Storia/Storia dei Valdesi/Una serie di flagelli

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XII. Una serie di flagelli

Dopo il trattato di Cavour, i Valdesi non ebbero la pace che era stata loro promessa; furono anzi tribolati da una serie di flagelli di vario genere. Dapprima il governo infame d'un ribaldo Don Rodrigo, poi una invasione di frati, poi la peste, poi vessazioni e guerriglie che culminarono in una grande strage organizzata dalla Congregazione «per la propagazione della fede». Durante questo lungo periodo calamitoso —dal 1561 al 1655 — il povero popolo perseguitato continuò dunque a scrivere con lacrime ed a lettere di sangue la storia della sua fedeltà a Dio, il quale altresì fedelmente lo sostenne su sucitando nel suo seno pastori e capitani, mirabili eroi.

Un primo flagello che tormentò la popolazione valdese durante quasi vent'anni fu il tirannico governatore Castrocaro [Così chiamato dal paesello della Romagna toscana in cui era nato; il suo nome era Sebastiano Grazioli], anima ipocrita e venale che alla duchessa Margherita lasciava credere di proteggere i Valdesi e all'arcivescovo prometteva di angariarli in tutti i modi. Dal giorno in cui si fu stabilito nel castello di Torre (aprile 1565) incominciarono le sue vessazioni: denunzie, sequestri di persone, multe ad ogni istante e con ogni pretesto, protezione delle nefandezze innumerevoli commesse dalla soldatesca con a capo il suo ignobile figliuolo Andrea. Fece cacciare in esilio, perché non suddito del Duca, il pastore di San Giovanni, Scipione Lentolo, napoletano, il quale attirava alle sue prediche nel tempio del Ciabas gran numero di riformati dalla pianura; e tormentò lungamente, fino a farlo incarcerare, il venerato pastore di Torre, Gillio dei Gilli, padre dello storico Pietro Gillio.

Ma le sopraffazioni e le ribalderie del cinico tiranno ebbero finalmente la punizione meritata. Un anno dopo la morte della duchessa Margherita, che nella sua ingenua bontà lo aveva sempre protetto, un nuovo delitto determinò il sollevarsi di tutte le ire, e specialmente dei signori di Luserna, contro di lui e contro il suo infame figliuolo. Citato dal duca Carlo Emanuele I, che nel 1580 era succeduto al padre Emanuele Filiberto, il nostro Don Rodrigo non si mosse. Allora il conte di Luserna ebbe l’ordine di sloggiarlo, il che fece di viva forza e con non meno viva soddisfazione dei valligiani, la mattina del 13 giugno 1582. Tratti a Torino, ì due prepotenti, padre e figlio, finirono i loro giorni in carcere.

Durante il lungo suo regno ( 1580-1630), il duca Carlo Emanuele I perseguitò meno apertamente i Valdesi che i riformati di Val di Susa, del territorio di Cuneo e del marchesato di Saluzzo. Perché? Semplicemente perché, così spesso in guerra con la Francia, aveva qualche interesse a mantenersi fedeli questi suoi sudditi di frontiera. D'altronde, se mancarono persecuzioni organizzate, non bisogna credere che ai Valdesi fossero risparmiati soprusi e angherie d'ogni genere. A quel flagello che era stato l'iniquo Castrocaro ne tennero dietro diversi altri.

Ecco anzitutto una invasione delle truppe del re di Francia, Enrico IV, guidate, dal capitano Lesdiguières. I Valdesi le avevano lealmente combattute, ma nell'autunno del 1592 passando con abile strategia da Perosa i francesi riuscirono ad occupare Bricherasio, i forti di Torre e di Mirabocco. Che potevano fare gli abitanti delle Valli? Non c'era che da sottomettersi, firmando un accordo col Lesdiguières, il quale era per buona ventura ugonotto e concesse loro completa libertà religiosa nei due anni del suo governo. Ma allorquando nel 1594 Carlo Emanuele ebbe riconquistata tutta la Val Luserna, gli avversari dei Valdesi non si lasciarono sfuggir l'occasione di accusarli come ribelli e traditori. Il Duca però riconobbe che l'accusa era infondata poiché anche i cattolici e gli stessi signori di quelle valli s'erano sottomessi ai francesi; anzi, dopo di essersi accertato personalmente che essi s'erano comportati con la massima lealtà, rivolse ad una loro delegazione, che gli si fece incontro al Villar, queste memorabili parole: «Siatemi fedeli e vi sarò buon principe anzi buon padre; e quanto alla vostra libertà di coscienza ed all'esercizio del vostro culto non voglio innovare nulla che li pregiudichi; e se alcuno penserà a darvi molestia, venite da me e provvederò», Purtroppo, tanto Carlo Emanuele quanto i suoi successori smentirono più volte con i fatti queste ed altre consimili belle parole. Dopo l'invasione delle truppe francesi, eccone un'altra ben più molesta: l'invasione dei frati. Durò anche assai più a lungo e provocò anzitutto numerose dispute pubbliche con i ministri, le quali altro effetto pratico non ebbero che d'inacerbire gli animi dei gesuiti e cappuccini, cui gli argomenti chiari e forti dei loro contraddittori chiudevano la bocca.

L'attività di questi frati missionari non si limitava alle dispute pubbliche; essi denunziavano, calunniavano, arrestavano, spadroneggiavano con violenza o con arti diaboliche; rapivano fanciulli e giunsero fino a far ottenere la grazia dei condannati a morte per reati comuni, per poi imporli quali consiglieri e anche sindaci ai comuni. Rendevano insomma la via intollerabile.

Altro flagello: le gesta dei cosiddetti banditi. Erano questi dei giovani condannati ingiustamente e banditi per causa di religione, i quali si tenevano sui monti, donde di quando in quando scendevano a commettere atti di rappresaglia e ad approvvigionarsi mediante la rapina. Fu una incresciosa storia; tutti n'erano impensieriti ed i pastori non mancarono di esortare e di redarguire severamente quei giovani esasperati. Naturalmente i soliti implacabili nemici dei Valdesi s'affrettarono ad invocare severe misure contro tutta la popolazione, come s'essa potesse esser tenuta responsabile degli eccessi di quegli sconsigliati. Ma la schiera dei banditi si sciolse prima che fossero cessate le provocazioni che ne avevano spigata l'origine.

Tosto si presentò un altro motivo o pretesto per nuove repressioni. Per rispondere alle crescenti esigenze spirituali delle loro comunità che andavano estendendosi nella pianura, i Valdesi s'erano costruiti dei templi fuori dei limiti fissati dal trattato di Cavour: quei di San Giovanni ne avevano uno nella località detta i Malanot, e sei nuovi ne contava la Val Perosa. I frati, manco a dirlo, si misero a strillare, denunciando queste infrazioni alla lettera degli editti ducali, cosicché dopo molte peripezie e forti multe i Valdesi di San Giovanni dovettero rassegnarsi a chiudere il loro tempio ed a salire di nuovo, per il culto, a quello del Ciabas, edificato sull'estremo limite del territorio d'Angrogna. Ma i sei templi della Valle dì Perosa furono invece così strenuamente difesi dalla popolazione contro le truppe mandate nel 1624 a demolirli, che si potè continuare a celebrare in essi il culto. Un'altra forma di repressione ebbe luogo nel 1627 per opera del senatore G. C. Barberi, incaricato dal giovane erede del trono Vittorio Amedeo di far rientrare «nei limiti» i Valdesi della pianura; ed apparve evidente che tutte queste misure nascondevano il fine di spogliare i proprietari dei loro beni, tanto è vero che il Barberi stesso finì coll’essere processato ed i suoia genti condannati come ladri e falsari. Non era purtroppo ugualmente possibile ricorrere a vie legali per sbarazzarsi dei frati che volpi e lupi ad un tempo, si rendevano sempre più odiosi ed insopportabili. Come cacciarli, se agli uomini era severamente proibito di toccarli? Ci pensarono le robuste contadine di Rorà e del Villar, le quali per farla finita senza dar loro pretesti di atteggiarsi a vittime di maltrattamenti, se li presero sulle spalle e li portarono via di peso, fuori dai paesi dove la loro presenza s'era chiarita piacevole e desiderabile quanto la peste.

Ma la peste venne davvero. Fu la terribile epidemia del 1630, descritta dal Manzoni nei suoi «Promessi Sposi», la quale infierì in tutta l'Italia settentrionale. Fece la sua apparizione nel mese di maggio allo sbocco della Val Perosa, portata dalle vittoriose milizie di Luigi XIII, o, per dir meglio, del vero padrone della Francia : il cardinale Richelieu. Da San Germano l'epidemia si propagò rapidissima su per i monti, con una mortalità cosi elevata che nel corso dell'estate perirono tredici pastori dei sedici che dirigevano allora le parrocchie ; e la popolazione moriva in proporzioni presso che uguali! Laonde i tre pastori superstiti, Pietro Gillio, Valerio Grosso e Giovanni Barthélemy, insieme con venticinque deputati delte chiese, tennero un colloquio il 7 ottobre in Angrogna, per prendere d'urgenza i provvedimenti che l'ora tragica imponeva. Il Gillio venne incaricato di sollecitare dai correligionari del Delfinato e di Ginevra l'invio di nuovi pastori; scrisse anche a Costantinopoli al ministro Antonio Léger, cappellano dì quella ambasciata dei Paesi Bassi. Di lì a poco giunse dalla Svizzera il primo pastore. Luigi Brunet, annunziante l'arrivo di altri in primavera.

Così i quattro pastori ressero come poterono tutte quante le chiese durante l'inverno, il cui rigore rallentò il corso dell'epidemia; ma nell'aprile successivo essa riprese a falciare largamente e uno dei primi a cadere fu il pastore di San Giovanni, Barthélemy. Rinunziamo a descrivere il terrore di quella povera gente; le condizioni degli infermi abbandonati, perchè i pochi medici erano stati, come i pastori, fra i primi a soccombere; le scene d'angoscia e anche d'egoismo feroce per la paura del contagio; lo spettacolo dei campi deserti, dei villaggi su cui gravava un silenzio di tomba e il lezzo dei cadaveri insepolti... Finalmente in luglio il flagello cessò. Si fece allora il lugubre inventario delle perdite: non meno di diecimila Valdesi erano morti! Parecchie famiglie erano sparite interamente e tutte quante si trovavano in lutto.

L'eroe fra gli eroi di questo tragico episodio è colui che ce ne ha tramandati i raccapriccianti particolari: il pastore e storico Pietro Gillio. Toccava i sessant'anni, quando vide cadere ad uno ad uno quattro figli; egli non cadde. La Provvidenza lo sorresse; fermo come la torre da cui aveva nome la sua parrocchia, egli dimostrò fra tanti lutti un vigore meraviglioso, un'energia indomabile. Fu invero all'altezza della missione cui il momento angoscioso lo chiamava: si prodigò nell'esercizio del ministero cristiano, si consacrò tutto al suo Dio ed al suo popolo delle Valli la cui esistenza religiosa poteva essere seriamente compromessa; ed al suo grido d'allarme accorsero dalla Francia e più ancora da Ginevra dei generosi pastori, mossi da un altissimo spirito di solidarietà cristiana. Uno degli effetti imprevisti della peste e del conseguente arrivo di tanti pastori d'oltr'alpe, fu l'introduzione della lingua francese nel culto. Già un centinaio di anni prima, in seguito alla loro adesione alla Riforma ed alla pubblicazione della Bibbia d'Olivetano, i Valdesi erano diventati un popolo bilingue, adoperando simultaneamente l'italiano ed il francese; poi, per la graduale sostituzione di pastori loro propri a quelli forestieri, l'italiano aveva ripreso il sopravvento così nei culti come nei sinodi, fino a quello del 1629, i cui Atti erano stati redatti in lingua italiana. Durante circa duecento anni, dunque, ebbe la prevalenza la lingua francese, finché alla metà del secolo XIX l'italiano tornò ad essere la lingua ufficiale della Chiesa Valdese.

Durante i tempi di Vittorio Amedeo I e della lunga reggenza di Maria Cristina (1637-1663) ì Valdesi si videro minacciati e percossi da altri flagelli. Mentre prendeva sviluppo senza precedenti la controversia scritta [Dalla parte dei cattolici è da ricordare il gesuita priore Marco Aurelio Rorengo, di Luserna ; dalla parte valdese Pietro Gillio, che scrisse la Histoire Ecclésiastique des Eglises Vaudoises de Van 1160 al 1643, opera storica molto stimata per la sua imparzialità ed accuratezza. Il Rorengo volle confutarla col libro velenoso Le Memorie Historiche (1648), che ha valore unicamente per i documenti che racchiude], si ebbero una serie di odiosità e di ingiustizie, per lo più ispirate e tramate dal fanatico gesuita Rorengo, priore di Luserna; perfino il moderatore Antonio Léger, calunniato come cospiratore contro la Reggente, fu costretto a fuggirsene a Ginevra (1644). Questa recrudescenza di zelo persecutore che stava diventando allarmante, è da connettersi con la Congregazione per la propagazione della fede, fondata a Roma il 21 giugno 1622 dal papa gesuita Gregorio XV. Tale società determinò uno slancio potente, missionario fra i pagani, di reazione contro i dissidenti ; per la seconda parte del suo programma era naturale che si servisse largamente dell'Inquisizione.

Nel 1650, allungato il proprio nome con questa aggiunta: e per l'estirpazione degli eretici, la Congregazione stabilì a Torino un suo ufficio importante, composto d'un doppio consiglio, l'uno di uomini, l'altro di donne: il primo presieduto dall'arcivescovo, il secondo dalla marchesa di Pianezza. Ben si comprende che primi ad arruolarsi in tale organizzazione fossero i nemici più accaniti dei Valdesi, fra cui il priore Rorengo, il conte Cristoforo di Luserna, il delegato Andrea Castaldo e, non ultimo, il marchese di Pianezza, a cui vuolsi che la moglie morendo destinasse lasciti speciali per la conversione dei Valdesi: conversione a fil di spada, s'intende.

La «Società di Propaganda» si mise subito all'opera; si trattava di far nascere delle occasioni che giustificassero le repressioni violente, e perciò i frati divennero più arroganti che altro ed i gesuiti sparsero fra i Valdesi i loro agenti per provocarli ed eccitarli.

Due episodi particolarmente tipici vanno ricordati.

Il primo è l'incendio del convento del Villar. Nel marzo 1653 alcuni abitanti di quel paese, sobillati perfidamente da un emissario del Pianezza che aveva finto d'essersi convertito, decisero di cacciar via i frati. Il ministro Manget avvertito da sua moglie la quale pare che partecipasse al complotto, volle riferirne ad un colloquio di pastori, dove il progetto temerario venne energicamente disapprovato. Ma prima che il Manget fosse di ritorno, una spia annunziò falsamente ai congiurati che i pastori erano d'accordo con loro, per cui essi senz'altro appiccarono il fuoco al convento. I frati non corsero alcun pericolo perché, avvertiti da quella spia, già si erano messi in salvo, ma la notizia fu d’arte esagerata sì che il Consiglio di Propaganda ostentò di vedervi una provocazione grave. Riaccolse seicento soldati che agli ordini del conte Tedesco mossero alla volta del Villar; e chi sa che cosa sarebbe successo se un abbondante acquazzone ed il fermo atteggiamento dei vìllaresì non li avessero indotti a sostare. Frattanto il moderatore Giovanni Léger s'intromise efficacemente, riuscendo ad appianare le cose; il Duca promise il perdono a patto che si cacciassero i coniugi Manget e si donasse un'altra casa ai frati. E cosi fu fatto.

Un altro episodio, del pari sintomatico, avvenne nel gennaio 1654, a proposito di un reggimento francese. La Duchessa Cristina aveva autorizzato queste truppe a svernare in Val Luserna, ma contemporaneamente i suoi emissari sparsero fra i Valdesi la voce che coloro i quali le avessero accolte sarebbero stati dal Duca considerati ribelli. Perciò, quando il maresciallo di Grancey giunse col suo reggimento a Torre, trovò il popolo in armi, e ne sarebbe seguito un massacro se Giovanni Léger, presentatosi arditamente all'ufficiale francese, non l'avesse messo al corrente dell'equivoco creato dalle manovre gesuitiche della «Propaganda». Fu chiesto un ordine scritto e firmato dalla Duchessa, autorizzante quelle truppe ad alloggiare nella valle, e appena quest'ordine fu loro esibito, i Valdesi cessarono ogni resistenza.

Nel terminare questo capitolo, avvertiamo che Giovanni Léger, di cui la sagacia e l'autorità già incominciavano ad affermarsi nei due episodi ora narrati e che fu poi lo storico di tutto questo sanguinoso periodo, era nipote di Antonio Léger. Nato a Villasecca (Val S. Martino) nel 1615,aveva studiato a Ginevra; pastore a Prali dal 1639 al 1643, fu chiamato a succedere allo zio nella direzione della Chiesa di San Giovanni e nella carica di Moderatore.