con clemenza se avessero deposto le armi. «Posare prontamente le armi; rimettersi alla clemenza di S. A. R. Mediante questo si assicurino delle loro vite e quelle delle loro famiglie. Don Gabriele di Savoia, a nome di S. A. R.». Questo biglietto, autentico, fu uno dei più vili tranelli di cui ebbero a soffrire i Valdesi.

Appena disarmati, quei poveri montanari s'accorsero una volta di più che contro di loro eracstimata legittima qualsiasi perfidia: furono incatenati e tratti prigioni a Luserna, mentres ulle praterie della Vaccera, dove erano accampate le loro famiglie, si rinnovarono gli orrori del 1655: stragi, torture, mutilazioni, violenze d'ogni genere contro donne, fanciulli e vegiliardi. Il giorno dopo il Catinat penetra dalla indifesa Valle San Martino nel vallone di Pramollo e fa a Peumian un altro scempio di Valdesi che, anche qui, avevano deposto le armi in seguito alle sue menzognere promesse. E così in quei giorni terribili, mentre la popolazione si arrendeva in massa, continuava su per i monti contro ai renitenti una caccia selvaggia, intesa a snidarli tutti e strapparli per sempre dalle natie vallate. «Si tratta di purgarle interamente — scriveva la Duchessa — e di non lasciarvi un solo abitante» [Lettera a M.me de Lafayette, 4 maggio 1686, ap.Rochas, p. 160]. Come si vede, Anna di Orléans faceva onore a suo zio Luigi,ed anche il Duca nel fervore del suo zelo perdeva ogni ritegno ed incitava il generale Catinat, additandogli i propri sudditi valdesi: «Nettate il paese da quelle oscenità» [Lettera del 2 maggio 1686, ibid., p. 159]. Veramente, il Catinat non aveva bisogno d'incitamenti e superò forse l'aspettazione di Vittorio Amedeo,

Infatti di lì a poco, dopo di avere «spazzato» l'una dopo l'altra tutte le Valli, egli scriveva nella sua relazione al ministro De Louvois; « Questo paese è interamente desolato. Non vi avanza più nulla, ne popolo, né bestiame perchè non vi è ormai altura che non sia stata frugata... Il Duca di Savoia tiene prigioni circa ottomila anime. Quello che stia per farne lo ignoro. Confido che non lasceremo questo paese che prima questa razza di barbetti non sia del tutto diistrutta. Ordinai di issare un 'po' di crudeltà... Coloro che arrestiamo armati se non vengono subito uccisi, passano per le mani del carnefice». Almeno qui si confessa francamente che «un po' di crudeltà» era prescritta! I prigionieri ammontarono tosto a non meno di dodicimila; trascinati prima a Luserna, di là venivan istradati verso Torino, Susa, Asti, Vercelli, ecc., dove, ammucchiati in orribili carceri, morivano a diecine ogni giorno. I pastori furono quasi tutti catturati; Enrico Arnaud e due altri, vista la piega disastrosa che prendevano gli avvenimenti a motivo della defezione della val S. Martino e della disorganizzata resistenza, si erano ritirati con l'animo affranto, riuscendo a scampare in Svizzera. Il pastore di Prali, Leidet, scoperto in una caverna mentre cantava degl'inni, ebbe a soffrire lunghe torture a Luserna ed infine vi subì il martirio.

Le condizioni dei miseri prigionieri erano tali che in pochi mesi ne perirono novemila! Ma lasciamo che lo stesso generale Catinat ci descriva la loro sorte: «Sono distribuiti in tutte le città del Piemonte e custoditi molto rigorosamente. Ricevono del pane in economica proporzione, secondo l'età. La malattia e l'infezione si son messe attorno a quelle genti quasi ovunque. Morranno per metà quest'estate... Dormono e mangiano male, pigiati, alla rinfusa; i sani non possono non respirare un'aria pestifera. E patiscono di tristezza e di malinconia, nè senza giusto motivo, privi come sono dei loro beni, incerti se vi sia un'uscita alla loro prigionia, seerparati forse per sempre dalle mogli e dai figl iche non vedono più e non sanno che cosa siano divenuti».

Ai primi di luglio la guerra sembrava terminata: si erano licenziate le truppe francesi, perché ormai, come aveva dichiarato il Catinat, il paese era «interamente desolato e non vi rimaneva più nulla, né popolo né bestiame». LeValli erano oramai «purgate» e «nettate», secondo le eleganti espressioni ducali. Vi regnava il silenzio dei deserti e dei cimiteri; e le lodi di papa Innocenzo XI erano già giunte a Vittorio Amedeo II.

Ma s'ingannavano tutti costoro. Mentre le migliaia di prigionieri agonizzavano nelle carceri del Piemonte ed i loro beni confiscati si vendevano all'asita, ecco ricominciare inaspettata e veramente miracolosa la resistenza, in virtù della falange degli "invincibili". Fu qualche cosa di prodigioso. Circa 80 superstiti nel Val Pellice e 50 in Val San Martino, scampati in modo incredibile alle più accurate ricerche, nascosti in caverne da loro soli conosciute, riuscirono a raggrupparsi tra le roccie dei monti più alti ed inaccessìbili; si nutrivano di erbe, vivevano di speranza e di disperazione insieme; una energia indomabile li sorreggeva.

Di notte, con spedizioni fulminee, scendevano a spargere il terrore fra i savoiardi ed i biellesi che s'erano stabiliti nelle loro terre e sbaragliavano i soldati che il Duca s'era visto, costretto a raccogliere e mandare di nuovo nelle Valli. La guerriglia si prolungò così per vari mesi, finché Vittorio Amedeo, impensierito alla prospettiva d'una lotta di cui non poteva prevedere la durata, scese a patti coi duecento invincibili eroi. Questi, tuttavia, ammaestrati da dura esperienza, dichiararono di non fidarsi delle semplici promesse ducali: vollero ed ottennero degli ostaggi. E dopo una tregua di due mesi, durante i quali poterono mandare due deputati a Ginevra per chiedere il parere di Gianavello e di Enrico Arnaud, il Duca propose loro l'emigrazione nelle condizioni e con tutte le garanzie che avrebbero voluto.

L'accordo fu stipulato nei seguenti termini: a) I duecento riceverebbero tutti gli ostaggi da loro designati ed i passaporti per andarsene in Svizzera a piede libero ed armati. b) Partirebbero in tre squadre, con facoltà di condurre seco i loro parenti che si trovavano frai prigionieri, c) Appena giunta la terza squadra a Ginevra, tiutti i prigionieri valdesi sarebbero liberati e condotti in Svizzera a spese del governo ducale. Questo accordo venne tosto confermato il 17 ottobre a Luserna mediante un trattato del Duca con la Svizzera, la quale prometteva di accogliere i Valdesi e di vegliare a che non rientrassero in Piemonte, Vi è dunque ragione di credere che, senza questa inflessibile energia dei duecento invincibili non si sarebbe più parlato di emigrazione e che durante quell'inverno i prigionieri sarebbero periti tutti quanti in fondo al loro carcere. Non già l'esilio dei Valdesi aveva Luigi XIV imposto al Duca di Savoia, bensì il loro sterminio; se lo sterminio totale non si effettuò, bisogna attribuirne il merito sopratutto alla meravigliosa resistenza d'un manipolo di eroi.

E cominciò la dolorosa via dell'esilio. Secondo gli accordi stipulati, appena giunta a Ginevra la terza squadra dei duecento, alla fine di dicembre, Vittorio Amedeo II col suo editto del 3 gennaio 1687 aprì le carceri ai tremila Valdesi ch'erano sopravissuti agli orroridella prigionìa e rincamminò attraverso alla Savoia verso Ginevra. Neppure tutti li lasciò partire. Nove pastori prigionieri furono trattenuti insieme con le loro famiglie — in tutto 47 persone — in varie fortezze, dove buona parte perirono; diversi altri qua e là. furono «dimenticati» in carcere: per esempio ottanta ad Asti, ridotti a non più di cinque quando vennero liberati tre anni dopo! E quanto alle centinaia e centinaia di fanciulli rapiti, non si pensò affatto di restituirli : dovevano essere educati nella religione romana. Diventò allora di moda, nelle case patrizie piemontesi, l'avere il «piccolo catecumeno», come si diceva. «Il bel mondo ne faceva pompa e ne collocava uno o due dietro l'è carrozze coperti d'un berretto di particolar forma, perchè fossero riconosciuti e notati. Ma la moda passò, e quell'infelici abbandonati o diventarono tristi o morirono miseramente».

La Svizzera protestò contro queste violazioni del trattato di Luserna, ma inutilmente. Perfino sulla via dell'esilio non pochi bambini vennero rapiti ai miseri profughi! Divisi in tante brigate, spinti come armenti attraverso il Moncenisio fino alla frontiera ginevrina, quei disgraziati consunti dalla fame e dai patimenti sembravano ombre che uscissero dai sepolcri. E si trascinarono così per una quindicina di giorni, accompagnati dagl'insulti della gente fanatizzata, con un senso misto di sollievo nel lasciare una patria che oramai offriva loro soltanto carcere o abiura, e di sconforto infinito: si spengeva inesorabilmente l'ultimo raggio di speranza di rivedere le vallate natie.

E molti caddero lungo il cammino, estenuati. Specialmente fra le prime squadre, che effettuarono il duro viaggio in pieno inverno, si contarono a centinaia coloro che morirono assiderati sulle nevi del Moncenisio. Cosicché il numero dei superstiti non superava di molto i duemila cinquecento. Ma appena varcata la frontiera, quale con-trasto! Gli abitanti di Ginevra venivano incontro agl'infelici profughi e gareggiavano nel circondare di tenere cure i malati ed i sofferenti e nell'offrire affettuosa ospitalità a tutti. L'esempio di carità cristiana dato in quei giorni dalla capitale morale del protestantesimo fu così sublime che il Michelet lo loda come «il maggiore che ci presenti la storia dell'umana fratellanza". E sì che Ginevra aveva già accolto migliaia di ugonotti che la Revoca aveva costretti a uscire dalla Francia!

Ogni colonna che giungeva dalla Savoia (la prima giunse in gennaio e l'ultima in agosto) sostava per qualche giorno a Ginevra dove riceveva le prime cure; poi, per far posto agli altri ch'erano in viaggio, i profughi venivano indirizzati al centro della Svizzera e distribuit ifra i vari cantoni protestanti (Berna, Zurigo,Basilea, Sciiaffusa, Neuchàtel), i quali non furono da meno di Ginevra in questo commovente slancio di generosità. D'altronde il Duca di Savoia aveva posto per la liberazione dei Valdesi a condizione che non si fermassero presso i confini, ma venissero internati nella Svizzera e, possibilmente, avviati più oltre ancora. E gli Svizzeri intendevano osservare i patti, quantunque Vittorio Amedeo dal canto suo si dimostrasse meno scrupoloso al riguardo, trattenendo non pochi prigionieri, fra cui i nove pastori e tutti i fanciulli rapiti.

Dunque, in quel fatale anno 1687 la brutale violenza era finalmente riuscita a strappare un piccolo popolo al suo nido alpino. Ma poteva il Duca di Savoia illudersi di strappare dal cuore degli esuli l'amore della terra dei padri? Potevano i leali Svizzeri impedir loro di volgere lo sguardo indietro verso i figlioletti sparsì nel Piemonte?

(14, continua)