Storia/Storia dei Valdesi/La guerra di Costa della Trinità

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X. La guerra di Costa della Trinità

A Carlo III, morto a Vercelli nell'agosto 1553, era succeduto il figlio Emanuele Filiberto, che avrebbe potuto essere soprannominato «senzaterra». Per la sua tenacia nei propositi fu invece chiamato «Testa di ferro», e lo si può con ragione considerare il secondo fondatore di Casa Savoia. Il suo disegno fu subito chiaro: rendere alla Spagna tali servizi da indurla a fargli restituire i domini paterni occupati dai francesi; perciò egli aveva combattuto alla testa degli eserciti di suo zio Carlo V. Vincitore a San Quintino (10 agosto 1557), ebbe la desiderata ricompensa: in virtù del trattato di Chateau-Cambrésis (3 aprile 1559), il re Enrico II di Francia fu costretto a rendergli la Savoia ed il Piemonte [(1) Trattenne pero ancora fino al 1562 Torino, Chieri, Chivasso, Villanova d'Asti, e fino al 1574 Pinerolo e Val Perosa]. E la pace fu suggellata da un duplice matrimonio: quello di Filippo II di Spagna con Elisabetta, figlia del re di Francia, e quello di Emanuele Filiberto con Margherita di Valois, sorella del medesimo re, Enrico II.

I tre contraenti s'erano altresì impegnati, con un articolo segreto, ad estirpare la fede evangelica dai loro Stati. Per ciò Emanuele Filiberto, sebbene la sua sposa avesse manifestato simpatia per la Riforma e dovesse diventare la naturale protettrice dei Valdesi, si affrettò a lanciare da Nizza, sua prima residenza, il tremendo editto del 15 febbraio 1560, col quale vietava assolutamente di recarsi a udire le prediche dei riformati, pena cento scudi per la prima volta, e, per la seconda, la galera a vita, lasciando ai delatori la metà delle pene pecuniarie imposte.

La esecuzione di questo editto, e di altre più severe disposizioni che seguirono, venne commessa a Filippo di Savoia, conte di Racconigi, cugino del duca, a Giorgio Costa, conte della Trinità, ed all'inquisitore Giacomelli. Nella pianura, la repressione incominciò immediatamente, fin dal mese di marzo. A Carignano salirono sul rogo il francese Maturin, la sua eroica moglie Giovanna che sponteamente aveva voluto condividerne la sorte, e un certo Giovanni di Cartignano. Il pastore di Meana di Susa fu arso a fuoco lento, e così pure a Pinerolo il pastore di San Germano, Giovanni Lauversat. Quei che non salirono sul rogo furono gettati nelle galere; alcuni abiurarono, molti fuggirono in Svizzera, tutti ebbero i beni confiscati.

I Valdesi vedevano dunque il cerchio terribile stringersi gradatamente attorno alle loro Valli. L'editto cominciava ad entrare in vigore nelle valli di San Martino e del Chisone, e trattavasi di farlo osservare in quelle di Luserna e d'Angrogna; i signorotti locali (specialmente Guglielmo Rorengo in vai Luserna ed i Truccetti in val S. Marcino) erano impazienti di arricchirsi con le spoglie delle vittime, ad eccezione però del conte Carlo di Luserna il quale diede invece prova di vera umanità verso le popolazioni minacciate. Anche il conte di Racconigi era ben disposto verso i Valdesi e fece il possibile per scongiurare il pericolo che li minacciava; ma inutilmente, tanto più che da Roma il papa Pio IV aveva fatto sapere al duca essere sua volontà che si agisse energicamente.

Pertanto, il 1° novembre il conte Costa della Trinità prese il comando della spedizione e diede principio alle ostilità, accampandosi a Bibiana con un esercito di quattromila uomini. Il numero dei soldati assalitori andò crescendo durante ilcorso delle operazioni. Fallito un primo attacco contro Angrogna, il Costa s'acquartierò a Torre, di cui faceva ricostruire il castello smantellato; poi sospese le operazioni e tentò di vincere con l'astuzia. Piuttosto che astuzia la sua fu doppiezza, e ne diede ripetute prove durante la guerra. Propose dunque ai Valdesi di mandare una deputazione al Duca, che trovavasi a Vercelli, lasciando sperare una favorevole soluzione. Partirono trentaquattro fra i principali capi-famiglia, per promettere leale obbedienza in cambio della libertà di culto; ma nel frattempo il conte della Trinità preveniva il Duca dell'arrivo dei deputati, così scrivendo: «Li farò andar loro a presentarsi col laccio al collo»; e quattro giorni dopo si dichiarava pronto allo sterminio: «Se vuole ch'io li scacci e che ne lasci ben pochi, lo farò, perchè adesso ho i passi aperti e ho le mani nei crini e il tempo serve» [Mise. Patria, mss. f. 31, nella Biblioteca Reale, Torino, n. 154. “Nelle sue lettere al Duca, il Costa non si stanca mai di chieder danari, danari e danari. Pino al marzo prospetta l'impresa come cosa da sbrigarsi in pochi giorni... appena avesse ricevuto quattrini”. Ma dopo il 3 marzo, il tono cambia....].

Mentre a Vercelli i deputati vengono trattenuti come ostaggi e spinti perfino all'abiura, nelle Valli gli abitanti, che devono star sulla difensiva per salvar gli ostaggi, subiscono ogni sorta di vessazioni: consegnano le armi, mandano via i ministri che si ritirarono in Val Pragelato, sborsano fortissime somme per pagar le spese di mantenimento delle soldatesche. Almeno se queste cessassero di sacchegiare! Ma no; le loro ribalderie giungono a tale segno che i cattolici di Torre condussero le loro figlie su nelle montagne, affidandole ai Valdesi, perché temevano la violenza di quella canaglia.

Ritirata finalmente in gennaio 1561 la deputazione da Vercelli e scoperto il perfido gioco del signor conte, i Valdesi non esitano più, decidono la resistenza a oltranza. Chiedono aiuto ai loro fratelli del Delfinato e del Pragelato, i quali accorrono premurosi insieme con i ministri ed in una solenne riunione, tenuta a Bobbio il 22 gennaio, giurano di rimanere tutti uniti fino alla morte per difendersi reciprocamente.

A quest'epoca risale l'istituzione della famosa compagnia volante, composta di un centinaio di archibugieri agili e robusti che accorrevano con rapidità fantastica attraverso i monti verso i punti più minacciati; questa compagnia ebbe gran parte più tardi nella difesa delle Valli.

I Valdesi presero l'offensiva, impadronendosi dei forte del Villar; il Costa dal canto suo assaliva da Luserna il paesello di Rorà e ne avrebbe massacrati gli (abitanti, se non fosse giunta intempo la compagnia volante a proteggerne la ritirata sul Villar. Ma l'obiettivo che il conte della Trinità si proponeva di raggiungere al più presto era la conquista di Pra del Torno. Dopo vari insuccessi, il 3 marzo, egli sferrò un assalto su nella valle d'Angrogna, con numerose truppe fresche, divise in tre colonne, di cui una risaliva il fondo della valle lungo il torrente, e le altre due s'avanzavano seguendo le alture. L'azione fu strategicamente abile e sostenuta con grande energia, ma tanto più grave risultò la sconfitta che ne seguì; il Costa nella sua relazione riconobbe d'aver perso una decina di ufficiali e quattrocento soldati, senza contare i feriti, mentre le perdite valdesi sommavano a non più di quattordici uomini.

Gli assalitori rimasero addirittura sbalorditi e si dicevano l'un l'altro, demoralizzati: «Iddio combatte per costoro!». Dopo una tregua, durante la quale il conte della Trinità aveva organizzato una spedizione in Val S. Martino per liberare il forte del Ferrerò, eccolo ritornare più ostinato che mai a tentare un ultimo sforzo. Per riuscire, ricorre ancora una volta all'inganno. Il 28 aprile, fìngendo di voler riprendere i negoziati, fa salire ad un paesello situato alle falde del monte Vandalino, chiamato Tagliaretto, una compagnia di soldati; gli abitanti, che hanno avuto il torto di fidarsi delle sue parole di pace, son passati a fil di spada, senza combattimento; cosicché da quel lato la via è aperta su Pra del Torno, mentre il grosso della truppa attacca la Rocciaglia, così famosa dal 1484 in poi. Ma la compagnia volante veglia, accorre fulminea ad un passo angusto, resiste eroicamente, dà l'allarme a tutti alla valle, dove entrano in azione le artiglierie valdesi, cioè i macigni che precipitano con rimbombi e scoppi paurosi; e gli assalitori ancora una volta volgono le spalle, inseguiti fino alle porte di Torre Pellice. Quella sera stessa il comandante in capo delle truppe ducali, Giorgio Costa conte della Trinità, si trasferiva da Torre a Cavour, adducendo... motivi di salute. La guerra era finita; i soldati si sbandavano e non volevano assolutamente più saperne di attaccare «i barbetti» [I cattolici piemontesi per designare con sprezzo i Valdesi coniarono l'espressione «barbetti», perchè essi chiamavano «barba» i loro ministri] . I partigiani della pace, specialmente Filippo di Racconigi e la Duchessa, finirono col persuadere Emanuele Filiberto che gli conveniva, per quanto il suo orgoglio ne soffrisse, entrare in trattative con quei sudditi i cui rappresentanti erano stati così indegnamente trattati a Vercelli appena sei mesi prima.

I Valdesi furono dunque invitati a mandare i loro deputati e, dopo un mese di negoziati, la pace venne firmata a Cavour, il 5 giugno 1561. Per essa si assicurava la tolleranza del culto valdese, limitato però alle località alte, cioè vietato nel piano di Torre e sul territorio di Luserna e di San Secondo. Il culto cattolico, invece, doveva esser libero ovunque: in ogni comune i pret ipotevano celebrare la messa.

Così l'esistenza della Chiesa Valdese in Piemonte era ufficialmente riconosciuta. Il seguito degli avvenimenti ci dirà se i patti furono poi scrupolosamente osservati; intanto, è certo che senza i buoni uffici della duchessa Margherita e la lealtà di Emanuele Filiberto, il trattato sarebbe stato fin dal principio lettera morta. Basti dire che il Duca «Testa di ferro» dovette resistere al papa Pio IV, il quale gli rimproverò di aver firmato la pace con gli eretici, dopo di avergli fatto spendere tanti danari nella guerra contro di loro e di non avere agito col rigore esemplare usato da Filippo II nel distruggere la colonia di Calabria. « Ecco — replicò il Duca di Savoia —io faccio differenza tra i miei sudditi Valdesi e i sudditi del re di Spagna. D'altronde, la pace è necessaria per il benessere dei miei Stati». E stette fermo.