Storia/Storia dei Valdesi/La distruzione della colonia valdese della Calabria (1560-1561)

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[Storia/Storia dei Valdesi|Ritorno]


La distruzione della colonia valdese della Calabria (1560-1561)

Per narrare le ultime sanguinose vicende della colonia valdese in Calabria, occorre rifarci un po' indietro, perché alla fine del mese stesso in cui si firmava il trattato di Cavour la sua distruzione era ormai un fatto compiuto. Dalla sua fondazione, che come abbiamo veduto risale ai primi del secolo XIV°, era stata sempre visitata dai Barba. Ora, nel 1558, due pastori a loro richiesta partirono da Ginevra per esercitare fra di essi un ministero regolare. Uno era Giacomo Bonelli che, passato poi in Sicilia, subì il martirio a Palermo; l'altro era Giovanni Luigi Pascale.

Nativo di Cuneo, s'era dato alla carriera delle armi e si trovava di guarnigione a Nizza quando gli capitò per la prima volta di leggere l'Evangelo e di conoscere le dottrine riformate; l'animo 74 —SUO ardente ne fu conquistato al punto che lasciò senz'altro l'esercito del Duca di Savoia per diventare soldato di Gesù Cristo. A tal fine recatosi a Ginevra ed a Losanna, vi aveva compiuto con serietà e distinzione gli studi necessari.

Giunto dunque col Bonelli in Calabria, v'era rimasto a proseguire con fervore l'opera sua d'apostolo, specialmente a San Giusto ed a La Guardia. Ora avvenne che, nel maggio 1559, il marchese Salvatore Spinelli, di Fuscaldo, in seguito ad istruzioni ricevute dal S. Uffizio intimò ad alcuni notabili valdesi di comparirgli dinanzi per dargli informazioni sul movimento religioso che stava intensificandosi in quelle regioni. Il Pascale, quantunque non citato, volle accompagnarli al castello di Fuscaldo. Questo suo impulso generoso gli costò la libertà, perchè lo Spinelli pensò di trattenerlo prigioniero, per far cosa grata al Sant'Uffizio. La prigionia si prolungò per quindici mesi e mezzo, dei quali otto a Fuscaldo, tre a Cosenza, uno a Napoli e tre e mezzo a Roma. Durante questo lungo periodo, il Pascale scrisse gran numero di lettere, venti delle quali, conservateci da Scipione Lentolo nella sua Storia, sono oltremodo preziose per le notizie minute che ci forniscono sugli interrogatori continui ed i rigori e le minacce cui fu sottoposto il martire), e sono altresì commoventissime per lo zelo e la fede e la calma trionfante che rivelano, per la consolazione e la speranza cristiana che cercano d'infondere nelle persone cui erano indirizzate. Non ci indugeremo a descrivere i tormenti fisici e morali sofferti dall'intrepido prigioniero; agli amici di Svizzera, ai fratelli di Calabria, alla sua giovane fidanzata scrive pagine che riempiono gli occhi di lacrime ed il cuore di ammirazione, tanto nobili e delicati sono i sentimenti che le pervadono. Il segreto del suo eroismo è il segreto dell'eroismo di tutti i martiri cristiani: «L'amore che ci ha portato Gesù Cristo è tale che dovremmo allegramente esporre mille vite, se tante ne avesse ciascuno di noi, per glorificarlo... Quanto più mi avvicino all'ora di dover esser sacrificato al mio Signor Gesù, tanto più mi sento il cuore pieno di gioia e d'allegrezza!».

Il 15 aprile 1560, Pascale è tradotto incatenato da Cosenza a Napoli ed un mese dopo giunge a Roma. Nel tetro carcere di Tor di Nona, venne tosto visitato dal fratello Bartolomeo, accorso da Cuneo. Questi, da buon cattolico e fratello, non risparmiò supplicazioni e lacrime per smuoverlo; e così il martire aveva il dolore di resistere non solo agli implacabili giudici, ma all'amorevole fratello e perfino alla madre. Veramente, questa era morta da poco; se non che il fratello gli aveva dapprima taciuto la notizia per fargli credere che ella si struggesse di non vederselo ritornare, «del che rimase assai contristato». Ma fu irremovibile. Alla fine, mosso a pietà, il fratello gli confessò il vero, ma per scongiurarlo ancora di ritrattarsi, offrendogli la metà dei suoi beni. A questa offerta il prigioniero s'intenerì; pianse — scrive il fratello al figlio Carlo — nel vedermi tanto attaccato alla terra e noncurante del cielo.

Nella medesima lettera, il fratello Bartolomeo aggiunge che, dopo di lui, un frate tornò alla carica per indurlo ad abiurare. Ma il Pascale lo interruppe: «So bene qual è la vostra intenzione, ma Dio mi dà una tal forza ch'io giammai mi separerò da Lui. E quel che ho detto, ho detto». — «Se voi volete crepare, crepate!»,replicò il religioso visitatore.

La fine, così lungamente desiderata da questo mirabile confessore di Cristo, venne prima dell'autunno. La mattina del 16 settembre, un lunedì, il rogo era preparato sulla piazza del ponte, di faccia al Castel Sant'Angelo. Il pastore valdese vi salì con passo fermo e incominciò a parlare al popolo, spiegando che non era reo d'alcun delitto, ma che subiva il supplizio perché difendeva la vera dottrina di Colui del quale il papa non è il vicario, bensì il peggior nemico. Allora, fu ordinato al carnefice di affrettarsi, onde quella voce importuna tacesse. E il martire cadde nelle fiamme, là sulle rive del Tevere, come Arnaldo da Brescia. Circa due mesi dopo il martirio di Pascale, l'inquisitore Valerio Malvicino arriva a Cosenza (13 novembre) e passa l'inverno visitando a più riprese i coloni di La Guardia e di San Sisto,tentando inutilmente di convertirli. Allora nei primi mesi del 1561 pensa di ricorrere alle minacce e tosto appresso alla violenza. Gli abitanti di San Sisto, allarmatissimi, fuggono nei boschi dopo di aver ripetutamente rifiutato di abiurare, ed il loro esempio non tarda ad essere seguito da quei di La Guardia. Che fare, in presenza di un simile atteggiamento? L'inquisitore bandisce una crociata, col consenso e con l'aiuto del Viceré di Calabria; tutti i malfattori più scellerati della provincia vengono arruolati, con promessa di amnistia completa dei loro misfatti, ed a queste orde si uniscono via via una quantità di persone che accorrono dalle terre vicine, come iene o sciacalli alla preda.

Nel mese di maggio la crociata incomincia, con bandiere spiegate e al rullo dei tamburi, fiancheggiata da grossi cagnacci addestrati in America alla caccia umana. Dapprima i Valdesi resistono nelle foreste respingendo vittoriosamente gli assalti, durante uno dei quali cade il governatore spagnolo Castagneto, ma tosto la loro ripugnanza a spargere il sangue li induce a non più difendersi con la violenza, di guisa che finiscono in gran parte per arrendersi prigionieri. San Sisto è stata incendiata e il 5 giugno anche quei di La Guardia cadono in un tranello teso loro dal marchese Spinelli.

Gli episodi raccapriccianti che accompagnarono e seguirono la cattura dei Valdesi di Calabria, ricordano le pagine più atroci della strage di Provenza. Più di sessanta persone furono scaraventate giù dalle torri; altre vennero spalmate di pece o unte di trementina e poi bruciate a fuoco lento, e si rinnovò lo spettacolo delle torce umane dei tempi di Nerone; molte donne di San Sisto, trasciniate a Cosenza, rimasero a lungo legate così strettamente che le funi, penetrando nelle carni, vi fecero delle piaghe sanguinolenti in cui i vermi si moltiplicavano, accrescendo lo spasimo; alcune di esse furono squartate, altre arse, altre dopo l'abiura rimandate fra gli scherni con «l'abitello» giallo recante una croce rossa davanti e di dietro; delle più giovani e belle si fece traffico, come pure di gran numero di fanciulli.

Lo spaventoso macello dei prigionieri che ebbe luogo a Montalto, il giorno 11 giugno, è descritto in questo modo da un testimone oculare, cattolico: «Oggi di buon'ora s'è ricominciato a fare l'orrenda giustizia di questi luterani, che solo in pensarvi è spaventevole. Erano tutti serrati in una casa, e veniva il boia e li pigliava a uno a uno e gli legava una benda davanti agli occhi,e poi lo menava in un luogo spazioso poco distante da quella casa, e lo faceva inginocchiare, e con un coltello gli tagliava la gola e lo lasciava così; di poi pigliava quella benda così insanguinata e col coltello fumante ritornava a pigliare l'altro e faceva il simile... Ha seguito quest'ordine fino al numero 88... S'è dato ordine, e già son qua la carra, e tutti si squarteranno e si metteranno di mano in mano per tutta la strada che fa il procaccio fino ai confini della Calabria... S'è dato ordine di far venire oggi cento donne delie più vecchie, e quelle far tormentare e poi farle giustiziare ancor loro, per avere la mistura perfetta [Archivio Storico Italiano, IX, Lett. sui riformati di Calabria, p. 193-195]. Poche ore dopo, la stessa mano vergava le righe seguenti: «In undici giorni s'è fatta esecuzione dì duemila anime; e ve ne sono prigioni mille e seicento condannati, ed è seguita giustizia di cento e più ammazzati in campagna...» [Ibidem, lett. III].

Così fu consumata una delle più grandi iniquità che abbiano macchiato il nostro paese.

«Percorrendo le storie moderne, — scrive il De Boni [L'Inquisizione e i Calabro-Valdesi, p. 113.] — quando si pesino tutte le circostanze, non incontrasi eccidio più ingiusto, più barbaro, più scellerato nelle sue forme. Anche la notte di S. Bartolomeo e le stragi hussite in Boemia, cui spiegano in parte molti politici ed economici influssi, vittorie e resistenze terribili, impallidiscono in faccia alle carneficine di Montalto. Non leggesi alcun che di simile, osserva l'Ampère, se non nella storia romana. Crasso, dopo la disfatta di Spartaco, fece sospendere seimila schiavi sopra croci, lungo la via Appia, da Napoli a Capua. Ma nessuno racconta che Crasso abbia torturato e scannato non che molte donne, una sola; inoltre Crasso non crocifiggeva punto in nome di Dio, e non era cristiano». Dei prigionieri scampati al massacro, gli uomini più robusti furono destinati alle galere di Spagna, le donne ed i bimbi più floridi venduti come schiavi. La colonia valdese in Calabria era dunque interamente distrutta, alla fine di giugno del 1561.

Più tardi, i pochi che avevano abiurato e gli orfanelli invenduti vennero riuniti a La Guardia e nei dintorni, strettamente sorvegliati. Sicché fra gli abitanti attuali di quei paesi si trova ancora qualche nome valdese, qualche reliquia del dialetto delle Alpi; ma della antica fede evangelica non rimane la minima traccia: fu soffocata per sempre, come si spense dovunque sì è rovesciata la lava mortifera della reazione.