Teologia/Non possono piacere a Dio
Non possono piacere a Dio
- Il messaggio biblico, quando è preso seriamente, fa cadere le molte illusioni religiose coltivate e talvolta persino predicate da certi pulpiti. Che Dio apprezzi "la buona volontà" e la religiosità naturale umana è una di queste illusioni. Che cosa implica la sferzante espressione dell'apostolo Paolo: "Quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio" (Romani 8:8)? Il linguaggio biblico può in effetti generare equivoci.
"Quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio" — Romani 8:8.
Questo singolo versetto sintetizza uno dei temi più critici della lettera di Paolo ai Romani: la totale incapacità morale dell'uomo decaduto senza l'opera rigeneratrice dello Spirito Santo. Rappresenta il culmine dell'argomentazione di Paolo tratta da Romani 1–8, secondo cui tutte le creature umane, sia d’origine ebraica che diversa, sono sottoposti al potere invalidante del peccato e soggetti al giudizio di Dio a meno che non siano vivificati dallo Spirito.
Essere "nella carne"
Quali sono le caratteristiche di coloro che sono “nella carne” (Romani 1–8)
L'espressione "essere nella carne" non si riferisce al corpo fisico, ma alla creatura umana così come si trova nella creatura umana decaduta, non rigenerata e “in Adamo”. In Romani 1-8, Paolo descrive questa condizione con sconvolgente chiarezza:
- Soffocano la verità – “ soffocano la verità con l'ingiustizia,” (Romani 1:18).
- Sono abbandonati da Dio - “Dio li ha abbandonati a passioni infami” (Romani 1:26; cfr vv. 24, 28).
- Sono ostili a Dio - “ciò a cui la carne ha l'animo è inimicizia contro Dio” (Romani 8:7).
- Non possono sottomettersi alla legge di Dio – “… perché non è sottomesso alla legge di Dio e neppure può esserlo” (Romani 8:7).
- Non possono piacere Dio - “quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio” (Romani 8:8).
- Sono sottoposti al potere del peccato: ”... abbiamo già dimostrato che tutti, Giudei e Greci, sono sotto il peccato” (Romani 3:9).
- Nessuno è da considerarsi giusto: “Non c'è alcun giusto, neppure uno” (Romani 3:10).
- Non intendono le cose di Dio - “Non c'è nessuno che abbia intendimento” (Romani 3:11).
- Non cercano Dio: “non c'è nessuno che cerchi Dio” (Romani 3:11).
- Sono sviati e disutili - “Tutti si sono sviati, tutti quanti sono diventati inutili”
- Sono “in Adamo” e costituiti peccatori - “per la disubbidienza di un solo uomo i molti sono stati costituiti peccatori” (Romani 5:19).
- Sono asserviti al peccato - “... eravate servi del peccato” (Romani 6:17,20).
- La loro fine è la morte - “Poiché la loro fine è la morte” (Romani 6:21).
- La loro mente carnale li trascina inesorabilmente alla morte - “Perché ciò a cui la carne ha l'animo è morte” (Romani 8:6).
Queste non sono semplici tendenze comportamentali: sono realtà ontologiche. Paolo descrive ciò che l'essere umano è oggi per natura: morto nel peccato, schiavo, spiritualmente cieco, ostile a Dio e moralmente incapace di compiacerlo o cercarlo. Non è solo che non si sottomette alla legge di Dio – non può farlo. Non è solo che non compiace Dio – non lo farà perché ama le tenebre e odia la luce.
Ciò sottolinea l'assoluta necessità dell'opera dello Spirito Santo nella salvezza. Solo per mezzo dello Spirito una persona può essere liberata dalla carne, unita a Cristo e resa veramente viva. Come scrive Paolo: "La legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte" (Romani 8:2). È lo Spirito che dà la vita (8:10), che dimora e trasforma il credente (8:9) e che guida i figli di Dio nella santità (8:14).
Senza lo Spirito di Dio, nessuno appartiene a Cristo (8:9); non c'è speranza di risurrezione (8:11), né certezza di adozione (8:16), né potere di piacere a Dio (8:8), né desiderio di cercarlo (3:11). La carne non può produrre altro che la morte, ma «... perché, se vivete secondo la carne, voi morirete, ma, se mediante lo Spirito fate morire gli atti del corpo, voi vivrete» (8:13). Pertanto, ciò che l'essere umano decaduto non può fare nella carne, Dio lo fa mediante il Suo Spirito, risuscitando i morti a nuova vita in Cristo.
Se ciò che Paolo dice nella Lettera ai Romani è vero – che quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio” (Rom. 8:8), che “nessuno cerca Dio” (Rom. 3:11) e che solo per mezzo dello Spirito una persona può essere resa spiritualmente viva, appartenere a Cristo e camminare in novità di vita – allora ciò rappresenta una sfida diretta e decisiva a tutte le forme di sinergismo, alla convinzione che la salvezza sia uno sforzo cooperativo tra Dio e l’uomo.
Queste non sono le condizioni di qualcuno che ha semplicemente bisogno di "scegliere meglio" o "rispondere correttamente". Descrivono qualcuno che non può e non vuole farlo a meno che Dio non intervenga misericordiosamente tramite il Suo Spirito. Se l'uomo naturale non cerca Dio e non riesce a sottomettersi alla Sua legge o a compiacerLo, allora non può essere lui a compiere il primo passo verso la salvezza. Quel passo deve venire solo da Dio.
L'implicazione è questa: la salvezza deve essere monergistica, non sinergica. Cioè, deve essere opera di Dio solo, dall'inizio alla fine. Come scrive Paolo altrove nella stessa lettera: “Non dipende dunque né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia” — Romani 9:16.
Il sinergismo, alla luce dell'argomentazione di Paolo, non è semplicemente errato: fraintende la profondità della depravazione umana e sopravvaluta le capacità della carne. Dà all'uomo ciò che la Scrittura riserva allo Spirito: il potere di muoversi verso Dio.
Una contraddizione?
L'apostolo Pietro in Atti 10:34-35, riferendosi a Cornelio, un pagano, afferma: "In verità io comprendo che Dio non ha riguardo alla qualità delle persone, ma che in qualunque nazione chi lo teme e opera giustamente gli è gradito". Non contraddice questo: "Quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio" (Romani 8:8)? Che dicono i maggiori commentari?
Questa domanda tocca un nodo importante della teologia paolina e della comprensione del rapporto tra grazia, fede, opere e accoglienza divina. Apparentemente, Atti 10:34-35 e Romani 8:8 sembrano esprimere due principi inconciliabili: da un lato l’apertura universale della grazia, dall’altro l’impossibilità per "quelli che sono nella carne" di piacere a Dio. Tuttavia, il contesto e l’esegesi protestante classica consentono di armonizzare i due passi.
1. Il contesto di Atti 10:34-35
Nel contesto di Atti 10, Pietro sta parlando di Cornelio, un centurione romano, pagano, ma "timorato di Dio", che prega, dà elemosine, e ha ricevuto una visione da parte di Dio. Pietro, dopo una sua visione e un’azione miracolosa dello Spirito, riconosce che la grazia di Dio è all'opera anche oltre i confini giudaici, aprendo la via alla missione verso i Gentili.
La frase "Dio non ha riguardo alla qualità delle persone" (lett. non fa favoritismi, οὐκ ἔστιν προσωπολήμπτης ὁ Θεός) esprime il principio di imparzialità divina, fondamentale in tutta la Scrittura (cfr. Deuteronomio 10:17; Romani 2:11).
Il versetto 35 ("chi lo teme e opera giustamente gli è gradito") non intende affermare una giustificazione per opere, ma riconosce che la risposta timorata e retta dell’essere umano alla luce che ha ricevuto è già un segno dell’opera della grazia.
2. Il senso di "quelli che sono nella carne" in Romani 8:8
In Romani 8, Paolo contrappone vita secondo la carne e vita secondo lo Spirito. "Essere nella carne" (ἐν σαρκί) indica una condizione esistenziale dominata dalla natura umana corrotta e non rigenerata, non semplicemente la realtà fisica o corporale.
Quando Paolo afferma che "quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio", sta parlando di persone non rigenerate, che non hanno ricevuto lo Spirito e quindi non vivono secondo Dio, ma secondo le proprie inclinazioni peccaminose (cfr. Romani 8:9: “se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, egli non è di lui”).
3. Tentativi di armonizzazione nei commentari
Ecco come alcuni dei principali commentari armonizzano questi due testi:
Giovanni Calvino, nel suo Commentario agli Atti, sottolinea che non è per le opere che Cornelio è approvato da Dio, ma per la disposizione interiore che manifesta una grazia già all’opera in lui, pur senza una piena conoscenza del Vangelo. La sua pietas è frutto di un “raggio della grazia divina” che lo porta ad accogliere la Parola con fede.
Matthew Henry (Commentario biblico) interpreta “chi lo teme e opera giustamente” come coloro che vivono secondo la luce che hanno ricevuto, non come persone giustificate dalle opere. Henry afferma che “Cornelio era accettevole a Dio, ma non ancora salvato”, e che l’angelo non lo evangelizza direttamente, bensì gli ordina di chiamare Pietro, mostrando che la salvezza piena viene solo tramite la fede in Cristo.
F.F. Bruce – The Book of the Acts (NICNT). Bruce sottolinea che Atti 10:35 non insegna che la salvezza è per opere, ma che Dio è all’opera anche tra i Gentili prima che ricevano l’intero messaggio evangelico. L’operare giustamente di Cornelio è frutto di una disposizione interiore che Dio già approva e guida verso la piena salvezza in Cristo. Il versetto anticipa la dottrina della giustificazione per fede, non la nega.
John Stott – The Message of Acts . Stott insiste che ciò che è “gradito” a Dio in Cornelio non è la sua sufficienza morale, ma la sua risposta positiva alla luce che ha ricevuto. L’intervento dello Spirito Santo mostra che era Dio stesso a preparare Cornelio, e che il “temere Dio” e “operare giustamente” sono frutti della grazia preveniente, non meriti umani.
Douglas Moo – The Epistle to the Romans (NICNT) . Moo chiarisce che in Romani 8:8 Paolo si riferisce alla totale incapacità dell’uomo naturale, non illuminato dallo Spirito. Tuttavia, non esclude che Dio possa operare nella vita di chi non ha ancora conosciuto il Vangelo in pienezza, come nel caso di Cornelio. La salvezza rimane per grazia, attraverso la fede, ma la grazia può precedere la fede esplicita, preparandola.
4. Conclusione teologica
Non c'è contraddizione dottrinale tra i due testi, se letti nel loro contesto:
- Romani 8:8 descrive la condizione di alienazione totale da Dio tipica della carne non redenta;
- Atti 10:34-35 mostra una persona già in un cammino di apertura a Dio, che riceve una rivelazione più piena in Cristo.
Per la maggior parte della teologia protestante classica (Lutero, Calvino, e i loro interpreti moderni), ciò che è "gradito" a Dio in Atti 10 non è merito, ma l’effetto dell’opera preveniente dello Spirito, che prepara alla ricezione del Vangelo e all’unione con Cristo per fede.