Storia/Storia dei Valdesi/Le persecuzioni dei secoli XIV e XV

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VI. Persecuzioni nei secoli XIV e XV

1. Nel secolo XIV le misure di repressione, di cui è fatto cenno alla fine del capitolo precedente, diventano aperta e feroce persecuzione. Il primo supplizio che sia ricordato è quello d'una donna, accusata di «valdesìa» e arsa viva a Pinerolo nel 1312, sempre in virtù del contratto stipulato fra i principi d'Acaia e l'inquisizione.

In Val Luserna nel 1332 ecco comparire il primo inquisitore, il domenicano Alberto Castellazzo, cui il papa Giovanni XX aveva segnalato un efficacissimo predicatore itinerante, più càtaro che valdese, Martino Pastre, il quale per oltre vent'anni con fervore e coraggio grandissimi aveva percorso il Delfinato, la Provenza ed il Piemonte fino a Pinerolo e Saluzzo, presiedendo riunioni straordinariamente, numerose. Ora avvenne che il Pastre cadde negli artigli della polizia inquisitoriale, in Provenza, proprio nel tempo in cui il Castéllazzo trovavasi per la sua inchiesta nella valle d'Angrogna; gli angrognini alla notizia dell'arresto del Pastre, insorsero esasperati e minacciarono talmente l'inquisitore ch'egli dovette battere in precipitosa ritirata. Appena giunto in luogo sicuro, il Castellazzo si affrettò a lagnarsi presso il papa e presso il principe d'Acaia non solo della poca docilità deiValdesi ma anche della riluttanza che i conti di Luserna manifestavano a perseguitare i loro sudditi.

Non si creda, però, che sia durata a lungo questa protezione, d'altronde non disinteressata, dei signori di Luserna per i laboriosi coltivatori delle loro terre: infatti già nel 1354 si piegarono all'ordine di arrestare una quindicina di Valdesi, i quali probabilmente salirono il rogo, e nel 1377 stabilirono per contratto che dai lavori delle cave rimanessero esclusi «i traditori religiosi ribelli ai conti di Savoia, ai principi d'Acaia e ai signori di Luserna».

Nel frattempo, il papa Gregorio XI non si stancava d'incitare Amedeo VI di Savoia, il famoso Conte Verde, a combattere gli eretici come se fossero turchi. Anche più violenta e generale infieriva la persecuzione nella valle del Pragelato e nel Delfinato. L'ultimo delfino, Umberto II, e l'arcivescovo di Embrum colsero l'occasione per arricchirsi vergognosamente con i beni confiscati ai poveri abitanti delle valli Freissinière, Argentiera e Valluisa la cui eresia sembrava offrirsi loro come un'abbondante miniera da sfruttare. Né la situazione migliorò allorquando, nel 1349, il Delfinato con le valli di Oulx e di Pragelato, venne dal Delfino ceduto al re di Francia; anzi,i supplizi rapidamente si moltiplicarono e dal 1376 al 1393 la persecuzione, condotta dall'inquisitore Francesco Borelli, monaco di Gap, fu spaventosa; la frenesia fanatica giunse a tal segno che perfino si disseppellivano i morti per bruciarli ! Per dare un'idea della ferocia del Borelli basti ricordare il seguente episodio della sua persecuzione in Val Pragelato. La data di questo episodio secondo diversi storici sarebbe stata il 1400; secondo il Léger addirittura nel 1440. Essi non menzionano il Borelli. Ma gli storici moderni collegano il massacro con la spedizione di codesto inquisitore.

Nell'inverno 1386 egli aveva passato coi suoi sgherri il colle di Sestrilères e come una fiera assetata di sangue s'era avventato sui villaggi di quella valle ridente, massacrando e incendiando. I valligiani scampati alla strage fuggirono terrorizzati ritirandosi sul monte Albergian, probabilmente con l'intento di rifugiarsi in Val S. Martino; ma la neve era alta ed il vento soffiava glaciale su quelle vette, che raggiungono i 3000 metri: i fuggiaschi passarono la notte all'aperto, senza ricovero, talché non meno di ottanta bambini morirono assiderati nelle braccia delle madri! Era la notte di Natale. Giù, nella valle, i loro persecutori gozzovigliavano.

Alla fine del secolo XIV si ebbe, nelle valli di Luserna e di Perosa, una inchiesta del padre Settimo da Savigliano, il quale insediò il tribunale del S. Uffizio nella chiesa di San Donato a Pinerolo; anche a Chieri questo inquisitore scoprì un centro di eresia, che fu creduta valdese; ma trattavasi di càtari.

2. Il secolo XV s'apre con la visita d'un insigne domenicano, Vincenzo Ferreri, il quale esplicò nelle valli dei due versanti una missione pacifica, senz'alcun effètto pratico. La cosa più interessante da rilevare è la notizia da lui raccolta di predicazioni periodiche che i Valdesi ricevevano da ministri itineranti, i quali provernivano dalle Romagne e dalle Puglie.

Si ebbe poi, per diversi anni, un periodo di calma e di relativa tolleranza, perchè il primo duca di Savoia Amedeo VIII, divenuto alla fine della sua vita papa col nome di Felice V, cercò di mitigare i rigori inquisitoriali.

Ma nel 1448 ecco di nuovo un inquisitore, Giacomo Buronzo, salire a Luserna a motivo d'un tumulto degli abitanti di Angrogna, e citare tutta la popolazione dinanzi al suo tribunale. Lo affrontò arditamente sulla piazza stessa di Luserna il barba Claudio Pastre, discutendo intorno alla fede. L'inquisitore, a corto d'argomenti, si ritirò lanciando su tutta la valle un interdetto, che produsse scarsa impressione e che fu revocato cinque anni dopo.

A quest'epoca risale un processo piuttosto interessante tenuto a Pinerolo contro un tale Filippo Regis, di Val S. Martino: interessante, a motivo della confessione ch'egli fece di sostituire i ministri itineranti durante glI intervalli più meno prolungati, fra le loro visite.

Non ci resta che da nominare un ultimo inquisitore, G. A. Acquapendente, il quale nel 1475 se ne venne a Luserna e, constatato che i Valdesi sempre più si allontanavano dalla Chiesa Romana, vollero procedere contro di loro con misure severissime, che però i Conti di Luserna rifiutarono di applicare. Irritato da tale resistenza, l'inquisitore ricorse alla reggente duchessa Jolanda, sorella del re Luigi XI di Francia e vedova del duca di Savoia Amedeo IX, ottenendo da lei il 23 gennaio 1476 un editto che ingiungeva al podestà di Luserna, Antonio Rorengo,, di dar corso alle richieste dell'Inquisitore.

Il silenzio che seguì lascia supporre che il podestà non abbia tardato a presentare le sue scuse. Il fatto sta che i signori di Luserna, i quali per l'addietro erano stati più o meno riluttanti a perseguitare i Valdesi — sia pure per motivi d'interesse — da quel momento non esitarono più la diventare loro oppressori.

3. La prima grande persecuzione.

Divenuti oppressori dei Valdesi, i signori di Luserna li angariarono talmente che nel 1483 gli abitanti di Angrogna, di Villar e di Bobbio Pellice finirono per ribellarsi: quei disgraziati erano ormai ridotti a difendere, oltre alla libertà religiosa anche la libertà economica e perfino il diritto di proprietà! Non appena ebbe notizia di questa resistenza a mano armata, il duca di Savoia Carlo I, figlio della duchessa Jolanda, ancora imberbe ma già soprannominato «il guerriero», decise di domare i rivoltosi. Raccolse le sue truppe a Pinerolo, nell'aprile 1484, e diede loro ordine di invadere la valle, snidandone i Valdesi.

Le truppe regolari del duca ammontavano a circa 1800 uomini, ma erano rafforzate da un considerevole numero di volontari, sedotti dalla speranza del saccheggio. I Valdesi in fatto di armi erano ridotti agli archi e alle fionde, alle corazze di pelle e agli scudi di legno.

Fu un triplice assalto. V'è incertezza riguardo agli elementi forse un po' leggendari di questi episodi, che sono tra i più popolari della storia tradizionale valdese.

Il primo assalto viene diretto contro Rocciamaneut, località sulle alture fra San Giovanni e Angrogna, da cui si domina la vallata di Luserna. Qui i Valdesi aspettano di pié fermo gli assalitori che salgono lentamente il pendìo; le donne ed i bambini si tengono alle spalle dei combattenti per scegliere e porgere loro i sassi, e più indietro ancora, stanno i vecchi e gl'invalidi in preghiera. L'attacco violentissimo sembra irresistibile per la superiorità del numero e delle armi degli assalitori; già diversi difensori sono caduti lasciando scoperto un lato che il nemico si affretta ad occupare, infiltrandosi fra le roccie. Le famiglie in ginocchio, terrorizzate, uniscono all'urlo selvaggio dei combattenti il grido in cui s'esprime l'estrema speranza dell'angoscia umana: «Dio, aiutaci!». In quel mentre uno dei capi dei nemici, una specie di ercole dal volto abbronzato, detto «il Nero di Mondovì», si fa avanti altezzoso gridando ferocemente: «I miei, i miei faranno la passada!»; e contemporaneamente alza per spavalderia la visiera dell'elmo. Ha appena compiuto il gesto sprezzante, che stride una freccia scoccata dal giovinetto.

Peiret Revel e colpisce in fronte quel gigante Golia, atterrandolo. Le sorti della battaglia cambiano improvvisamente; esaltati dalla caduta di quel colosso, i Valdesi si scagliano con impeto contro i novelli Filistei, che subito indietreggiano poi fuggono a precipizio giù per le pendici del monte.

Il secondo assalto, meglio preparato, ha per obiettivo Pra del Torno, nel cuore, della Valle d'Angrogna. Respinte dalle alture di Rocciamaneut, le soldatesche ducali si propongono di risalire il fondo della valle; ed infatti giungono senza incontrare resistenza fino alla Rocciaglia.

E' questo un formidabile baluardo di rocce che sbarra la via nel punto stesso in cui la valle si restringe tanto da non lasciar passare che il torrente e il sentiero, addossato alla parete inferiore di rupi immense. L'avanguardia degli assalitori s'è appena avventurata nello strettissimo passo, che una nebbia improvvisa l'avvolge; ed è così fitta che nulla si vede a due metri di distanza.

E' il momento atteso dai Valdesi appostati dietro alle rocce. Frecce e proiettili d'ogni specie fischiano sinistramente nella nebbia, macigni enormi rotolano con fragore stritolando e spazzando via quanto trovasi sul loro passaggio, I soldati disorientati, sbigottiti, ben vorrebbero ritirarsi, ma i loro compagni alle spalle ingombrano l'angusto sentiero; la confusione cresce, il timor panico li invade e la ritirata si cangia tosto nella rotta più disastrosa. Pazzi d'ira e di terrore, disperati in mezzo a quel labirinto, di cui i Valdesi conoscono ogni passo anche nella nebbia, molti imprecando, bestemmiando e picchiandosi fra di loro precipitano nel torrente, che sentono muggire ai loro piedi. Tale fu il caso d'un certo capitano Sacchetti di Polonghera, il quale poco prima s'era vantato di fare a pezzi tutti gli abitanti della valle: colpito da una sassata tiratagli — dice la leggenda — da un povero zoppo, rotolò nell'Angrogna ed annegò in un gorgo profondo che anche oggidì è chiamato nel dialetto del paese tumpi Sachèt.

Così, più disastrosamente ancora del primo,finì questo secondo assalto. Fra i capitani delle sbaragliate truppe ducali va ricordato anche Giaffredo Varaglia, di Busca, il quale non pers ela vita come gli altri due sopra nominati, ma sembra anzi che si sia arricchito con le spoglie dei perseguitati. Egli va ricordato per il fatto che lasciò un figlio con lo stesso nome, ma ben diverso da lui perchè diventò pastore e glorioso martire valdese.

Il terzo episodio, infine, di questa spedizione ci trasporta a Prali. Una compagnia di armati aveva tentato una sorpresa nell'alta Val S. Martino, calando improvvisamente sulla borgata Pommiers. Avidi di saccheggio e pensando, a motivo della fuga degli abitanti, d'essere già padroni della vallata, si erano sparpagliati imprudentemente a far baldoria; ma i pralini, riunitisi in forte gruppo, assalirono gli invasori, sterminandoli e cacciandoli tutti.

Vista la tenace e vittoriosa resistenza incontrata dalle sue truppe, Carlo I pensò bene d'intavolare trattative dì pace. Nel suo castello di Pinerolo invitò e accolse cordialmente una deputazione di Valdesi per firmare una specie di compromesso, che a lungo andare finì per scontentar tutti ma in seguito al quale la pace non fu più turbata, per parecchi anni, nelle valli soggette alla Casa di Savoia.

Pare che, in quella circostanza, il giovane Duca abbia rivolto ai delegati valdesi al.cune interrogazioni assai ingenue e puerili, come questa: se era vero che i loro figli nascessero con quattro file di denti pelosi e con un occhio in mezzo alla fronte! S'era sparsa, infatti, codesta sciocca diceria, ed è ben strano che il Duca vi prestasse fede; ad ogni modo, durante quel colloquio poté accorgersi quale fondamento avesse! E i Valdesi, da parte loro s'accorsero — e non doveva esser l'ultima volta — che il loro sovrano era molto male informato sul loro conto.

4. La crociata dell' arcidiacono Cattaneo.

La narrazione che stiamo per fare ci conduce nelle valli soggette al re di Francia, vale a dire in quelle del Delfinato.

Dopo le feroci persecuzioni dell'inquisitore Borelli e le inutili prediche di Vincenzo Ferreri, i poveri Valdesi non avevano avuto requie; l'arcivescovo d'Embrun, Giovanni Baile, continuava a spremere loro lacrime, sangue... e denaro. E' vero che il re di Francia, Luigi XI, proteggeva questi suoi sudditi, di cui gli era nota la purezza di vita; ma il re risiedeva lontano ed ora in molte altre faccende affaccendato.

Morto nel 1483 Luigi XI, non fu difficile indurre il figlio suo giovinetto, Carlo VIII, ad autorizzare una vera e propria crociata; ed ancor più facile riuscì all'arcivescovo Baile il decidere papa Innocenzo VIII a bandirla. Questi —che, per chi noi ricordasse, era l'ignobile G. B. Cibo— lanciò il 27 aprile 1487 una bolla con la quale dava all'arcidiacono di Cremona Alberto Cattaneo, nunzio e commissario apostolico per gli Stati del Duca di Savoia e del Delfino del Viennese, ampi poteri per procedere con le armi controi Valdesi, «figli dell'iniquità», e tutti gli altri eretici.

Carlo I di Savoia, che aveva appena firmato a Pinerolo il trattato dopo la spedizione del 1484, rifiutò di associarsi a questa crociata. Cosicché l'attività del Cattaneo rimase circoscritta al Delfinato, che comprendeva allora anche l'alta Valle del Chisone.

Anzi, l'iniqua impresa doveva incominciare proprio nel Val Pragelato. Il 6 marzo 1488 qualche migliaio di crociati agli ordini di Ugo della Palù, cui Cattaneo aveva affidato il comando militare, erano a Cesana, pronti a varcare il Colle di Sestrières. A tale notizia, gli abitanti di Mentoules, di Fenestrelle e d'altri villaggi di Val Pragelato si ritirarono sulle alture e inviarono due messi al Cattaneo, latori d'una lettera di protesta da cui togliamo le righe seguenti: «Noi siamo sudditi fedeli e veri cristiani. I nostri maestri, insigni per santità di vita e per dottrina, son pronti a provare che il nostro sentire in materia di fede cristiana è retto, e che meritiamo lode anziché persecuzione. Non vogliamo seguire coloro che trasgrediscono la legge evangelica e si allontanano dalla tradizione degli Apostoli... Le ricchezze, il lusso, la sete di dominio, a cui han l'animo coloro che ci perseguitano, da noi si sprezzano... Noi confidiamo in Dio; ci studiamo di piacere a Lui, piuttosto che agli uomini ; e non temiamo chi può uccidere il corpo ma non l'anima» [Alb. Cattane!, Historiae Regum, etc.].

L'arcidiacono rispose che aveva missione di reprimere e non di discutere. I crociati si mossero. Fu anzitutto assalita di sorpresa la «balma», o caverna, della Troncea, dove s'erano rifugiati una sessantina di Valdesi, fra uomini e donne, che s'arresero a discrezione; il secondo giorno fu espugnata una grotta sul fianco della montagna di Fressa, i cui difensori si fecero tutti massacrare piuttosto che arrendersi; nei giorni seguenti, dopoi accanito combattimento, vennero catturati circa 220 Valdesi che s'erano nascosti nella «balma» della Rodiera. Condotti a Mentouleg, quei disgraziati prigionieri, scrive l'inquisitore, «furono restituiti all'unità cattolica» ; ma due di loro subirono il supplizio.

Non si troverà strano che, passato il pericolo, coloro cui l'abiura era stata imposta col terrore, siano ritornati pentiti ed umiliati alla loro fede. Diversi abitanti del Pragelato erano riusciti a varcare i monti, riparando in Val S. Martino. Di lì a alcuni giorni il La Palù prese la via di Briancon, e il 5 aprile la caccia al Fuomo incominciò nella Valle di Freissinière. Dopo breve accanita lotta, un primo gruppo venne catturato il giorno di Pasqua e tosto anche tutti gli altri Valdesi della valle caddero in mano dei crociati; trascinati ad Embrun, furono costretti ad abiurare dinanzi alla cattedrale ed a portare una croce gialla sul petto e una sulla schiena in segno di penitenza. Quattro uomini e due donne salirono sul rogo.

Nella vicina Valle Argentiera i Valdesi stavano in gran parte nascosti nella spaziosa «balma» (caverna) d'Oréac, ma dovettero pur essi capitolare. Quei di Valluisa finirono per subire la medesima sorte; alcune centinaia reisisterono più a lungo nella «balma» Chapelue, ma solo per essere poi massacrati o scagliati nei precipizi dai crociati furibondi per la loro ostinata difesa.

L'odiosa tragedia ebbe termine nel luglio 1488. Alberto Cattaneo andò a rallegrare il pontefice Innocenzo VIII con la sua relazione, mentre i caporioni della crociata si spartivano i beni delle povere vittime. I Valdesi non poterono più rientrare in possesso delle loro proprietà in Valluisa e in Valle d'Argentiera; ma riuscirono a poco a poco a ripopolare la Valle di Freissinière.