Storia/Storia dei Valdesi/Dalla restaurazione all’emancipazione

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18. Dalla restaurazione all’emancipazione (1814-1848)

Gli anni di restaurazione del regno di Sardegna furono altresì anni di reazione.

Non appena Napoleone si fu ritirato nell'isola d'Elba, il re Vittorio Emanuele I, succeduto nel 1802 al fratello Carlo Emanuele IV ,lasciò la Sardegna a bordo d'una fregata inglese e sbarcò a Genova. Nessuno ormai gli contestava il diritto di rientrare in possesso di tutto il suo regno, che venne anzi ampliato dal Congresso di Vienna col territorio dell'antica repubblica genovese. Affabile e mite di cuore, Vittorio Emanuele I era però di mente ristretta; e manifestò subito la sua mediocrità d'ingegno, nonché le sue intenzioni reazionarie abolendo ogni buona istituzione ed ogni progresso compiuto negli ultimi quarant'anni.

La sua semplicità di spirito giunse sino a prescrivere delle multe agli albergatori che servissero del grasso il venerdì! I Valdesi, naturalmente, allarmati da queste tendenze del Sovrano, si affrettarono a mandargli una deputazione che venne accolta con affabilità fin troppo famigliare (il re si compiacque di mostrar loro un abito rattoppato da sua moglie in Sardegna!) , ma senz'alcuna dichiarazione rassicurante... Non c'era dunque da farsi illusione, e difatti si conobbero tosto le prevedute misure repressive: tolti i beni nazionali alienati in favore della Tavola, ristabilite le parrocchie cattoliche soppresse, divieto di avere delle proprietà fuori degli antichi confini, intimazione di chiudere il nuovo tempio di San Giovanni, deposizione del sottoprefetto Geymet.

Questi si ritirò modestamente a Torre Pellice a dirigere, fino alla sua morte, la Scuola Latina.

Ma come nella sua politica generale Vittorio Emanuele non tardò ad accorgersi che contro i tempi non giovava dar di cozzo, così anche finì per capacitarsi che conveniva mitigare i rigori eccessivi verso i Valdesi; e quindi restituì loro un tenue assegno per i pastori, prelevandolo dalle imposte pagate dai Valdesi stessi; tollerò, in via eccezionale e non come regola, che conservassero i beni acquistati fuori dei confini antichi; e quanto al tempio di San Giovanni, concesse il permesso di aprirlo, ma a condizione che se ne nascondesse la facciata mediante una parete di legno, onde il curato dalla sua chiesetta, che stava proprio dirimpetto, non rimanesse offeso dalla vista della grande porta aperta e dei fedeli che v'entravano per il loro culto! Codesta ridicola palizzata, piantata sul bel piazzale del tempio, cadde a pezzi una quindicina d'anni dopo e non se ne parlò più.

Ai moti politici del 1821 i Valdesi rimasero del tutto estranei. Com'è noto, il re Vittorio Emanuele I, impegnato con l'Austria a non mutare la forma dello Stato, anziché concedere la Costituzione chiesta dalla parte più eletta del paese, preferì abdicare in favore di suo fratello Carlo Felice. Questi salì sul trono, dopo una brevissima reggenza costituzionale del principe Carlo Alberto di Carignano, iniziando subito un'opera severa di repressione; si affrettò a disapprovare le concessioni fatte dal reggente, e, puniti i principali fautori della fallita rivoluzione, regnò per dieci anni, sempre sospettoso e sempre avverso alla libertà. E che il nuovo re intendesse seguire la linea di condotta del suo predecessore ben se n'accorsero i Valdesi, fin da quando egli rifiutò di ricevere la loro deputazione che, nel novembre 1821, erasi recata a porgergli omaggio.

In verità, Carlo Felice nulla fece per conciliarsi l'affetto di questi suoi sudditi, ma invece si diè ad inasprirli con ogni sorta di piccole vessazioni e lasciò correre non pochi abusi. Onde, sotto il regno di lui il cielo continuò ad essere grigio e nuvoloso: senza grandi tempeste, è vero, ma anche senza che tra le nubi sorridesse un lembo d'azzurro e scendesse un raggio di sole. Tuttavia, proprio in quegli anni oscuri in cui s'aspettava invano un po' di sereno dalla parte di Torino, da altre parti doveva venire un sorriso di cielo a rischiarare le nostre Valli: alludo alla parola fervente d'un apostolo ed alla illuminata generosità dì alcuni benefattori.

L'apostolo fu Felice Neff, il giovane e ardente pastore dell' alta valle di Freissinière, il quale nell'estate 1825 venne a fare una breve visita ai suoi correligionari della Valle del Pellice. Le sue poche predicazioni e le sue conversazioni produssero una profonda impressione, risvegliando molte coscienze intorpidite dal formalismo e dal razionalismo. Quel movimento, per quanto abbia avuto il difetto di degenerare talvolta in lotte personali, ebbe tuttavia effetti molto benefìci: promosse nelle Valli la diffusione delle Sacre Scritture e l'evangelizzazione di ogni villaggio di casa in casa, diede nuova vita all'educazione religiosa e specialmente alla Scuola Domenicale, rianimò l'interesse per le missioni fra i pagani.

Gli aderenti a quel movimento istituirono nel 1834 l'adunanza all'aperto del 15 agosto, che dal 1853 si tiene annualmente da tutta quanta la popolazione delle Valli: è una grande festa popolarissima. In quel giorno migliaia di persone si raccolgono in amene località della Val Pellice e del Val San Martino per cantare inni religiosi, ascoltare la predicazione della Parola di Dio e rammemorare la storia gloriosa dei padri.

Tre furono i benefattori principali che la Provvidenza suscitò per il popolo valdese, in questo periodo. Non faremo che nominarli, accennando alle loro benemerenze.

Il primo in ordine di tempo è il conte F. L. di Waidhtirg-Truchsess, il quale, nella sua qualità di ministro di Prussia presso la corte di Torino, protesse sempre con fermezza la popolazione valdese contro le sevizie legali ed illegali ispirate dal clero. A lui si deve la fondazione a Torino, nel 1827, della Cappella delle ambasciate protestanti, che costituì la prima base della parrocchia valdese in quella città. Ma il nome suo è collegato in particolar modo con la fondazione dell'ospedale di Torre Pellice: accogliendo l'idea lanciata da una eletta donna, Carlotta Geymet, vedova del già moderatore e sottoprefetto, egli patrocinò la nobile iniziativa con tanto successo che già nel 1824 si potè iniziare l'impianto di codesto primo ospedale valdese. Il conte di Waldburg-Truchsess morì nel 1844 e fu sepolto nel cimitero di Torre Pellice.

Un secondo insigne benefattore è il pastore anglicano Guglielmo Stefano Gilly. Visitò le Valli per la prima volta nel 1823 e di ciò che vide rimase talmente impressionato ed entusiasmato, che si diede' a scrivere articoli e libri per far conoscere nella sua patria la storia dei Valdesi e le loro presenti condizioni; non solo, ma costituì a Londra un Comitato che s'occupò attivamente di soccorrere e proteggere i Valdesi con ogni mezzo legale.

Il nome del dott. Gilly va associato principalmente con l'origine del Collegio di Torre Pellice.

Egli ideò di trasformare la esistente Scuola Latina, istituita e mantenuta dal Comitato Vallone, in un vero ei proprio Istituto di studi secondari, ginnasio e liceo. Si cominciò col fondare nel 1830 una Scuola Latina a Pomaretto, per la popolazione di Val San Martino, e l’anno seguente si aprì modestamente il Collegio a Torre Pellice. L'inaugurazione dell'ampio edifizio, dove ha tutt'ora sede il fiorente Ginnasio-Liceo pareggiato, ebbe luogo nel giugno 1837.

Il terzo grande benefattore fu il generale Carlo Beckwith. Nato il 2 ottobre 1789 a Halifax, nella Nuova Scozia (America Settentrionale), Carlo Beckwith era stato uno dei più brillanti ufficiali dell'esercito britannico ed aveva combattuto in non meno d'una ventina di battaglie rimanendo sempre illeso; ma la sera della formidabile battaglia di Waterloo (18 giugno 1815),, alla quale partecipò come aiutante di campo del generalissimo Duca di Wellington, ebbe la gamba sinistra fratturata da un obice francese. La frattura era così grave e complicata che si rese indispensabile l'amputazione; e così veniva troncata la carriera militare del valoroso ufficiale che a ventisei anni aveva già raggiunto il grado di colonnello.

Costretto dunque a lasciare quella via verso la quale s'era sentito trasportare dall'amore della gloria, il giovane mutilato si dedicò con la vivacità del suo versatile ingegno agli studi più svariati. La storia, la teologia, l'economia politica, i problemi sociali e religiosi ne avevano attratto tutta l'attenzione durante una dozzina di anni, quand'ecco che nell'estate 1827 gli capitò dì trovare su di un tavolo dell'anticamera del Duca di Wellington, cui s'era recato a far visita, il recente volume del dott. Gilly sopra i Valdesi. Incominciò a sfogliarlo distrattamente, tanto per ingannare quei minuti di attesa, ma tosto vi s'interessò talmente che volle procurarsi il libro, e se lo lesse da capo a fondo avidamente, con meraviglia e con entusiasmo crescenti. Di lì a poche settimane — come già il Gilly stesso quattro anni prima — decideva senz'altro di partire per venire a conoscere «devisu» questo popolo.

Così, nell'autunno del 1827, il colonnello Beckwith pose per la prima volta il piede sul suolo di quelle Valli che dovevano diventare la sua seconda patria; finì, infatti, per stabilirvisi definitivamente. Promosso nel 1846 al grado di maggior generale, morì il 19 luglio 1862 a Torre Pellice, dove riposano le sue ceneri.

Fino dal principio del suo lungo soggiorno nelle Valli, Carlo Beckwith sebbene mutilato d'una gamba era del continuo in gita su per i monti seguito dal fido cane Azor, e percorreva tutte le vallate fino ai paeselli più remoti, attaccando volentieri discorso con quanti incontrava, facendo tesoro di tutto quello che udivae  di tutto quello che con grande acume egli andava minutamente osservando. Di modo che nel giro di pochi anni era divenuta popolarissima la figura simpatica e geniale del «colonnello».

Non appena fu al chiaro sulla situazione e sulla via da seguire, egli con tenacia e con pratica intelligenza sì accinse a compiere le varie imprese successive, che via via gli parevano più utili ed urgenti. Si preoccupò anzitutto dell'istruzione primaria, facendo sorgere nei vari villaggi non meno di un centinaio di scuolette, semplici ma linde e tanto apprezzate da quei montanari fra cui non vi sono analfabeti. Provvide anche a rimodernare le scuole parrocchiali, più importanti, introducendo opportune riforme ed accrescendo lo stipendio veramente irrisorio degli insegnanti.

Quanto all'istruzione secondaria, il Beckwith ne comprendeva tutta l'importanza. Fu un valido collaboratore del dott. Gilly per Ferezione del Collegio e creò il Pensionato per signorine, che gli fu particolarmente caro ed esercitò una influenza educatrice grandemente benefica durante tutta una generazione. La erezione di diversi templi (Rodoretto, Rorà, Torre Pollice e Torino) è dovuta in massima parte a questo grande e intelligente amico dei Valdesi, ii quali ne benedicono ancora la memoria. Dopo di esserci rallegrati alla luce che emana da quelle nobili personalità cristiane, dobbiamo rientrare ancora una volta nella penombra e ricordale le ultime vessazioni di cui ebbe a soffrire il popolo; Valdese prima del 1848.

Carlo Alberto era salito sul trono nel 1831, salutato con gioia e con speranza dai Valdesi,come da tutti i liberali italiani. Ma, purtroppo, pei primi diciassette anni di regno egli procurò loro non poche amare delusioni.

Eppure ei li conosceva bene, i Valdesi, e senza dubbio non aveva sentito parlar male di loro dal pastore evangelico di Ginevra Vaucher, alle cure del quale il giovane principe' di Carignano era stato affidato. Ma evidentemente egli si sentiva legato dalla formale promessa fatta allo zio Carlo Felice di non mutare per niente gli ordinamenti politici, e nessuno saprà mai quanto abbia sofferto, nell'intimo del suo animo chiuso e sensibilissimo, per l'incessante tragico conflitto fra gli opposti sentimenti di devozione alla causa del papa e di amore per l'indipendenza della patria, fra gli scrupoli d'una religiosità che s'accostava al bigottismo e gl'impulsi generosi del suo cuore. Il fatto sta che, dopo aver incominciato il suo regno con un atto di liberalità, quale fu la pronta autorizzazione ai Valdesi di aprire il loro Collegio (maggio 1831), e dopo avere accolto con la massima cordialità una loro deputazione, assicurando il Moderatore che «avrebbe fatto quanto dipendeva da lui per renderli felici» (giugno 1831), non tardò poi a lasciarsi sopraffare dal clero sempre potente alla Corte sabauda, e segnatamente dal monsignor Andrea Charvaz, vescovo dii Pinerolo.

Questo prelato savoiardo, ch'ebbe sul Re un ascendente eccessivo anche perché era stato precettore dei suoi figli, appena si fu insediato nella sua diocesi dichiarò apertamente al Moderatore, il quale ai primi del 1834 erasi cortesemente recato ad ossequiarlo: «Finche non siano abrogati gli antichi editti concernenti i Valdesi, farò quanto sta in me perché vengano osservati». E tenne parola, il vescovo Charvaz: riesumò ad uno ad uno tutti gli editti più antichi e più iniqui, talché in virtù del suo zelo fanatico la reazione riprese tosto ad infierire sino a rivestire forme di vera e propria persecuzione.

Prima vittima ne fu il giovane pastore di Rodoretto, Alessio Muston, che aveva pubblicato a Parigi una sua tesi di storia valdese, in cui difendeva le dottrine evangeliche in modo assai temperato e senza la minima offesa per le Autorità. Da Torino fu improvvisamente spiccato un mandato di cattura contro di lui, perchè quel suo libro stampato all'estero non era stato sottomesso alla censura piemontese! Avvertito in tempo dal suo amico Amedeo Bert, cappellano delle Legazioni protestanti, il Muston se ne fuggì in Francia e rimase in esilio non meno di dieci anni prima che il decreto della sua espulsione fosse revocato.

Intanto il vescovo di Pinerolo si serviva della stampa, facendosi scudo della censura, per attaccare i Valdesi con le sue «Ricerche storiche» sulla loro origine e sul carattere delle loro dottrine, e per pubblicare una voluminosa «Guida del catecumeno valdese», che però nessuno lesse.

Più pericoloso assai di codeste pubblicazioni e causa di nuove tribolazioni fu l’Ospizio di Pinerolo, riaperto per accogliere i bambini valdesi, anche ad onta del volere dei genitori,«purché avessero raggiunto l'età di dodici anni i maschi e di dieci anni le femmine». Il fanatico Charvaz, infatti, non aveva esitato a richiamare in vigore anche codesto editto infame, per cui si rinnovarono in pieno secolo decimonono i casi odiosissimi di rapimenti di fanciulli. Ricordiamo un esempio solo, quello d'una fanciulletta undicenne, cieca, Enrichetta Arnaud, ultima discendente del grande condottiero del Rimpatrio: venne attirata nell'Ospizio affinché abiurasse la sua fede, ed il padre di lei non solo non potè ottenere di riaverla, ma per un colmo di crudele ironia si vide costretto a pagare ai rapitori una somma annua per la sua pensione! Queste enormità erano autorizzate da leggi antiche che il clero imbaldanzito aveva esumate; e senza effetto rimaneva qualsiasi reclamo. Ne doveva fare l'esperienza dolotrosa lostesso ambasciatore d'Ol'anda presso la Corte diTorino, quando invocò inutilmente l'intervento del Re perchè gli fosse restituita la propria figlia diciassettenne, che i preti gli avevano rinchiusa in un convento. Le proteste del corpo diplomatico a nulla giovarono, finché l'infelice padre se ne partì dal Piemonte angosciatissimo, ma non prima di avere rimandato sdegnosamene a Carlo Alberto la Gran Croce dell'Ordine Mauriziano, dichiarando di non poter fregiarsi delle decorazioni di un paese in cui si commettevano impunemente violazioni dei diritti più sacri ed in cui il Re si manifestava incapace di porre riparo a simili atti di barbarie.

(1) Il Codice Albertino, promulgato nel ghigno 1837, fu una grande delusione per i Valdesi perché non conteneva nessuna riforma in loro favore, anzi, li riconfermava nelle antiche incapacità civili e politiche. Eccone i primi articoli: «I. La religione Cattolica Apostolica Romana è la sola religione dello Stato. II. Il re si gloria d'essere protettore della Chiesa...  III. Gli altri culti attualmente esistenti nello Stato sono semplicemente tollerati, secondo gli usi ed i regolamenti speciali che li riguardano. Si noti che questo terzo articolo era suscettibile d'essere interpretato o nel senso di benevola protezione o nel senso di severa repressione, secondo che si mettesse l'accento sopra «gli usi» oppure sopra «i regolamenti speciali». Il legislatore non osò né riconoscere la condizione di fatto ne sanzionare la condizione di diritto, e mantenne quindi uno stato di cose anormale.

Ora se una tale cosa poteva accadere all'ambasciatore d'una potenza estera, non è davvero da meravigliarsi che lo stesso e peggio capitasse di quando in quando ai poveri sudditi valdesi, presi di mira dall'intransigente monsignore savoiardo. Questi s'ingegnava a moltiplicare le sue angherie, e pensò di richiamare in vigore, fra gli altri, anche l’antico editto dei confini, onde i Valdesi non potessero più conservare le proprietà ch'erano venuti acquistando fuori dei limiti fissati secoli prima e che ormai erano divenuti di gran lunga troppo ristretti. E nelle sue denunzie il vescovo Charvaz diventava tanto astioso ed ostinato da rendersi insopportabile agli stessi funzionari del Ministero di grazia e giustizia. Dal canto suo, Carlo Alberto trovò un ripiego poco degno di re ma indice del suo buon cuore: fece ordinare al Prefetto di Pinerolo di sospendere l'esecuzione di quell'editto, «con procurare di fare in modo che l'Autorità Ecclesiastica non si accorgesse della sospensione», ed inoltre si dichiarò personalmente disposto «a concedere le domande singole a lui rivolte da quanti avessero agito in buona fede, senza intenzione di eludere gli ordini del Governo. Da un lato, dunque, Carlo Alberto voleva lasciare intatto l'editto per compiacere al partito clericale, e dall’altro si adoprava ad evitarne l’applicazione, perché in fondo lo reputava iniquo. Sempre i soliti mezzi termini e le solite contraddizioni! Egli che nel promulgare il suo nuovo Codice civile nel 1837, non volle innovare nulla rispetto alle condizioni dei Valdesi ed incoraggiò quindi praticamente la reazione del Charvaz, egli che autorizzando nel 1838 la convocazione d'un sinodo divietò espressamente che vi partecipassero dei forestieri (la quale proibizione mirava a colpire Waldburg-Truchsess e C. Beckwith), lasciò pur talvolta libero corso alla propria magnanimità, con atti personali veramente simpatici.

Ma la tipica incoerenza dell'atteggiamento di Carlo Alberto verso i Valdesi si manifestò specialmente alla inaugurazione del priorato mauriziano di Torre Pellice. Questa missione intesa a ricondurre all'ovile romano la popolazione delle Valli, era stata fondata mercé un decreto reale, previa l'approvazione del papa Gregorio XVI, ed i suoi edifici, eretti a spese dell'ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro del quale Carlo Alberto era Grande Maestro, vennero inaugurati il 24 settembre 1844 con l'intervento del Re. Ebbene, codesta circostanza a cui i Valdesi avevano riguardato con una tal quale comprensibile apprensione, finì invece per volgersi a loro favore, perché il Sovrano rimase talmente commosso dalle entusiastiche dimostrazioni d'affetto tributategli dal popolo accorso da ogni parte della valle per acclamarlo, che rimandò indietro i suoi carabinieri, non volendo alcuna scorta «fra i fedeli Valdesi»; ricevette con grande affabilità la Tavola e conferì poi la croce di cavaliere dell'ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro al sindaco di Torre, Amico Comba, un valdese.

Insomma, il vescovo Charvaz ed i suoi accoliti passarono in seconda fila e la cerimonia inaugurale del loro Istituto si trasformò effettivamente in una festa valdese. In ricordo di quella gradita visita il Re — caso forse più unico che raro negli annali della storia! — volle offrire egli stesso ai suoi sudditi un monumento, sulla piazza del paese; una fontana sul cui frontone si legge l'iscrizione «Il Re Carlo Alberto — al popolo che l'accoglieva —con tanto affetto».