Storia/Storia dei Valdesi/Persecuzioni nel Delfinato e in Piemonte

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IX. Persecuzioni nel Delfinato e in Piemonte (1536-1559) 

Se dalla Provenza passiamo ora nel Delfinato ed in Piemonte, vi troviamo non una strage ma una serie quasi ininterrotta di martiri.

Ecco primo di tutti, nel 1536, quel coraggioso e zelantissimo barba Martino Gonin, che per i suoi frequenti viaggi fra le Valli Valdesi e la Svizzera ben può chiamarsi il colportore della Riforma. Di ritorno appunto da Ginevra ed arrestato come spia sul colle d'Orsière, stava per essere assolto quando il carceriere, nella prigione di Grenoble, gli trovò cucite nella fodera delle vesti alcune lettere di protestanti ginevrini, per cui venne processato e condannato a morte per eresia. Fu strangolato e annegato nell’Isère. Aveva trentasei anni.

Atroce fu il supplizio di Stefano Brun, semplice agricoltore e padre di numerosa famiglia, arso vivo ad Embrun. La morte liberatrice fu lenta a venire, ma egli l'attese con una fermezza meravigliosa. Ai suoi giudici aveva detto: «E che volete voi farmi? Condannarmi alla morte? V'illudete: voi mi date la vita!».

Tralasciando, per brevità, di menzionare altri gloriosi martiri del Delfinato, varchiamo il confine per osservare quello che è avvenuto in Piemonte avanti e durante la occupazione francese. Qui troviamo all'opera un tal P. Bersare, signore di Roccapiatta, zelantissimo al servizio delduca Carlo III. Nell'estate 1535, proprio all'epoca del secondo sinodo di Chanforan, il Bersore aveva schierati i suoi sgherri allo sbocco delle Valli, e s'era impadronito di parecchi Valdesi, fra cui anche qualche sentinella del sinodo, e più ne avrebbe arrestati, se quei d'Angrogna con una calata vittoriosa non lo avessero respinto. Purtroppo gli cadde fra le mani il pastore Antonio Sauniere già le condizioni del prigioniero sembravano disperate, quando Ginevra per rappresaglia arrestò un certo frate savoiardo. Allora Carlo accettò di fare lo scambio dei prigionieri ed in tal modo il Saunier fu salvo'.

Non si salvò, invece, Catalano Girardet, di San Giovanni, che salì sul rogo a Revello, presso Saluzzo, confessando con mirabile fermezza la propria fede. Per buona ventura, la persecuzione di cui il duca Carlo III, cosi detto «il Buono», aveva dato incarico al Bersore, fu interrotta dall'occupàzione francese. Infatti, nel 1536 Francesco I; per necessità di guerra contro l'imperatore Carlo V, pensò bene di occupare il Piemonte, senza tanti riguardi verso il duca zio Carlo, che dovette ritirarsi a Vercelli.

Questo periodo d'occupazione francese, che si prolungò fino al 1559, può dirsi che abbia concesso una tregua relativa agli abitanti delle Valli (Durante quegli anni i Francesi demolirono i principali castelli feudali, fra cui la famosa Torre dei Rorengo, da cui prese il nome la cittadina di Torre Pellice). I quali se poterono accogliere ministri forestieri e costruire templi, diffondendo le idee della Riforma, lo dovettero non, già alla tolleranza dei nemici (abbiamo visto in Provenza di che tolleranza fosse capace F'rancescoI!), ma piuttosto alle complicazioni politiche, per cui sì usavano riguardi verso le popolazioni di confine. Del resto, sebbene i governatori francesi fossero talvolta assai liberali — ce ne fu anzi uno di fede apertamente riformata (il Conte Guglielmo di Fustemberg, nel 1537) — pure non bisogna credere che la pace sia regnata fino all'ultimo. Nel 1556, infatti, il Parlamento di Torino mandò una delegazione ad Angrogna per intimare la cessazione del culto, pubblico, inaugurato l'anno precedente. I Valdesi rifiutarono d'obbedire, rispondendo: «Se tollerate gli Ebrei ed i Saraceni che sono i nemici del nome di Cristo, lasciateci vivere in pace nei nostri monti, quando dovete convenire che adoriamo Iddio e crediamo nel Redentore». Ma i due commissari replicarono bruscamente: «Questo non ci riguarda. Vi ordiniamo di consegnarci i vostri ministri e i vostri maestri ». Seguì, naturalmente, un nuovo reciso rifiuto dei Valdesi; allora il presidente di San Giuliano si ritirò, cavandosela con un motto di spirito : « Ebbene, ve li lasciamo in custodia » (P. Giulio, Hist, eccl. des Egl. Vaudaise», I, 99).

Ma fuori della sicura custodia delle Valli le vie erano assai pericolose per i ministri. Così nel 1555 cinque di essi, fra i quali Giovanni Vernou, nel venirsene da Ginevra per stabilirsi quali pastori nelle Valli, furono arrestati in Savoia e arsi vivi a Chambéry. Due anni dopo era la volta del giovane ventiseenne Nicolò Sartorio, arsovivo ad Aosta, figlio di Leonardo Sartorio, morto assiderato nel 1556 in fondo al suo carcere di Torino.

Menzioneremo ancora due eroi che affrontarono il supplizio per il nome di Cristo, nella capitale del Piemonte: un colportore francese ed un pastore piemontese.

Il primo, Bartolomeo Hector, di Poitiers, era venuto attraverso il Delfinato a spargere nelle Valli del versante italiano Bibbie, Salteri, l'Istituzione Cristiana di Calvino e libri di pietà. Un giorno che, nell'estate 1555, scendeva dalle alture di Angrogna verso la valle di San Martino, fu arrestato sopra Riclaretto dai tirannelli di quella località, i Truccetti. Dal processo, iniziato a Pinerolo e condotto a termine a Torino, risultò chiaro che questo modesto colportore conosceva la sua Bibbia assai meglio che i predicatori i quali lo giudicavano. Salì con fermezza il rogo a Piazza Castello, il 20 giugno 1556.

Il pastore piemontese che su quella medesima piazza subì uguale supplizio due anni dopo fu Giaffredo Varaglia, il martire più illustre di questo periodo e dinanzi al quale è doveroso soffermarsi un istante con sentimenti di riverenza. Nato a Busca nel 1508, era figlio di uno dei capitani che avevano guidato l'assalto contro i Valdesi nel 1484. A vent'anni era entrato nell'ordine dei Cappuccini, dove ebbe per vicario generale il celebre Bernardino Ochino, di Siena.

Giaffredo era molto eloquente, onde gli venne affidata la missione di predicare in tutta l'Italia contro «le eresie dei protestanti». Se non che, a misura che studiava da vicino codeste pretese eresie nasceva e si rafforzava in lui la convinzione ch'esse racchiudevano invece la verità cristiana. E quanti altri onesti cercatori del vero fecero la medesima esperienza! La predicazione del Varaglia lasciò senza dubbio intravedere il cambiamento che stava effettuandosi nell'anima sua, perchè, caduto in sospetto, fu sottoposto a Roma a cinque anni di sorveglianza speciale. Più tardi diventò cappellano presso il nunzio pontificio a Parigi, finché nel 1556 sentì di non potere più a lungo ricalcitrare contro gli stimoli della coscienza; perciò decise di abbracciare apertamente la fede evangelica. E si recò senz'altro a Ginevra. Calvino l'ebbe in grande stima, talché non esitò a mandarlo, nel maggio 1557, a fianco del pastore Noel ad Angrogna, con incarico di predicare in italiano nel tempio del Ciabas, di recente edificato, per i fedeli di San Giovanni i quali avevano appunto chiesto l'invio di un predicatore. Durante cinque mesi Giaffredo Varaglia annunziò l'evangelo con grande efficiaca in quel tempio affacciato sulla pianura, e anche da lontano le genti accorrevano a udirlo. Ma accadde purtroppo che, in un giorno di novembre di quello stesso anno, mentre se ne ritornava da Dronero e dalla natia Busca dov'era stato invitato ad esporre le dottrine riformate, venne arrestato presso Barge. Condotto a Torino, giacque durante quattro mesi in fondo ad un oscuro carcere, dal quale riuscì a scrivere ai suoi fratelli delle Valli due preziose lettere per esortarli e confortarli: «Fui menato in un grottone e serrato ivi dentro con ferri ai piedi di sessanta libbre, dove per l'umidità del luogo subito mi si gonfiò la testa. Ma non mi fu lontano il Signore Padre di misericordia, anzi se ne venne a star meco dì e notte, dandomi tale conforto di dentro che nulla o poco sentivo il mal di fuori». L'atteggiamento e le parole del prigioniero impressionarono profondamente quanti le udirono; ma la sua sorte ormai era decisa «sulla domanda mossa dal pontefice al Re di Francia», Egli ammonì i giudici che si macchiavano inutilmente del suo sangue, perchè, diceva,«verrà meno la legna prima che i ministri di Cristo smettano di predicare l'Evangelo». Il rogo, preparato sulla piazza Castello, vi aveva attirato una folla immensa. Il carcere si aprì, ed ecco il martire. Aveva cinquant'anni e pareva sereno e tranquillo come chi sa di avere dinanzi a se non la morte ma la vita imperitura.

Ma lasciamo parlare un testimone oculare: «Procedette dal carcere al rogo con tale fermezza e serenità, parlò con tanta allegrezza, che non credo già che gli apostoli e i martiri andassero più volentieri e con maggior coraggio alla croce ed alla morte. Non cessava di ammaestrare gli astanti e di esortarli a leggere le Sacre Scritture. Giunto sul rogo, espose in presenza di diecimila persone il motivo della sua morte giustificò la sua fede e proclamò la sua speranza nella vita eterna per Gesù Cristo. Dopo che ebbe per un'ora intera parlato del regno di Dio e della fede, e pregato per tutti i presenti, compresi i suoi persecutori, fu strangolato, appiccato e arso per la causa di Cristo, ricevendo così la corona del martirio; e molte genti, tratte per la sua morte alla luce, furono convertite alla fede cristiana». Era il 29 marzo 1558.

A Ginevra si rese lode a Dio che, per mezzo di Giaffredo Varaglia, l'Evangelo fosse così magnificato. Ed in verità la morte di quegli  eroi della fede era un trionfo, come nei primi secoli, talché potevasi ripetere il detto celebre di Tertulliano: “il sangue dei martiri è il seme della Chiesa”.