Storia/Storia dei Valdesi/Le Pasque piemontesi

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XIII. Le Pasque piemontesi

L'anno 1655 ricorreva il primo centenario dell'istituzione del culto pubblico nelle Valli; avrebbe potuto essere un anno di lieta commemorazione, ma doveva invece segnare una data fra le più lugubri che la storia valdese ricordi. La «Società di Propaganda» accennava ormai a voler rinunziare alle sue arti subdole per ricorrere apertamente alla violenza. Nel cuore del rigido inverno, il 25 gennaio, il commissario ducale Andrea Gastaldo intimò a tutti i Valdesi residenti nel territorio di San Giovanni e nella pianura di abiurare ovvero di ritirarsi entro tre giorni sulle montagne coperte di neve, nei limiti fissati dal trattato di Cavour per la predicazione pubblica. A tale intimazione iniqua e crudele tutti quanti i Valdesi risposero rifugiandosi verso Rorà, Bobbio e nella Valle d'Angrogna, lasciando le loro case in balìa dei saccheggiatori; non uno pensò di rinnegare la fede.

Durante circa un paio di mesi essi presentarono più volte per iscritto le loro rispettose richieste al Duca ed a Madama Cristina; ma sempre invano. Allora si decisero ad inviare una deputazione. Giunti a Torino, i deputati vi furono trattenuti per diverso tempo con mezze promesse e con ogni sorta di pretesti, finché venne loro fissata una udienza presso il ministro del Duca, marchese di Pianezzia, per il 17 aprile. Perfido inganno! Proprio quel giorno il Pianezza invadeva la valle di Luserna e occupava Torre con un'avanguardia di circa settecento uomini, ai quali tenne dietro un corpo di spedizione di non meno di quindicimila soldati piemontesi, bavaresi, irlandesi e francesi.

Sotto il nome di Pasque Piemontesi sono conosciuti gli orrori che seguirono. Il 18 aprile era la domenica delle Palme; la soldatesca di Pianezza salutò la settimana santa col grido: “Viva la Santa Chiesa Romana! Guai ai Barbetti!”. Armatisi in fretta, i Valdesi sotto la guida del capitano Bartolomeo Jahier respinsero in varie scaramucce i primi assalti; ma il Pianezza aveva il suo piano e non intendeva combattere a quel modo. II mercoledì, infatti, convocava a Torre alcuni dei principali Valdesi che ben presto si lasciarono persuadere, nonostante il parere contrario ed i savi avvertimenti di Giovanni Léger, ad alloggiare nelle loro case le truppe ducali per brevi giorni. Poveri ingenui montanari, sempre così facili da credere alla buona fede dei loro spietati persecutori! I soldati si sparsero dunque nei villaggi circonvicini, fino a Bobbio e ad Angrogna, albergando presso tutte le famiglie che trepidanti li accolsero sotto ai loro tetti, a metà rassicurate dalle dichiarazioni del marchese di Pianezza il quale andava promettendo solennemente che, in seguito a sì evidente prova di fiducia e di devozione al Duca, la vita e la proprietà di tutti sarebbero state scrupolosamente rispettate.

Ma quale risveglio spaventoso fu mai quello del 24 aprile! Era la vigilia di Pasqua. Poco prima che schiarisse l'alba, un grande falò acceso sulle rovine del forte di Torre diede il segnale convenuto per l'orrenda strage che giustamente fu chiamata la San Bartolomeo valdese. Come descrivere i particolari di quel massacro in cui la più mostruosa ferocia ebbe libero sfogo? Ce li presentano le narrazioni di Giovanni Léger e di Samuel Morland, le quali furono naturalmente tacciate di esagerazione dagli interessati ad attenuare la gravità delle gesta criminose, ma che sono convalidate da testimonianze numerosissime, di fonte non valdese. Purtroppo la esattezza di quei particolari non può essere onestamente contestata; essi appartengono alla storia che non si cancella. Uomini inermi mutilati, scorticati, squartati; infermi e vegliardi lungamente martirizzati; pargoletti strappati alle braccia materne e sfracellati contro le rocce fanciulle e donne oltraggiate e poi scaraventate nei precipizi, quando non venivano decapitate o impalate lungo la via o sotterrate vive. La penna cade di mano a chi volesse descrivere o soltanto ricordare più minutamente codeste scene di barbarie, cui non si può pensare senza fremiti di raccapriccio e senza sentirsi pervasi da un senso profondo di sdegno e di umiliazione insieme: è ben vero che la ferocia delle belve non uguaglia quella dell'uomo, il quale è capace d'infamie che lo degradano al cospetto dei bruti! Le povere vittime di quelle crudeltà spaventose sommarono nei primissimi giorni ad oltre un migliaio di morti nella valle di Luserna; non contiamo tutti coloro che, gettati nelle carceri, vi perirono dopo lunga agonia, né quelli che caddero nei vari combattimenti successivi. E' superfluo aggiungere che al massacro della popolazione s'accompagnavano il saccheggio e l'incendio delle case, la devastazione di ogni proprietà, la distruzione dei luoghi di culto. I fanciulli scampati al' macello venivano rapiti e distribuiti in tutto il Piemonte, presso famiglie che dovevano educarli nella religione di coloro che li avevano resi orfani. La storia dei tragici avvenimenti, che si svolsero fra la strage di Pasqua e la cessazione delle ostilità in agosto, è strettamente connessa con l'opera meravigliosa di tre eroi, cui si deve se il popolo valdese non andò interamente dìstrutto.

Il primo è il moderatore Giovanni Léger, che aveva potuto ritirarsi in tempo, con i fuggiaschi della Valle d'Angrogna, sulla riva sinistra del Chisone, cioè su terra di Francia. Il 28 aprile, con pronta e felicissima risoluzione, egli parte di gran carriera alla volta di Parigi, per denunziare all'Europa intera le infamie che si stavano commettendo contro il piccolo popolo valdese; ed infatti, appena giunto a Parigi, il 1° maggio, Léger lancia un manifesto alle nazioni protestanti, suscitando immediatamente una potente ondata di sdegno contro i massacratori e al tempo stesso manifestazioni di generosa solidarietà verso le loro vittime. In Inghilterra, Oliver Cromwell bandì un digiuno nazionale, aprì una pubblica sottoscrizione, incitò i governi protestanti a muoversi; segretario particolare del Cromwell era il grande poeta Milton, il quale compose un sonetto ormai famoso, che ebbe subito una diffusione e produsse una sensazione straordinarie. Esso comincia così: “Vendica i Santi tuoi, Signor, le cui ossa biancheggian fredde su l'alpina vetta, e che pura serbar tua fede eletta!”.

La Svizzera aveva anch'essa proclamato un digiuno federale e lanciato un appello in favore dei Valdesi. Perfino i principi cattolici come Luigi XIV, sentirono rossore per quelle Pasque di sangue, tanto che il cardinale Mazarino, nonostante le sollecitazioni di Madama Cristina, non ivietò ai perseguitati di rifugiarsi in Francia.

E' facile immaginare la vergogna e irritazione che, di fronte a questo atteggiamento, dovette provare il governo ducale. Com'era da aspettarselo, si scagliò subito contro il moderatore Léger, tentando di smentire le sue denunzie e accusandolo di avere esagerato i fatti e quasi quasi di averli inventati di sana pianta! Per poco gli apologisti cattolici stavano trasformando la strage in un mito! Ma il Léger aveva avuto accorgimento di raccogliere deposizioni di testimoni oculari, debitamente legalizzate, e quindi ogni insinuazione calunniosa contro la sostanza delle sue narrazioni non poté reggere. Fino dal mese di maggio la testa del moderatore G. Léger fu messa a prezzo, con una taglia di 500 ducati. E così egli era costretto a rimanere all'estero, dove però continuava a compiere un'opera efficacissima in favore dei suoi miseri correligionari.

Nelle Valli., frattanto, la resistenza eroica era guidata e quasi impersonata da una magnifica figura di condottiero: Giosuè Gianavello, il leone di Rorà.

Il comunelle di Rorà, che non aveva albergato le soldatesche ducali, era scampato alla strage del 24 aprile; ma il Pianezza non l'aveva dimenticato e volle ad ogni costo impadronirsene. A tal fine per cinque giorni consecutivi fu costretto a lanciare all'assalto le sue truppe sempre più numerose ma sempre respinte da un pugno di montanari capitanati dal Gianavello. Era questi allora nella forza dei suoi trentotto anni; uomo di pietà semplice e schietta possedeva in grado eccezionale! quell'acume sicuro, quella maschia e pronta energia che sono le doti essenziali dei grandi capitani, talché, dopo di avere esercitato un ascendente straordinario e dopo di avere goduto d'una grandissima autorità fra i suoi contemporanei, diventò nei secoli successivi eroe leggendario. In quelle giornate tremende, sulle alture di Rorà egli rinnovò le imprese meravigliose di un Gedeone dell'antico Israele: diciassette uomini, raggruppati attorno a lui ed elettrizzati dal suo esempio, sentirono moltiplicarsi le forze in modo prodigioso tanto che combattendo disperatamente, con abile tattica e audacissimi stratagemmi nascondendo al nemico l'esiguità del loro numero, riuscirono ad infliggere gravi, perdite a reggimenti interi che, talora per sentieri diversi, salivano il vallone di Rorà. «Alla messa entro ventiquattr'ore o alla morte!» intimava il Pianezza, esasperato per quella incredibile resistenza. «Mille volte meglio la morte piuttosto che la messa!», a lui veniva fieramente risposto.

Alla fine, il marchese raccoglie tutte le truppe (non meno di dieci mila armati!) ed il giorno 4 maggio assalta Rorà da tre parti contemporaneamente. Mentre Gianavello respinge una delle tre colonne, le altre due raggiungono la località Rumer, dove s'è rifugiata la popolazione non combattente e vi fanno una tremenda carneficina di donne, di vecchi e di fanciulli. Più di duecento persone perirono in tal guisa barbaramente trucidate, ed altre furono ferite e fatte prigioniere, fra le quali la moglie e tre figlie di Gianavello. Dì questa preziosa cattura il marchese di Pianezza non mancò di trarre profitto, promettendo al prode capitano protezione e ricchezze se avesse abiurato e minacciandolo, in caso contrario, di bruciare vive la moglie e le figlie e di mettere la sua testa a prezzo. Ma Gianavello, che era un pio credente oltre che prode capitano: «Non v'è tormento così atroce — rispose — né morte così crudele ch'io non li preferisca all'abiura della mia religione; e tutte le promesse e le minacce del Marchese non riescono che ad aumentare e fortificare la mia fede. Se il Marchese farà passare per le fiamme i miei cari, non potrà far di più che distruggere i corpi; le loro anime io le raccomando a Dio, come anche la mia, se mai avvenga ch'io cada nelle mani del Marchese!». Non gli rimaneva che un figlioletto di otto anni; lo prese e se lo portò in Francia, in Val Queyras, accompagnato da alcuni pochi fuggiaschi.

Ma di lì a poche settimane eccolo ritornare al di qua della frontiera per porgere aiuto ad unaltro valoroso capitano, Bartolomeo Jahier, di Pramollo, il quale, indipendentemente da lui, era venuto organizzando la riscossa con grande successo sul versante destro delle Valli di Perosa e di San Martino, e nella Valle d'Angrogna. Egli era riuscito a raggruppare circa cinquecento uomini, risoluti a far sgombrare la Valle di Luserna dalle truppe ducali, irlandesi e piemontesi in maggior parte, che seguitavano a devastarla. Jahier e Gianavello, insieme uniti, guidando un migliaio di valorosi ch'erano del continuo rafforzati dai nuovi venuti dal Queyras e dal Pragelato, ripresero una violenta offensiva infliggendo ripetute sconfitte ai soldati del Pianezza, finché il 15 giugno, durante un furioso combattimento presso il Verné di Angrogna, Gianavello cadde gravemente ferito. Trasportato su di una barella a Pinasca in territorio francese, rimase tra la vita e la morte per alcuni giorni; finalmente la sua fibra robusta trionfò. Ma purtroppo un'altra sciagura, e questa irreparabile, colpì i Valdesi la notte stessa che seguì il combattimento del Veriné: l’ardito capitano Jahier, più temerario che avveduto, dimenticando il consiglio estremo di Gianavello di far riposare le truppe stanche, non seppe resistere alla tentazione di calare nella pianura a sorprendere il nemico che vi si era ritirato; un traditore lo attrasse in una imboscata presso Osasco, dove soverchiato dai nemici cadde crivellato di colpi, combattendo fieramente alla testa d'un manipolo di prodi.

In seguito alla grave ferita di Gianavello ed alla morte del Jahier i Valdesi si trovavano dunque privi dei loro due grandi capitani. La situazione s'era fatta assai critica. A quale partito appigliarsi? Altro non rimaneva loro che ritirarsi sulle alture della Vacoera e starvi sulla difensiva aspettando rinforzi. Così fecero.

Frattanto il moderatore Giovanni Léger, agitando ovunque all'estero la pubblica opinione, affrettava l'ora della liberazione. Mentre il papa Alessandro VII felicitava la corte di Savoia di aver saputo sterminare così gran numero di eretici, tutti gli Stati europei, e principalmente la Svìzzera, l'Inghilterra e i Paesi Bassi, non esitarono a muovere al duca Carlo Emanuele le energiche rimostranze mediante lettere e ambasciatori: la Svizzera mandò a Torino Gabriele Wyss a perorare la causa dei Valdesi e Cromwell a sua volta vi mandò Samuele Morland, il quale fece opera efficacissima in favore dei perseguitati e pubblicò più tardi ,una narrazione di tutti questi avvenimenti. L'Olanda s'era unita all'Inghilterra ed alla Svizzera nell'inviare abbondanti soccorsi finanziari, e dalla Francia parecchi ugonotti, ufficiali e soldati, si disponevano ad offrire il loro sangue in difesa dei santi principi conculcati in maniera così atroce nelle Valli; e già non pochi avevano varcato la frontiera. Di guisa che quando nel mese di luglio Giovanni Léger — nonostante la taglia che tuttora lo minacciava ed una condanna a morte emanata contro di lui in base ad una infame calunnia [Era stato accusato, e condannato a morte, in contumacia, per la deposizione dell'assassino di un curato di Fenile, che asseriva d'essere stato incaricato di codesto delitto dal Léger. Restò poi provato che il mandatario era stato lo stesso prefetto Rossano, il denunziatore di Léger!] — fece ritorno nella valle d'Angrogna, poté rianimare grandemente i difensori. Lo accompagnavano alcuni ufficiali, fra cui il colonnello Andrion. Questi giungeva proprio in tempo per dirigere, il 12 luglio, la battaglia del Castelletto delia Vaccera ed il travolgente contrattacco che sbaragliò interamente le truppe del generale Maroles. Nel vedere ritornare i fuggiaschi decimati, il sindaco di Luserna non potè trattenersi dall'esclamare: «Altre volte i lupi mangiavano i barbetti; ora par venuto il tempo che i barbetti mangiano i lupi!». Giunse ancora dalla Francia il generale Descombies e seguirono altri scontri e perfino un assalto alla Torre che per poco non fu riconquistata. Ed altre imprese stavano preparandoci quando il Duca, in seguito alle pressioni che gli ambasciatori svizzeri e il Morland ed anche Luigi XIV avevano esercitato su di lui, si decise ad intavolare negoziati di pace.

Le trattative iniziate a Pinerolo ai primi d'agosto si proseguirono alla presenza degli ambasciatori svizzeri (il Duca non aveva voluto attendere l'arrivo di quelli d'Inghilterra e dei Paesi Bassi) durante un paio di settimane; e finalmente il 18 agosto venne firmato il trattato di pace cui il Duca volle dare il nome di Patenti di grazia. Vi si cominciava col dire che per aver preso le armi contro il loro Sovrano i Valdesi meritavano d'essere puniti ma il Duca «volendo far noto al mondo con quanta tenerezza ami i suoi popoli» faceva loro la grazia e stabiliva: a) Amnistia generale ; annullamento, quindi, dei bandi contro Léger, Gianavello ed altri capi; b) Permesso a chi aveva abiurato negli ultimi tempi di ritornare alla fede degli avi (si trattava di una quarantina di disgraziati prigionieri cui era stata imposta l'abiura nel Duomo di Torino). Permesso di abitare nel comune di San Giovanni, ma senza tenervi culto pubblico, c) Obbligo di vendere le proprietà sulla riva destra del Pellice, sotto Luserna, e divieto di abitarvi, e) La celebrazione della messa ristabilita ovunque, senza obbligo da parte dei Valdesi di assistervi; f) Scambio dei prigionieri e restituzione dei fanciulli, se reclamati.

In base a quest'ultima clausola furono liberatela moglie e le figlie di Gianavello. Ma quanto ai fanciulli, chi non vede come essa fosse equivoca? Quale speranza c'era che fossero ricuperati tanti orfani rapiti, dispersi e nascosti?

D'altronde, le cosiddette «Patenti di grazia» non assicurarono ai Valdesi la pace, perchè non tardarono lad essere ripetutamente violate dalle autorità ducali. Col pretesto di applicare certe clausole del Trattato di Pinerolo, si commisero attentati contro le proprietà ed i capifamiglia, ch'erano citati a Torino e, se non comparivano subito, venivano condannati a morte in contumacia. Tale fu il caso di Gianavello. Anche il moderatore Giovanni Léger, bersagliato dalle calunnie degli implacabili avversari, per mettersi in salvo dovette riparare in Svizzera; di là passò in Olanda, dove fu pastore e pubblicò la sua celebre «Storia Generale delle Chiese Valdesi», l'anno prima della sua morte, che avvenne nel 1670, a Leida.

Dopo le guerriglie provocate dalle angherie d'un Castrocaro redivivo, il conte Bartolomeo di Bagnolo, si ebbero nelle Valli una ventina d'anni di tranquillità relativa. Forse quel' breve periodo di calma fu in parte dovuto al fatto che nei 1663 era morta Maria Cristina, certamente non rimpianta dai Valdesi; nel 1675 la seguì nella tomba il duca Carlo Emanuele II, il quale lasciò in età di dodici anni il figlio Vittorio Amedeo II. La reggenza fu quindi tenuta fino al 1683 dalla madre del duchino, Giovanna di Nemours.

(13, continua)