Letteratura/Istituzione/4-13

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Indice generale

Istituzioni della religione cristiana (Calvino)

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CAPITOLO 13

I VOTI: CON QUANTA SUPERFICIALITÀ SIANO PRONUNCIATI NEL PAPISMO E COME LE ANIME NE SIANO MISERAMENTE SCHIAVE

1. Deplorevole è certo il fatto che la Chiesa, la cui libertà è stata acquistata a prezzo inestimabile mediante il sangue di Gesù Cristo, sia stata oppressa da una tirannia crudele e gravata da un cumulo infinito e insopportabile di tradizioni umane. La stupidità dei singoli dimostra però che, non senza ragione, Dio ha concesso a Satana e ai suoi ministri la libertà di agire. Quelli che si volevano spacciare per gente devota non si sono infatti limitati a disprezzare il giogo di Cristo, sostituendolo con i pesi che i falsi dottori giudicavano bene dover imporre, ma ognuno si e dato da fare per suo conto, e si è scavato il suo piccolo pozzo per sprofondarvisi. Questo si è verificato quando tutti hanno voluto dimostrarsi più abili degli altri nel formulare voti, volendosi vincolare con una obbligatorietà più severa di quanto si riscontrasse in un numero già eccessivo di norme.

Abbiamo dimostrato più sopra che il servizio di Dio è stato corrotto dall'arroganza di quelli che hanno dominato Cl. Titolo di pastori, quando hanno gravato le povere anime con le loro leggi inique. Non sarà fuori luogo, perciò, smascherare ora un'altra tendenza affine a quella, da cui risulta che l'uomo ha sempre avuto un animo così perverso da opporre resistenza in tutti i modi possibili agli aiuti, che Dio gli forniva. Per fare intendere più chiaramente ai lettori quale danno abbiano arrecato i voti, è necessario fare menzione dei princìpi che abbiamo ricordati più sopra.

Abbiamo affermato in primo luogo che la Legge contiene quanto si richiede per condurre un'esistenza onesta e santa.

Abbiamo inoltre detto che il Signore, al fine di preservarci dalla smania di creare forme nuove per servirlo secondo il nostro gusto, ha riassunto il significato della giustizia nella semplice obbedienza alla sua volontà. Se questo è vero risulterà che tutte le forme di pietà da noi inventate per piacere a Dio gli risultano sgradite quale sia il gusto che noi proviamo a praticarle. Il Signore infatti ha in molte occasioni non solo dimostrato di rifiutarle, ma di odiarle profondamente. Questo fatto suscita un problema riguardo ai voti che pronunciamo oltre le esplicite dichiarazioni della parola di Dio, e cioè il problema di sapere in che considerazione si debbano tenere, se i cristiani li possano pronunciare, e quando abbiano fatto voti sino a che punto sono tenuti ad osservarli.

Il vincolo che nel campo delle relazioni umane indichiamo Cl. Termine "promessa "è detto voto nei riguardi di Dio. Agli uomini promettiamo ciò che, a nostro giudizio, è di loro gradimento o ciò che dobbiamo loro per dovere di giustizia; discrezione ancora maggiore occorre dunque avere quando si tratta di voti che si rivolgono a Dio in quanto non ci si può far beffe di lui.

In realtà si riscontra da sempre, in questo campo, una stupefacente superstizione: gli uomini si sono sentiti autorizzati a promettere a Dio, sotto forma di voti, a sproposito e senza riflettere, tutto ciò che veniva loro in mente o sulle labbra. Di qui ha preso origine la follia dei voti con cui i pagani si son beffati dei loro dèi, non solo follia ma assurdità mostruosa. Piacesse a Dio che questa licenza non fosse stata imitata dai cristiani. Si sarebbe infatti dovuta evitare. Constatiamo invece che da lungo tempo nulla risulta più diffuso di questa presunzione e il popolo, abbandonata e disprezzata la legge di Dio, si è precipitato con folle bramosia dietro ai suoi sogni. Non intendo sopravvalutare questo errore e neppure esaminare dettagliatamente le enormità con cui si è recata offesa a Dio né gli errori che si sono commessi in questa materia; voglio solo accennare brevemente a questo problema perché risulti chiaro che affrontando il problema dei voti non solleviamo una questione oziosa.

2. Per giudicare rettamente quali voti siano da considerarsi leciti e quali siano invece perversi occorre tenere presente tre fatti: in primo luogo la persona a cui si fa il voto; in secondo chi siamo noi che lo pronunciamo; terzo, qual'è la nostra intenzione nel fare questo.

Il primo punto ci vuole rendere attenti al fatto che nei voti abbiamo a che fare con Dio; egli si compiace soltanto della nostra obbedienza e considera maledetta ogni forma di culto frutto della nostra mente (Cl. 2.23) , quand'anche abbia una apparenza piacevole di fronte agli uomini. Se ogni culto inventato da noi oltre i suoi comandamenti gli risulta abominevole è chiaro che nessuno gli risulterà gradito se non approvato dalla sua parola.

Non prendiamoci perciò la libertà di formulare a Dio dei voti riguardo a cose che non abbiano ricevuto da lui una qualche approvazione. L'affermazione di san Paolo: Tutto ciò che è compiuto senza fede è peccato (Ro 14.23) , Si riferisce a tutte le opere nostre, ma vale in modo specifico nel caso in cui Dio sia oggetto del pensiero dell'uomo. Soggetti a cadere e a peccare nelle cose minime del mondo, quando non abbiamo un atteggiamento di fede e non siamo illuminati dalla parola di Dio, quanto maggiore umiltà si richiede da noi trattandosi di prendere iniziative di tanta importanza! Nulla è infatti così impegnativo quanto il servire Dio.

Questa sia perciò la prima norma nella questione dei voti: non prendere la iniziativa di formularli se non avendo, in coscienza, la certezza di non agire in modo temerario. Il pericolo sarà evitato se seguiremo la guida stessa di Dio che ci illustra, nella sua parola, ciò che è opportuno o no di fare.

3. La seconda considerazione fatta sopra deve condurci a misurare le nostre forze, porre mente alla nostra vocazione e non disprezzare la libertà dataci da Dio. Colui infatti che pronuncia dei voti riguardo a cose che non sono in suo potere, o risultano essere in contrasto con la sua vocazione, pecca di temerarietà e colui che disprezza la grazia di Dio che lo ha reso signore di ogni cosa si dimostra ingrato.

Questo non significa che possiamo disporre dei nostri voti ponendo la fiducia del loro adempimento in noi stessi; a ragione infatti fu decretato al concilio di Orange che non possiamo promettere a Dio nulla che non abbiamo ricevuto dalla sua mano visto che quanto gli possiamo offrire è già un dono che procede da lui. Essendoci però alcune cose che Dio, nella sua bontà, ha lasciata alla nostra possibilità mentre altre ci sono state negate, ognuno, seguendo l'esortazione di san Paolo, consideri la misura della grazia che gli è stata concessa (Ro 12.3; 1 Co. 12.2). Intendo dire che occorre commisurare i nostri voti al metro che Dio ci dà e che è rappresentato dal dono da lui fattoci, per cui non dobbiamo osare più di quanto egli ci permette, per tema di cadere volendo strafare.

Ad esempio quei vagabondi, di cui parla san Luca nel libro degli atti, fecero voto di non mangiare neppure un tozzo di pane fin quando non avessero ucciso san Paolo (At. 23.12); quand'anche la loro intenzione non fosse stata malvagia, come in realtà era, la loro temerarietà risulta intollerabile in quanto pretendevano sottomettere al loro volere la vita e la morte di un uomo. Analogo è il caso di Jefte che ricevette una mercede degna della sua follia quando si trovò costretto a sacrificare la figlia impegnata dal voto sconsiderato che aveva pronunciato in modo irresponsabile (Gd. 11.30).

Questa mancanza di responsabilità raggiunge però il suo culmine nel caso di tanta gente che fa voto di non sposarsi. Preti, frati, monache, dimenticando la propria debolezza, pensano poter far a meno del matrimonio per tutta l'esistenza. Da chi hanno avuto la rivelazione che saranno in grado di serbare, durante la vita intera, la castità a cui si impegnano? Conoscono la parola di Dio riguardo alla condizione normale degli uomini: non è bene che l'uomo sia solo (Ge 2.18). Sentono (piacesse a Dio che non le sentissero ) quanto sono aggressive nella loro carne le forze dell'incontinenza. In nome di che decisione temeraria osano rifiutare, per la durata dell'intera esistenza, questa vocazione generale, visto che, il più delle volte, il dono della continenza è dato in particolari condizioni e secondo particolari necessità? Ostinandosi in questo modo non possono pretendere che Dio li soccorra; si ricordino piuttosto di ciò che è scritto: "Non tentare il Signore il tuo Dio " (De 6.10, e, in realtà, si tratta di un tentare Dio, questo volersi accanire contro la natura che egli stesso ci ha dato e disprezzare gli strumenti che egli ci offre, quasi non avessero per noi alcun interesse. È quanto fanno costoro, non solo ma osano definire sozzura il matrimonio, una condizione che Dio non ha considerata indegna della sua maestà, ed ha dichiarata essere degna di onore fra tutte (Eb. 13.4) , e che Gesù Cristo ha santificata con la sua presenza ed ha onorato del suo primo miracolo (Gv. 2.2-9).

Questo rifiuto del matrimonio ha unicamente lo scopo di esaltare la condizione in cui si trovano, quasi non risultasse chiaramente dalla loro esistenza che l'astenersi dal matrimonio e la verginità sono due cose assai diverse. Non di meno spingono la loro arroganza al punto da definire angelica la loro condizione di vita, recando, con questa espressione, somma ingiuria agli angeli di Dio a cui osano paragonare gente adultera, immorale, o peggio. In realtà non occorrono grandi argomentazioni visto che la verità stessa li smentisce. Vediamo infatti chiaramente con quali terribili castighi nostro Signore punisca questa loro arroganza e questo disprezzo dei suoi doni; per conto mio ho vergogna di svelare queste cose nascoste, perché il poco che se ne conosce è già sufficiente ad avvelenare l'atmosfera.

È naturalmente chiaro che non dobbiamo formulare voti che costituiscano, in qualche modo, un impedimento a servire Dio nella nostra vocazione. Un padre di famiglia che abbandonasse moglie e figli per assumere qualche altro incarico si troverebbe in questa situazione. Abbiamo affermato che la nostra libertà non è da disprezzarsi, questo però può dar luogo ad equivoci qualora non sia chiarito. Il senso di questa espressione è il seguente: avendoci Dio costituiti signori di ogni cosa e sottomesse a noi in modo tale che ne usiamo secondo il comodo nostro, non dobbiamo pensare di far cosa grata a Dio sottomettendoci in spirito di servitù alle realtà esteriori che ci debbono invece essere di ausilio. Dico questo perché molti considerano prova di umiltà l'assoggettarsi a molte pratiche da cui il Signore, non senza ragione, ci ha voluto liberi. Volendo evitare questo pericolo dovremo aver cura di non allontanarci da quell'ordine che il Signore ha istituito nella Chiesa cristiana.

4. Veniamo ora al terzo elemento summenzionato: prima di far voti a Dio è necessario esaminare attentamente con quale intenzione li formuliamo. Poiché Dio pone attenzione al cuore e non all'apparenza, sicché può verificarsi il caso che una stessa cosa gli risulti gradita in una circostanza o assai spiacevole in un'altra, secondo la diversità dell'intenzione. Se uno fa voto di astenersi dal vino, vedendo in questo un elemento di santità, sarà giustamente tacciato di superstizione. Se prende questa decisione sulla base di altre considerazioni che non siano da condannare nessuno lo potrà biasimare.

Per quanto io possa giudicare quattro sono gli scopi cui i nostri voti debbono tendere: per chiarezza diciamo che due concernono il passato e due concernono l'avvenire.

Concernono il passato i voti che facciamo allo scopo di dimostrare a Dio la nostra riconoscenza per i benefici ricevuti da lui, o per punire gli errori commessi in vista di ottenere il perdono. Possiamo definire i primi, "voti di ringraziamento ", i secondi "voti di penitenza ".

Esempio del primo tipo è il voto di Giacobbe che promette a Dio le decime di quanto avrebbe acquisito in Oriente, se gli fosse stata concessa la grazia di ritornare nel paese natio (Ge 28.20-22). Altro esempio comune è rappresentato dai sacrifici, detti di pace, che i santi re e governatori promettevano di fare a Dio prima di iniziare una guerra, in caso che fosse stata loro concessa la vittoria sui nemici; ovvero quelli che il popolo prometteva a Dio trovandosi in afflizione, nel caso fosse stato liberato. In questo senso debbono essere intesi i testi dei Sl. Che fanno menzioni di voti (Sl. 22.26; 56.13; 116.14-18).

Ci è lecito formulare oggi i voti di questo tipo ogni qual volta Dio ci libera da una calamità, da una grave malattia, da un pericolo. Non contrasta infatti con un atteggiamento autenticamente credente l'offrire a Dio, in tali circostanze, un'offerta che gli sia stata promessa, come attestato di riconoscenza per i benefici ricevuti, dimostrando così la propria gratitudine.

La seconda categoria è illustrata da un esempio familiare. Prendiamo il caso di una persona che abbia commesso qualche peccato a causa della sua intemperanza o della sua golosità; non subirà alcun danno se rinuncerà per qualche tempo ai piaceri in vista di porre rimedio a questo vizio cui si sente incline. Non c'è nessun inconveniente a che decida di vincolare la sua decisione con un voto onde impegnarsi in modo più rigoroso. Non mi sentirei tuttavia di imporre come normativo a tutti coloro che, in qualche modo, hanno errato, di fare un simile voto; chiarisco solo ciò che uno può considerare lecito di fare qualora pensi che questo gli può essere di giovamento. Considero perciò un voto di questo tipo santo e legittimo senza limitare minimamente la libertà di ognuno, che è libero di fare come gli pare.

5. I voti formulati per il futuro hanno lo scopo, come ho detto, di renderci da un lato più guardinghi per evitare i pericoli, dall'altro di incitarci a compiere il nostro dovere.

Ecco un esempio: uno sa di essere fortemente incline ad un vizio sì da non potersi mantenere temperatamente in cose che di per se possono essere buone, non farà male affatto rinunciando con un voto ad usarne per un certo tempo; o ancora se uno dovesse sentirsi incapace di vestirsi o acconciarsi senza vanità o vanagloria e nondimeno ne provasse fortissimo desiderio, non potrebbe fare cosa migliore che imporsi un limite considerando suo dovere l'astenersene in vista di mettere fine a questo suo desiderio. Analogamente uno si sente dimentico o svogliato nell'adempiere il suo compito di credente, perché non dovrebbe porre rimedio alla sua negligenza impegnandosi con un voto a fare ciò che è solito dimenticare? In questi casi siamo in presenza di una sorta di pedagogia, lo riconosco, ma possiamo affermare che si tratta di aiuti cui possono liberamente ricorrere, in vista di porre rimedio alla loro infermità, le persone semplici e deboli.

Consideriamo perciò legittimo ogni voto che sia formulato in vista di uno di questi fini, particolarmente quelli che concernono realtà concrete, purché siano garantiti dall'approvazione divina, giovino alla nostra vocazione, siano commisurati alla grazia fattaci da Dio.

6. Non risulta difficile dedurre a questo punto ciò che si deve pensare in generale dei voti. Tutti i credenti hanno in comune un voto pronunciato che è stato per loro al battesimo, e che confermano nella professione della fede e nel ricevere la Cena.

I Sacramenti possono infatti considerarsi dei contratti con cui Dio ci promette la sua misericordia e di conseguenza la vita eterna e ci impegniamo per parte nostra all'obbedienza. La sostanza e il compendio di quel voto pronunciato al battesimo è la rinuncia a Satana in vista di consacrarci al servizio di Dio per obbedire ai suoi santi comandamenti non assecondando i desideri perversi della nostra carne. Non v'è dubbio che questo voto risulti utile visto che non solo Dio l'approva nella Scrittura, ma lo richiede a tutti i suoi figli; né, d'altra parte, risulta contraddetto dalla constatazione che, nella sua vita presente, nessuno raggiunge per parte sua quella perfezione di obbedienza che Dio richiede da noi. Il contratto che Dio stipula con noi, ed in cui richiede il nostro servizio, è infatti incluso nel patto di grazia che contiene la remissione dei peccati e la rigenerazione, in vista di fare di noi delle nuove creature; la promessa da noi formulata presuppone perciò la richiesta a Dio del perdono delle colpe, e il suo intervento a favore della nostra debolezza mediante lo Spirito Santo.

Riguardo ai voti specifici si tengano presenti le norme che abbiamo menzionate più sopra e non sarà difficile discernere quali debbano essere; non si pensi tuttavia che per parte nostra teniamo in tanta considerazione i voti, anche quelli che abbiamo riconosciuti validi, da incoraggiarne un uso quotidiano. Quantunque, infatti, non mi senta in grado di dare nessuna indicazione riguardo al numero e alle circostanze, chiunque voglia seguire il mio consiglio pronuncerà voti con estrema sobrietà. Ad essere infatti superficiali nel fare voti, nel farli frequentemente e in numero abbondante, si finisce Cl. Non osservarli seriamente e si corre il rischio di finire nella superstizione. Chi si impegna in un voto perpetuo non sarà in grado di mantenerlo se non con estrema difficoltà e grandissimo impegno oppure, stancandosi alla lunga, finirà con l'abbandonare ogni cosa.

7. Anzi sappiamo quanta superstizione abbia regnato, da tempo, nel mondo a questo riguardo. Chi faceva voto di non bere vino, come se astinenze di questo genere fossero di per se gradite a Dio; chi si impegnava ad osservare il digiuno e chi ad astenersi dalla carne in certi giorni, giudicandoli, erroneamente, più santi degli altri. Si dava il caso di voti ancora più infantili, eppure non erano bambini a pronunciarli; si è infatti considerato segno di alta spiritualità il far voto di recarsi in pellegrinaggio qua e là, il fare lunghe marce a piedi, l'andare seminudi in vista di acquistare maggior meriti con i disagi corporali.

Se paragoniamo tutte queste pratiche, in cui la gente si è impegnata in un modo che lascia sbalorditi, con le norme stabilite più sopra, dobbiamo constatare che non solo risultano vane e assurde, ma sono altresì indice manifesto di empietà. Qualsivoglia giudizio la sensibilità umana possa dare di un atto, al giudizio di Dio nulla risulta più abominevole che il voler creare, per lui, forme di pietà a nostro piacimento.

Pessime e deplorevoli opinioni sono inoltre diffuse nella maggioranza della gente. Gli ipocriti infatti essendosi impegnati in queste sciocchezze, danno a credere di essersi procurata una somma giustizia pensando che la sostanza della fede cristiana si debba ricercare in queste esteriorità e disprezzando tutti coloro che, secondo loro, non le tengono in dovuta considerazione.

8. Non è il caso di esaminare dettagliatamente tutti i tipi di voto; dato però che quelli tenuti in più alta considerazione sono i voti monastici, in quanto sembrano avere la considerazione generale della Chiesa, farò un breve cenno a questi. Ad evitare, anzitutto, che qualcuno pensi che il monachesimo, nella sua forma attuale, possa giustificarsi sulla base della antichità e della lunga tradizione, si deve notare che anticamente il tenore di vita nei monasteri era assai diverso da quello attuale. Vi si ritiravano coloro che avevano l'intenzione di praticare una vita di austerità. Come gli Spartani, che a quanto dicono le testimonianze storiche, si imponevano nella loro vita, una severa e rigida disciplina, così vivevano i monaci in quei tempi; anzi in una forma ancora più dura. Dormivano senza letto e senza giaciglio, in terra, bevevano soltanto acqua, si cibavano di pane secco, di erbe e di radici; le raffinatezze della loro mensa consistevano in un po' di olio, in una manciata di ceci e fave, non assaggiavano cibi delicati e si astenevano, per quanto possibile, da ogni comodità e da ogni agio corporale.

Queste cose risulterebbero oggi incredibili non possedessimo le testimonianze di coloro che le hanno constatate e sperimentate: uomini come Gregorio di Nazianzo, Basilio, san Crisostomo. Questi erano elementi di disciplina con cui ci si allenava in vista di una condizione più eccellente. Le scuole e le assemblee di monaci fungevano in quel tempo da vivaio per fornire buoni ministri alla Chiesa; lo dimostrano i tre personaggi summenzionati che furono appunto chiamati al vescovato dalla vita monastica, e molte altre illustri persone del tempo loro.

Sant'Agostino attesta che l'abitudine di prendere uomini dai monasteri per il servizio della Chiesa, vigeva ancora al tempo suo; egli si rivolge infatti ad un collegio di monaci in questi termini: "Vi esortiamo, fratelli, per nostro Signore, a mantenere il voto pronunziato e a perseverare sino alla fine, e qualora la Chiesa, vostra madre, dovesse avere bisogno di voi, non siate né tracotanti, bramando di ricevere la carica che vi imporrà, né pigri per rifiutarla; obbedite invece a Dio con spontaneità; non anteponete i vostri svaghi alle necessità della Chiesa che non sarebbe stata in grado di partorire voi se non fosse stata aiutata a partorire i suoi figli dai santi che sono stati prima di voi ". Egli si riferisce al ministero mediante cui i credenti rinascono spiritualmente.

Scrive anche ad Aureliano in un'altra epistola: "Quando vengono accolti nel clero quei monaci che nei loro monasteri si sono corrotti si dà agli altri occasione di fare altrettanto e si reca somma offesa alla condizione ecclesiastica perché fra quelli che nei monasteri perseverano nella vocazione siamo soliti prendere i migliori e quelli degni di maggior considerazione. Occorre agire in questo modo se non vogliamo diventare la favola del popolo e come c'è un proverbio che dice: da uno strimpellatore di fiera si fa un buon musicista, si giunga ad inventare il proverbio "con un cattivo monaco si fa un buon ministro". Pessima cosa è fornire ai monaci motivo di tanto inorgoglirsi e recare offesa al clero, visto che a volte anche un ottimo monaco è appena atto all'ordine ecclesiastico perché quand'anche abbia una condotta esemplare, non possiede la cultura richiesta da quell'ufficio ". Risulta da questi testi che molti uomini eccellenti consideravano la loro condizione monastica come una preparazione per giungere al governo della Chiesa in vista di essere più atti ad assolvere il loro compito, non già che tutti giungessero a questo fine o, vi aspirassero, visto che al contrario si trattava nella maggioranza dei casi di persone semplici e illetterate; perciò soltanto i più idonei venivano eletti.

9. Abbiamo in sant'Agostino, la descrizione quasi pittorica, del monachesimo antico principalmente in due testi: nel volume intitolato Dei costumi della Chiesa cattolica, in cui egli prende le difese dei monaci cristiani falsamente accusati e calunniati dai Manichei, e in un altro scritto intitolato Della vita monastica, in cui rimprovera e ammonisce i monaci che vivevano in condizioni corrotte. Esporrò ora la sostanza del suo pensiero contenuto in quei testi, anzi ricorrerò, per quanto mi sarà possibile, alle sue stesse espressioni.

"Disprezzando "dice "i piaceri e le delizie del mondo, conducono insieme una esistenza santa e casta, trascorrendo il tempo in orazioni, letture, discussioni; senza orgoglio né dispute né gelosie; nessuno possiede alcunché di suo e nessuno risulta essere a carico del prossimo. Lavorano consacrandosi ad un lavoro manuale, sufficiente a mantenerli, e tale da non impedire allo spirito loro di aprirsi a Dio. Consegnano il frutto della loro fatica nelle mani di coloro che chiamano decani e costoro, avendone ricavato frutto, fanno il resoconto a quello che fra loro è detto "padre ". I padri non sono solo persone sante riguardo ai costumi, ma anche eccellenti sotto il profilo dottrinale, nelle cose di Dio; distinguendosi per virtù e spiritualità, governano i loro figli senza orgoglio, avendo l'autorità necessaria a comandare, i loro figli si dimostrano pronti ad obbedire. Al vespro escono dalle celle, ancora digiuni, si raccolgono per udire il loro padre (egli aggiunge che in Egitto e nei paesi orientali ogni padre aveva la responsabilità di circa 3. 000 monaci ). Partecipano In seguito alla refezione nella misura richiesta dal loro stato di salute; ognuno sorveglia la sua concupiscenza per non far uso del cibo presentato se non sobriamente, anche se si tratta di cibi scarsi e poco raffinati. Per questo non soltanto evitano il vino e la carne, per vincere la loro concupiscenza carnale, ma anche altri cibi che, stuzzicando l'appetito, invogliano a ghiottonerie e a leccornie, tanto più che alcuni sono considerati più santi e puri; alcuni sono in questo ridicoli giudicando favorevolmente che ci si nutre di cibi squisiti a condizione che ci si astenga dalla carne. Il sovrappiù di nutrimento (abbondante sia a causa del loro lavoro diligente che della loro sobrietà ) viene distribuito ai poveri con maggior diligenza di quanto abbiano messo a guadagnarlo.

La loro preoccupazione non è infatti quella di avere in abbondanza ma di non serbare ciò che sopravvanza ".

Proseguendo, dopo aver fatto menzione dell'austerità di cui era stato testimone sia a Milano che altrove, aggiunge: "in questa vita rigorosa nessuno è costretto a portare un carico più pesante di quanto possa o voglia portare; il più debole non viene condannato dagli altri; tutti hanno coscienza di quanto sia necessaria la carità, sanno che ogni cibo è puro per coloro che sono puri (Tt 1.15). La loro attenzione perciò non è volta al rifiuto di questo o di quel cibo come contaminato, ma a vincere la propria concupiscenza e mantenersi in uno spirito buono. Tengono presente la parola: il ventre è per il cibo e il cibo per il ventre (1 Co. 6.13). Tuttavia parecchi di coloro che sono forti si impongono limiti per rispetto dei deboli, parecchi hanno una diversa motivazione in quanto amano nutrirsi di cibi grossolani e non raffinati, sanno astenersi perciò da un cibo quando sono in buona salute ma non si fanno scrupolo di cibarsene quando sono malati. Parecchi non bevono vino ma non si considererebbero contaminati qualora ne bevessero; essi stessi, infatti, sono i primi ad ordinare che se ne dia a coloro che sono di costituzione delicata e non potrebbero altrimenti godere di buona salute. Se qualcuno di questi rifiuta di bere lo ammoniscono fraternamente a non rendersi più debole che santo con una vana superstizione. Si applicano in tal modo, con cura, al timore di Dio. Riguardo all'esercizio corporale sanno che il giovamento non è che di breve durata. Particolarmente rispettata è la norma di carità; essa sola determina le parole, i cibi, i vestiti, gli atteggiamenti; ognuno si sforza di collaborare a questa carità e si ha timore di recargli offesa quanto a Dio stesso. Se qualcuno gli oppone resistenza lo si espelle, se qualcuno gli reca offesa, non lo si tollera neppure un giorno ".

Queste le parole di sant'Agostino, le ho citate a questo punto n quanto ci danno una chiara visione del monachesimo dei tempi antichi, avessi voluto raccogliere questi elementi da autori diversi sarei stato assai più lungo pur sforzandomi di riassumere.

10. Non ho l'intenzione di dibattere più a lungo questo argomento, voglio solo illustrare brevemente che tipo di persone siano stati i monaci nella Chiesa antica. E non solo questo, ma quale sia stato il carattere del monachesimo affinché i lettori possano valutare, stabilendo il paragone tra il monachesimo antico e quello odierno, quanto siano privi di pudore quelli che si appellano all'antichità per sostenere la condizione attuale.

Sant'Agostino, nel descrivere questo tipo santo e buono di monachesimo, esclude ogni forma di rigorismo nell'imporre o nell'esigere cose riguardo alle quali Dio ci ha data libertà nella sua parola. È invece proprio questo che si esige oggi con assoluto rigore. Delitto senza rimedio sono infatti la negligenza, sia pur minima, delle loro ordinanze in tema di vestiti, di alimenti, o di frivole cerimonie.

Sant'Agostino dichiara finalmente di non esser lecito a monaci di vivere oziosamente a spesa altrui e afferma non esservi stato, al tempo suo nessun monastero ben organizzato in cui i monaci non vivessero del loro lavoro. In quelli odierni l'elemento essenziale della santità è invece costituito dall'ozio. Se si eliminasse infatti l'ozio in che potrebbero far consistere la loro vita contemplativa che li fa superiori a tutti gli altri, anzi, secondo loro, li rende simili agli angeli?

Sant'Agostino concepisce infine il monachesimo come una forma di aiuto e un esercizio per mantenere gli uomini nel timore di Dio e nella fede autentica. Quando dice, anzi, che la carità costituisce la norma principale che è quasi l'unica da osservare, non conferisce alcun valore a quel tipo di congiura che fanno certuni, raccogliendosi insieme e separandoci dal corpo della Chiesa; egli vuole anzi che i monaci siano un esempio per tutti in vista di mantenere l'unità cristiana.

Le forme dell'attuale monachesimo sono così lontane da quella impostazione che, difficilmente, si potrebbe trovar cosa più contraria. I nostri monaci infatti, non soddisfatti di quella santità, cui Gesù Cristo vuole che i suoi servi applichino la mente, ne inventano una nuova, in base alla quale si considerano più perfetti di tutti gli altri.

11. Lo negano? Chiederò allora perché definiscono la loro condizione "stato di perfezione "negando questo termine a tutte le vocazioni stabilite da Dio. Conosco la loro sofistica risposta: questa definizione non indica che il monachesimo sia la perfezione in se, ma soltanto in quanto rappresenta la condizione più adatta all'acquisto di quella perfezione. Quando si tratta di crearsi un vanto umiliando il popolino o di attirare nelle loro reti i fanciulli ignari, mettono in evidenza i loro privilegi, magnificano la loro dignità, disprezzando gli altri e vantandosi del loro stato di perfezione. Quando però li si mette al muro, e non sono più in grado di giustificare questa arroganza, ricorrono al sotterfugio di affermare che non sono ancora giunti alla perfezione, ma sono entrati in questo stato per consacrare ad essa il loro pensiero sopra ogni cosa. Coltivano perciò nel popolino l'idea che la loro vita è angelica, perfetta, pura da ogni vizio e in quel modo tirano l'acqua al loro mulino e vendono cara la loro santità. Quella glossa invece è nascosta in pochi libri, quasi sepolta. Chi non si rende conto che in questo modo si fanno beffe di Dio e della gente?

Accettiamo tuttavia che attribuiscano al loro stato soltanto questo carattere di aspirazione alla perfezione. Nell'attribuirgli questo onore però lo distinguono pur sempre con un segno particolare, da tutte le altre forme di vita. Chi può permettere che questo onore venga conferito ad una condizione umana che Dio non ha mai approvato neppure con una parola e siano invece privati di questo onore ed escluse, come indegne, le sante vocazioni che non soltanto Dio ha ordinato, ma ha rivestite di titoli eccellenti? Vi prego considerate l'ingiuria che recano a Dio anteponendo uno stato creato dagli uomini e senza alcuna approvazione a tutte le condizioni che lui stesso ha stabilite e approvate con esplicita testimonianza.

12. È forse calunnioso affermare che essi si dimostrano insoddisfatti delle norme che Dio ha stabilito per i suoi? Lo smentiscano se possono. D'altronde non son io a dirlo ma loro stessi. Insegnano infatti esplicitamente che il carico che si impongono è più pesante di quanto sia stato quello imposto da Gesù Cristo ai suoi discepoli, impegnandosi ad osservare i consigli evangelici a cui i cristiani non sono comunemente vincolati.

Definiscono consigli le esortazioni di Gesù Cristo riguardo all'amore per i nemici, il non desiderare la vendetta, il non giurare eccetera, eccetera (Mt. 5.33). Che argomento di antichità possono far valere a questo riguardo? A nessuno degli antichi venne mai in mente questa idea; sono unanimi nel dichiarare che non c'è una sola parola di Gesù Cristo che non siamo tenuti ad osservare, anzi espressamente considerano queste espressioni altrettanti comandamenti.

Avendo già illustrato più sopra come debbasi considerare errore pestilenziale questo voler ridurre a semplici consigli le cose che ci sono chiaramente comandate, ci basta aver brevemente dimostrato, a questo punto, che il monachesimo, quale si incontra oggi, poggia su una valutazione delle cose che ogni credente deve, a diritto, considerare esecrabile: giudicando cioè che esista una norma di vita più perfetta da quella stabilita da Gesù Cristo a tutta la sua Chiesa. Quello che si edifica su queste premesse non può che essere considerato abominevole.

13. A sostegno della loro perfezione fanno uso di un altro argomento, che considerano definitivo: nostro Signore disse un giorno al giovane che lo interrogava circa la perfetta giustizia: "Va' e se vuoi essere perfetto vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri " (Mt. 19.21).

Non domandiamoci, per ora, se realmente essi facciano quanto sta scritto oppure no; accettiamolo come un dato di fatto. Si considerano dunque perfetti in quanto vendono i propri beni. Se la perfezione consiste unicamente in questo come si devono interpretare le affermazioni di san Paolo secondo cui chi ha distribuito tutti i suoi beni ai poveri non è nulla senza carità? (1 Co. 13.3). Che perfezione è mai quella che viene annullata con l'uomo quando la carità non è congiunta con essa? A questo punto devono ammettere, lo vogliano o no, che la rinuncia ai propri beni, quand'anche sia la principale opera di perfezione,

Non significa ancora tutto. Anche questo però viene smentito da san Paolo che dichiara la carità essere il vincolo della perfezione (Cl. 3.14) , senza far menzione di rinuncia dei propri beni. Se è vero che non esiste differenza tra il maestro e il discepolo, e san Paolo dichiara apertamente che la perfezione dell'uomo non risiede nella rinuncia a tutti i suoi beni, e che essa può esistere senza questa rinuncia, bisogna cercare di intendere il significato del detto di Gesù Cristo: "Va' e se vuoi essere perfetto vendi tutto quello che hai ".

L'interpretazione risulterà chiara se consideriamo a chi sono indirizzate queste parole; considerazione questa che si deve fare riguardo a tutti i detti di nostro Signore. Il giovane chiede che deve fare per entrare nella vita eterna. Gesù Cristo lo rimanda, giustamente, alla Legge, in quanto la domanda concerne il problema delle opere. La Legge, infatti, considerata in se stessa rappresenta il cammino della vita e il fatto che sia insufficiente a procurarci salvezza si deve attribuire alla perversità nostra. Gesù Cristo dichiara, con questa risposta, che non è venuto per insegnare un modo di vivere rettamente, diverso da quello dato anticamente da Dio in quella Legge. Così facendo rende testimonianza che la legge di Dio è indicazione perfetta della giustizia, e, nello stesso tempo, smentisce le calunnie con cui lo si accusava di indurre il popolo a ribellarsi all'obbedienza della Legge proponendogli una nuova legge. Il giovane, per altro non cattivo ma gonfio di orgoglio, risponde che ha osservato tutti i comandamenti sin dalla sua infanzia. Un fatto è certo: egli era ancora ben lontano dalla meta che si vantava aver raggiunto; se infatti la sua risposta fosse stata corrispondente a verità non gli sarebbe mancato nulla per raggiungere la perfezione assoluta. È stato dimostrato più sopra che la Legge contiene in se stessa una giustizia perfetta; e questo risulta anche da questo testo, in cui l'osservanza della legge stessa è definita ingresso nella vita eterna. Per dimostrare a quel giovane quanto poco gli giovasse quella sua giustizia, ch'egli si vantava con tanta leggerezza aver adempiuto, era necessario smascherare il vizio nascosto nel cuor suo; il suo animo infatti era vincolato alle sue ricchezze, dato che era ricco. Gesù Cristo perciò lo colpisce nel punto dove lo si doveva colpire, dato che per parte sua non si rendeva conto di questo vizio segreto, e gli impone di vendere tutti i suoi averi.

Se realmente fosse stato un uomo osservante della Legge, come pretendeva essere, non se ne sarebbe andato tutto triste dopo aver ricevuto questa risposta. Chi infatti ama Dio con tutto il cuore non solo considera sterco quanto contrasta con l'onore di lui, ma lo ripudia come dannoso. Quando perciò Gesù Cristo ordina a quel ricco avaro di vendere tutti i suoi beni è come se ordinasse ad un ambizioso di rinunciare agli onori, ad un uomo voluttuoso di rinunciare alle delizie, ad uno scapestrato di rinunciare a tutto ciò che lo può indurre a male agire. In questo modo si deve condurre la coscienza a percepire il proprio vizio particolare, quando non si possa raggiungere quello scopo con ammonizioni generali.

L'errore di questa gente che cita il testo suddetto per giustificare lo stato monastico consiste nel fatto che dà al caso particolare il valore di una dottrina generale; come se Gesù Cristo ponesse la perfezione nel fatto che un uomo rinuncia ai suoi beni; in realtà egli voleva soltanto costringere questo giovane, che sopravvalutava se stesso, a prendere coscienza del suo peccato, a comprendere cioè che era ancora lungi da quella perfetta osservanza della Legge che falsamente si attribuiva.

Riconosco che questo passo è stato male interpretato da alcuni Padri, al punto che si è ingenerata l'idea che la povertà volontaria dovesse considerarsi segno di grande virtù; considerandosi beati coloro che si scaricavano di ogni impegno terreno per darsi a Cristo . Spero che ogni lettore non polemico e non pignolo si dichiarerà soddisfatto dall'interpretazione che abbiamo fornito e si convincerà che questo è il significato autentico del testo.

14. Intenzione dei Padri non era però affatto l'enunciazione di un tipo di perfezione come quella che, in seguito, i monaci inventarono delle loro celle in vista di stabilire una seconda forma di Cristianesimo. Era infatti di là da venire quel parallelismo perverso, stabilito più tardi, tra il battesimo e i voti monastici e l'affermazione che il monachesimo è una sorta di secondo battesimo. Chi non sa che i santi Padri hanno avuto orrore di tali bestemmie?

Riguardo alla carità che, secondo sant'Agostino, reggeva l'intera vita dei monaci antichi, occorre forse mostrare che essa è assolutamente in contrasto con la professione dei monaci odierni? È evidente agli occhi di tutti che chi entra in un chiostro per farsi monaco si separa e si allontana dalla Chiesa. Costituiscono infatti comunità a parte e hanno amministrazione dei sacramenti separata dagli altri. Se questo non è distruggere la comunità della Chiesa mi chiedo che forma maggiore di distruzione Si potrebbe inventare.

Per attenerci al paragone sin qui fatto e per condurlo a termine, in che cosa, a questo riguardo, assomigliano ai monaci antichi? Anticamente, infatti, i monaci pur abitando lontano dagli altri non costituivano una Chiesa a parte ma ricevevano i sacramenti con tutti, nei giorni festivi, si raccoglievano insieme alla comunità dei credenti per udire il sermone e pregare e si comportavano quivi come una parte del popolo cristiano. I monaci del giorno d'oggi, erigendosi un altare per conto proprio, hanno rotto il vincolo dell'unità. Si sono autoscomunicati dal corpo della Chiesa, hanno disprezzato il ministero ordinario mediante cui Dio ha voluto che fossero mantenute fra i suoi pace e carità. Affermo perciò che i monasteri, oggi, nel mondo, sono altrettante conventicole di scismatici che hanno sovvertito l'ordine della Chiesa, spezzando la comunità legittima dei credenti.

Per rendere ancor più manifesta questa rottura hanno assunto nomi diversi, da setta, e non si sono vergognati di trarre vanto da ciò che Paolo aveva sopra ogni cosa esecrato; a meno di affermare che Gesù Cristo era diviso fra i Corinzi, in quanto ognuno si vantava del proprio dottore (1 Co. 1.12 ; 3.4) ma oggi non si deroga in nulla al suo onore benché gli uni si dicano Francescani, gli altri Domenicani, gli altri Benedettini, anzi si impadroniscano di questi titoli per fare una speciale confessione che li distingua dal resto della cristianità.

15. La diversità sin qui notata tra i monaci antichi e quelli moderni non concerne tanto i costumi quanto la professione di fede. I lettori avranno infatti notato che ho parlato più del monachesimo che dei monaci, i vizi denunciati si riferiscono non solo alla vita dei singoli, ma risultano indissolubilmente legati ad un modo di vita quale è oggi. Non è il caso di spendere molto tempo a dimostrare, nei dettagli, quanta diversità si riscontri nel campo dei costumi; ognuno infatti è in condizione di constatare che non esiste oggi al mondo condizione depravata in modo così integrale e dedita alla corruzione con tanto furore, una condizione ove si annidano tanti odi, intrighi, faziosità, ambizioni, con tutte le azioni che ne conseguono. : È vero che in alcuni conventi si vive castamente, se è lecito parlare di castità quando la concupiscenza è semplicemente repressa per non dare scandalo al popolo. Oso tuttavia affermare che difficilmente si troverà un convento su dieci che sia asilo di castità più che bordello. Riguardo al vivere come è possibile parlare di sobrietà? Non diversamente vengono ingrassati i maiali al truogolo. Per evitare che mi si accusi di trattare questa gente con eccessiva severità non proseguo il discorso; ognuno infatti può constatare che nelle poche cose che ho detto ho detto soltanto la verità.

Abbiamo citato la testimonianza di sant'Agostino riguardo ai monaci del tempo suo, da cui risulta che furono uomini di santità singolare. Eppure egli si duole del fatto che fra loro esistessero vagabondi ed impostori che succhiavano i beni della gente semplice con la loro astuzia; che vi fossero altresì trafficoni che si consacravano a commerci disonesti portando qua e là reliquie di martiri ovvero, come dice, spacciando per ossa di martiri ossa comuni; e altri tipi consimili che con le loro malefatte diffamavano la condizione monastica. In un altro testo egli afferma che se le migliori persone da lui incontrate sono quelle che hanno tratto profitto dalla vita monastica egli deve deplorare il fatto che le peggiori sono quelle che dalla vita monastica sono state corrotte . Che cosa dovrebbe dire oggi, vedendo i conventi pieni di vizi così enormi e così gravi che non si può più andar oltre senza morire. E quanto sto dicendo è noto a tutti.

Non penso però che questo si debba estendere indistintamente a tutti. Nessuna regola e nessuna norma è infatti mai stata così stabile, nei monasteri, al punto da impedire che qualche canaglia si unisse ai buoni; così si deve ammettere che fra i monaci odierni la santità degli antichi non è scaduta al punto che non sussista, nella schiera dei cattivi, qualche buon elemento; ma sono così pochi che si trovano sepolti nella sconfinata moltitudine dei malvagi. E non solo scompaiono, ma sono disprezzati, ingiuriati, molestati, anzi trattati crudelmente; è infatti uno dei principi che regna fra loro quello di non tollerare nella loro compagnia una persona dabbene.

16. Penso aver dimostrato con questo paragone tra il monachesimo antico e quello odierno, che questo riferimento alla Chiesa primitiva, da parte dei nostri cocollati, per giustificare e per difendere la loro condizione è errato visto che fra loro e i monaci sussiste una differenza non minore di quella che esiste fra gli uomini e le scimmie.

Non nascondo però che anche nella descrizione offertaci da sant'Agostino ci sia qualcosa che non mi convince. Che i monaci non abbiano valutato, con occhio superstizioso, la loro disciplina esteriore lo ammetto; in essa però si annidava un'affettazione assurda ed una assurda brama di gareggiare gli uni con gli altri, e questa la mia impressione.

Cosa bellissima abbandonare i propri beni per essere libero da ogni sollecitudine terrena, Dio però apprezza maggiormente la condizione di un uomo, che libero da ogni spirito di avarizia, ambizioni, concupiscenza carnale, abbia cura di governare rettamente e santamente la sua famiglia, ponendosi quale meta il servire Dio in una giusta vocazione e da lui approvata. Cosa piacevole, indubbiamente, il ritirarsi dalla società per filosofeggiare interiormente in un luogo segreto; che un uomo però, quasi per odio del genere umano, fugga nel deserto per starvi solitario, astenendosi da ciò che nostro Signore richiede essenzialmente da tutti i suoi e cioè l'aiuto reciproco, questo non è confacente alla fraternità cristiana. E quand'anche non sia derivato da questo modo di vivere altro danno che questo, è stato di per se sufficientemente grave introducendo nella Chiesa un esempio pericoloso e nocivo.

17. Vediamo ora quali siano i voti con cui i monaci del nostro tempo entrano negli ordini.

In primo luogo, in base a quanto è stato detto considero che tutti questi voti non sono, dinanzi a Dio, altro che abominazione in quanto costoro hanno l'intenzione di inventare, a loro piacimento, una nuova forma di vita per servire Dio volendo compiacergli e acquistare grazia.

In secondo luogo, trattandosi di una invenzione di un modo di vita che non tiene in considerazione la vocazione di Dio e non cerca la di lui approvazione affermo che si tratta di licenza temeraria e perciò illecita, in quanto la loro coscienza non ha su che fondarsi dinanzi a Dio, e tutto ciò che si compie senza fede è peccato (Ro 14.23).

In terzo luogo visto che consacrano se stessi a forme di vita perverse e malvagie, quali le idolatrie di cui tutti i conventi sono ricettacolo, affermo che così facendo non si consacrano a Dio bensì al Diavolo. Il profeta accusa gli Israeliti di aver immolato i loro figli ai diavoli e non a Dio, per aver corrotto il vero culto di Dio con cerimonie peccaminose (De 32.17; Sl. 106.37) , perché non dovrebbe essere lecito fare la stessa affermazione riguardo ai monaci che rivestono l'abito per immergersi in mille superstizioni?

Quale è però la sostanza di questi voti? Fanno a Dio promessa di serbare perpetua verginità, quasi avessero pattuito con lui l'esonero dalla necessità di sposarsi. Non devono replicare che pronunciano quel voto solo confidando nella grazia di Dio; egli stesso, infatti, afferma che questo non è dato a tutti (Mt. 19.2); non sta a noi perciò fare ipotesi su quel dono. Ne facciano uso quelli che lo hanno. E quando si sentono molestati dai pungoli della carne ricorrano all'aiuto di colui che può assisterli per resistere. Se così facendo non ottengono nulla, non respingano il rimedio che viene loro offerto; tutti coloro infatti a cui la continenza è negata sono evidentemente chiamati da Dio allo stato matrimoniale. E definisco continenza non solo mantenere il corpo puro e netto dall'impudicizia ma il custodire l'anima in stato di incorrotta castità. San Paolo non proibisce solo l'impudicizia esteriore ma altresì l'ardore interiore della carne (1 Co. 7.9).

La prassi di impegnarsi con un voto alla continenza, affermano, è stata seguita da sempre, da coloro che volevano consacrarsi a Dio in modo totale.

Certo si tratta di una prassi antica, non penso però che l'atteggiamento degli antichi stessi sia stato a tal punto immune da vizio da doversi accogliere quale norma e metro di vita.

Anzi questo eccessivo rigorismo che impedisce a chi abbia fatto un voto di mutare atteggiamento si è fatto strada solo a poco a poco, Cl. Passare del tempo, come risulta dalle parole di san Cipriano quando si esprime in questi termini: "Le vergini si sono date liberamente a Cristo? Perseverino in castità, senza finzione, mantenendosi così forti e costanti da ricevere il premio della loro verginità. Non vogliono o non si sentono in grado di perseverare? Meglio per loro sposarsi anziché essere precipitate nel fuoco dalla loro concupiscenza ". Se oggi uno volesse così porre limiti al voto di verginità che insulti gli toccherebbe sentire! Non sarebbe forse fatto a pezzi? È dunque evidente che siamo molto lontani dal tempo antico visto che non solo il Papa e la sua banda non ammettono eccezione o concessione alcuna, qualora uno si trovi nell'impossibilità di mantenere i suoi voti, ma non si vergognano di affermare che se uno si sposa, per porre rimedio alla intemperanza della carne, pecca più gravemente che se insozzasse il suo corpo e l'anima sua con impudicizia.

18. Hanno però un altro argomento con cui cercano di dimostrare che questo tipo di voto fu già in uso nell'età apostolica. San Paolo infatti afferma che quando una vedova, accolta in un ministero pubblico della Chiesa, si sposi, spezza la sua fede primitiva o la sua promessa (1 Ti. 5.2).

Che le vedove assunte per compiere un servizio nella Chiesa si sottoponessero anche all'obbligo di non contrarre matrimonio è noto; non già perché attribuissero a questa astensione un carattere di santità, come in seguito è accaduto, ma perché non sarebbero state in grado di assolvere il loro incarico se non godendo di assoluta libertà e non essendo vincolate dal matrimonio. Perciò, quando avessero fatto questa promessa alla Chiesa, e manifestassero l'intenzione di sposarsi, rinunciavano alla vocazione di Dio. Niente di strano dunque nell'affermazione dell'apostolo secondo cui, desiderando sposarsi, esse si ribellano a Cristo. Ampliando il discorso egli aggiunge che non solo non mantenevano la promessa fatta alla Chiesa, ma violavano la prima promessa fatta al battesimo. In questa parola dell'apostolo c'è il pensiero che ognuno deve servire Dio nella condizione a cui è stato chiamato; a meno che si preferisca interpretare le sue parole nel senso che quelle vedove, avendo perso ogni senso di vergogna non si curavano più del loro pudore e si abbandonavano ad ogni dissolutezza al punto da non assomigliare più in nulla a donne cristiane; questa ultima esegesi mi pare pienamente soddisfacente.

Ai nostri avversari risponderemo perciò che le vedove accolte n quel tempo al servizio della Chiesa si impegnavano a non sposarsi; sposandosi si trovavano nella condizione definita da san Paolo: smarrito cioè ogni senso di pudore si abbandonavano ad una licenza non confacente a donna cristiana, in tal modo esse commettevano peccato non solo in quanto rinunciavano alla promessa fatta alla Chiesa, ma in quanto abbandonavano l'atteggiamento di una donna cristiana.

Contesto però anzitutto che nel formulare questo voto, di vivere in continenza, vi fosse da parte delle vedove altra motivazione che quella di una incompatibilità tra il matrimonio e l'ufficio a cui si presentavano. Nego anzi che in questo gesto vi fosse altra preoccupazione che quella di assolvere un incarico della loro condizione.

In secondo luogo contesto che quel voto avesse un carattere tale che fosse preferibile ardere di desiderio e cadere in atti immorali piuttosto che sposarsi.

In terzo luogo osservo che san Paolo, vietando di accogliere vedove che non abbiano sessant'anni, fissa un'età in cui, comunemente, ci si può considerare fuori del pericolo di incontinenza; egli specifica, anzi, che non si debbono accettare quelle che abbiano contratto più di un matrimonio dando così prova della loro continenza.

Rifiutiamo dunque il voto di celibato unicamente per queste due motivazioni: lo si considera erroneamente servizio gradito a Dio, e inoltre è formulato temerariamente da gente che non ha la capacità di assolverlo.

19. Mi domando, anzi, che relazione esista fra questo testo di san Paolo e i frati. Le vedove infatti venivano elette al servizio della Chiesa non per rallegrare Dio con canti e boffonchiamenti, oziando tutto il tempo, ma per il servizio dei poveri effettuato nel nome della Chiesa tutta e per impegnarsi a fondo nelle opere della carità. La volontà del vivere fuori dello stato matrimoniale non nasceva dall'idea che l'astenersi dal matrimonio facesse piacere a Dio ma semplicemente in vista di essere più libere nell'assolvere il proprio compito. Non pronunciavano infine questo voto nella prima gioventù o nel fiore degli anni per sperimentare in seguito, quando ormai era troppo tardi, che si erano cacciate in una situazione impossibile, ma questo voto era pronunciato quando, verosimilmente, si trovavano già fuori del pericolo dell'incontinenza.

Del resto, anche a non volersi soffermare su tutti gli altri punti, questo solo basta: il fatto che non fosse lecito accogliere al voto di castità una donna di età inferiore ai sessant'anni, in quanto l'Apostolo l'aveva proibito ordinando ai più giovani di sposarsi. Non si giustifica, perciò, in nessun modo il fatto che, in seguito, il termine per la formulazione di questo voto si sia spostato a 48 anni, poi a 40 e infine a 30. Ancor meno tollerabile è la prassi di indurre con l'inganno e subdole manovre povere ragazze prima che abbiano avuto modo di conoscere e di sperimentare le proprie forze, a mettersi al collo questo sciagurato legame; quando non le si costringe con la forza!

Non starò a trattare dettagliatamente gli altri due voti pronunciati da frati e monache cioè i voti di povertà e di obbedienza. Dirò solo questo: oltre al fatto che sono oggetto di infinite superstizioni, a come stanno oggi le cose, mi sembrano fatti per prendere in giro Dio e gli uomini. Non voglio essere tacciato di rigorista fanatico esaminando con cura, nei dettagli, tutte le questioni, mi accontenterò perciò della confutazione generale fatta più sopra.

20. Penso avere sufficientemente illustrato quali siano i voti legittimi e graditi a Dio; si incontrano però a volte coscienze tormentate le quali, pur pentite di aver formulato un voto ed essendo conscie del fatto che esso deve ritenersi annullato, permangono non di meno nel dubbio che in fondo siano tenute ad osservarlo e questo crea per loro un grave problema in quanto, da un lato temono di venir meno ad una promessa fatta a Dio e dall'altro temono di peccare in modo più grave ancora mantenendo questo voto; è necessario dunque, a questo punto, venir loro in aiuto per liberarle da queste incertezze.

Per troncare in breve ogni scrupolo affermo che ogni voto illecito e formulato contro il diritto e la ragione, essendo privo di valore davanti a Dio, si deve considerare come non fatto. Se infatti nei contratti umani si considera vincolante unicamente ciò che è considerato tale da parte di colui con cui si fa il contratto, è assurdo e irragionevole pretendere che siamo impegnati ad osservare ciò che Dio non ci chiede; anzi poiché le nostre opere si devono considerare buone soltanto nella misura in cui piacciono a Dio, e ricevono dalla coscienza dell'uomo la testimonianza che Dio le accetta, si deve considerare valida la parola: tutto ciò che si compie senza fede è peccato (Ro 14.23).

Con questo san Paolo intende affermare che ogni iniziativa presa con dubbia coscienza è viziata in quanto la fede soltanto costituisce la radice di ogni buona opera: la fede, dice, mediante la quale siamo certi che esse sono gradite a Dio. Non essendo lecito al credente intraprendere nulla se non con questa certezza, si potrà impedire che uno rinunci al voto fatto per ignoranza quando abbia preso coscienza del suo errore? Infatti i voti pronunciati sconsideratamente, lungi dal costituire vincoli assoluti devono essere annullati; c'è anzi di più: non solo Dio non ne fa caso alcuno, ma, come è stato più sopra dimostrato, essi gli risultano odiosi. È inutile dunque trattare più ampiamente questo problema.

Sufficiente a tranquillizzare ogni coscienza credente, liberandola da ogni scrupolo, mi pare essere il seguente argomento: tutte le opere che non procedono da fonte pura e non hanno un fine valido sono condannate da Dio e con una condanna che concerne sia il voler perseverare in esse, quanto il volerne iniziare. La conclusione risulta dunque essere questa, tutti i voti che risultano esser frutto di errore o di superstizione sono privi di valore dinanzi a Dio e debbono essere abbandonati.

21. Questa affermazione permette altresì di dare una risposta valida ai malvagi che calunniano coloro che hanno abbandonato il monachesimo scegliendo di vivere in una onesta condizione di vita. Muovono loro il rimprovero di avere rinnegato le promesse fatte ed essere spergiuri avendo, come dicono, infranto il vincolo indissolubile che li impegnava nei riguardi di Dio e della sua Chiesa.

Nego per conto mio l'esistenza di qualsiasi legame quando Dio abbia sciolto o annullato quello che l'uomo aveva stabilito.

In secondo luogo, pur ammettendo che tali vincoli siano esistiti durante il tempo dell'errore e dell'ignoranza di Dio, affermo che essi sono stati per grazia di Dio liberati da questi vincoli quando Dio li ha illuminati e ha fatto loro conoscere la sua verità. Se infatti la morte del nostro Signore Gesù ha avuto il potere di liberarci dalla maledizione della legge di Dio, in cui eravamo vincolati, non avrà essa tanto più forza per liberarci e scioglierci da vincoli umani che altro non sono se non legami di cui Satana si serve per trarci in inganno? Non c'è dubbio, pertanto, che chiunque abbia ricevuto la grazia di Dio sia sciolto da tutti quei legami in cui la superstizione lo imprigionava. Coloro che sono stati frati hanno ancora un altro argomento riguardo il matrimonio (qualora non abbiano avuto la forza di contenersi ) e altrettanto dicasi dei monaci. Se infatti un voto impossibile diventa una rovina e una perdizione per le anime che Dio intende salvare, non perdere, lo si deve abbandonare. Che il voto di continenza risulti impossibile da osservarsi, da parte di coloro che non hanno ricevuto la grazia speciale da Dio, lo abbiamo dimostrato più sopra e l'esperienza lo dimostra, quand'anche non lo dicessimo noi. Le sozzure che riempiono i conventi sono note a tutti, e quei pochi nei quali sembra esserci un po' più di moralità non sono per questo più casti, ma sono tali semplicemente perché l'impudicizia è nascosta. In questo modo Dio compie la sua vendetta mediante orribili punizioni quando gli uomini nella loro audacia, misconoscendo la propria infermità, pretendono giungere, contro natura, a ciò che è loro negato e pensano, disprezzando i rimedi che Dio ci ha dati, poter sormontare il vizio dell'incontinenza con la propria ostinazione e la propria testardaggine. Come si deve infatti definire questo atteggiamento se non ostinazione? Dio fa capire ad uno che abbisogna del matrimonio e glielo offre come rimedio, e quello non solo lo disprezza ma si impegna con giuramento a rifiutarlo!