Ma chi te lo fa fare (1 Corinzi 9:16-23)?

Domenica 7 febbraio 2021 – Quinta domenica dopo l’Epifania

Letture bibliche: Salmo 147;  Isaia 40:21-31; 1 Corinzi 9:16-23; Marco 1:29-39

Perché fai quel che fai? Perché svolgi il lavoro o la particolare professione che porti avanti? Molte potrebbero essere le risposte. Per alcuni potrebbero essere: “Perché a questo mi hanno portato le circostanze della vita”, “Perché è l’unico modo che ho trovato per guadagnarmi da vivere”. Per i più “fortunati” può essere: “Perché ne sono appassionato, mi piace”, “Perché ho molti talenti in questo campo e li metto a buon frutto”. E’ anche importante chiedere: “Come, in che modo, lo fai? Di malavoglia o con buona volontà?”, ed anche: “Per quale fine ultimo fai quel che fai?”.

L’apostolo Paolo, dopo aver ricevuto da Dio la grazia di essere strappato dai suoi peccati attraverso il ravvedimento e la fede in Cristo, aveva ricevuto da Dio stesso la vocazione e le capacità di diffondere in tutto il mondo l’Evangelo di Cristo. E lo faceva non solo senza riceverne alcun compenso materiale, ma anche a costo di sofferenze e privazioni di ogni genere ed in modo eccellente. “Ma chi te lo fa fare?” si sarebbe potuto chiedergli? Al che egli avrebbe potuto rispondere: “Perché ne vale tutta la pena!”. La diffusione dell’Evangelo di Cristo era l’obiettivo principale della sua vita e, per quello, Paolo si adattava ad ogni circostanza. Un testo della sua prima lettera ai Corinzi ci parla del perché e del come della sua missione e ci comunica lo spirito che pure deve caratterizzare la nostra vocazione cristiana.

“Io annuncio la parola del Signore, ma non è cosa di cui mi possa vantare perché, per me, farlo è un preciso dovere: guai a me se non annunziassi Cristo. Se avessi deciso di annunziarla di mia spontanea volontà, sarebbe giusto che ne ricevessi una paga. Ma poiché mi è stato imposto di farlo, compio semplicemente il mio dovere. Quale ne sarà dunque la mia ricompensa? La soddisfazione di annunziare Cristo gratuitamente, senza avvalermi di quei diritti che la predicazione del Vangelo mi darebbe. Io sono libero. Non sono schiavo di nessuno. Tuttavia mi sono fatto schiavo di tutti, per portare a Cristo il più gran numero possibile di persone. Quando sono tra gli Ebrei, vivo come loro, per portare a Cristo gli Ebrei. Io non sono sottoposto alle leggi degli israeliti, eppure vivo come se lo fossi, per condurre a Cristo chi è sottoposto a quelle leggi. Quando invece mi trovo tra persone che non conoscono quelle leggi, vivo come loro senza tenerne conto, per portare a Cristo chi non segue tali leggi. Questo non vuol dire che io sia privo di obblighi verso Dio, anzi sono sottoposto alla legge di Cristo. Con i deboli nella fede, vivo come se anch’io fossi debole, per condurli a Cristo. Cerco di adattarmi a tutti per salvarne a ogni costo alcuni. Tutto questo lo faccio per il Vangelo, e per ricevere anch’io insieme con gli altri ciò che esso promette” (1 Corinzi 9:16-23).

I.

Vorrei suddividere il testo che abbiamo udito in due sezioni. La prima parla dell’apostolo che rinuncia al compenso che potrebbe legittimamente pretendere dal servizio che svolge, la seconda di come egli, per annunciare l’Evangelo, si adatti all’ambiente in cui si trova. Per entrambe queste sezioni ci chiederemo: perché? Le leggerò in una versione più letterale.

“(16) Infatti, se io predico l’evangelo, non ho nulla da gloriarmi [non è per me un vanto, quasi che mi aspettassi che mi dicessero: “Guarda che bravo è Paolo a predicare l’Evangelo”]; poiché è una necessità che mi è imposta [un’esigenza, un dovere, qualcosa che debbo fare e che faccio volentieri]; e guai a me se non predico l’evangelo [mi metterei contro Dio]! (17) Se perciò lo faccio volontariamente [se lo facessi di mia spontanea iniziativa], ne ho ricompensa [potrei aspettermene una ricompensa]; ma se lo faccio contro voglia [anche se non lo facessi volontieri], rimane pur sempre un incarico [oikonomia, gestione] che mi è stato affidato.  (18) Qual è dunque il mio premio? Questo: che predicando l’evangelo, io posso offrire l’evangelo di Cristo gratuitamente [senza ottenerne vantaggi personali immediati], per non abusare del mio diritto [exousia, autorità] nell’evangelo”.

L’apostolo Paolo avrebbe potuto legittimamente esigere di essere pagato per svolgere il servizio di predicatore dell’Evangelo. Anche un bue che tira l’aratro ha diritto, dopo tutto, ad un compenso per il suo lavoro, almeno il cibo per vivere e svolgere quel lavoro! Però, come Paolo afferma nel versetto 15, egli ha volontariamente rinunciato a questo suo diritto – non solo di ricevere un pagamento per i suoi servizi pastorali, ma anche di portare con sé la famiglia. L’apostolo, infatti, si manteneva svolgendo l’attività di tessitore di tende. “Io non vi ho mai chiesto un soldo; e non vi scrivo per far valere questi miei diritti”. “Il mio unico vanto, semmai,” sembra dire, “è la soddisfazione di sapere che non potrò mai essere accusato di farlo per profitto venale”. Perché Paolo ha rinunciato al diritto di essere pagato per farlo? “Per non porre alcun ostacolo all’evangelo di Cristo” (12b), per non mettere impedimenti di alcun genere alla diffusione dell’Evangelo.

Paolo aveva la consapevolezza che portare persone a ravvedimento ed alla fede in Gesù Cristo come loro Salvatore e Signore, portare persone a ricevere la grazia della salvezza dalle conseguenze temporali ed eterne dei loro peccati, è così importante che qualsiasi cosa avesse anche solo potenzialmente potuto esserne di ostacolo doveva essere eliminato. Vi sono molti impedimenti di varia natura che si frappongono alla predicazione dell’Evangelo, “ma per quanto umanamente mi sia possibile, per quanto stia in me, io cerco di non esserne causa”.

Nel versetto 16, Paolo dice che il fatto che proclama il vangelo non è per lui motivo di vanto perché Dio ha imposto su di lui l’ananke, in greco, (l’obbligo, la necessità, il requisito, il dovere) di proclamare il vangelo. E continua dicendo: “Guai a me, se non predico la Buona Novella dell’Evangelo”.

Questo rammenta la storia di Giona, nell’Antico Testamento, che Dio chiama a predicare il pentimento al popolo di Ninive. Giona cerca di fuggire da questa responsabilità, ma Dio fa scatenare una grande tempesta. Giona, temendo che la nave e l’equipaggio potessero perire a causa della sua disobbedienza, confessa il suo peccato all’equipaggio della nave, che così lo getta in mare. Conoscete il resto della storia. Paolo, come Giona, sente di avere un obbligo, un dovere impostogli da Dio. Non merita elogi per aver fatto ciò che deve fare. Tuttavia, meriterebbe una critica (un “guai”, una forte riprensione) se lo facesse diversamente.

L’annuncio dell’Evangelo è una “gestione” che gli è stata affidata. Egli è come un amministratore (oikonomos), l’amministratore di un palazzo. In quella cultura, gli amministratori erano spesso schiavi, sebbene a loro affidassero anche responsabilità significative. In questo verso, quindi, Paolo dice di essere come l’amministratore a cui è stata affidata una responsabilità significativa, ma che non è libero di dire di no né di richiedere un pagamento per i suoi servizi. Paolo sta solo facendo ciò che Dio gli ha chiesto di fare. Se Paolo sta semplicemente facendo ciò che deve fare, ne consegue che non dovrebbe aspettarsi alcun premio. Non dovrebbe aspettarsi …una corona d’alloro, un attestato di merito, se sta semplicemente facendo quello che deve fare. Non dovrebbe aspettarsi di essere considerato un eroe se è stata l’azione di Dio piuttosto che la sua a portarlo “sulla linea di fuoco”. Ma, sorprendentemente, Paolo dice che ha una ricompensa per aver obbedito alla chiamata di Dio dopo tutto ce l’ha. La sua ricompensa è il piacere di offrire il Vangelo gratuitamente – la gioia di mettere gratuitamente a disposizione delle persone qualcosa di estremamente prezioso. Offrire gratuitamente non vuol dire che ciò che offre è di scarso valore, anzi! E’ la soddisfazione di essere impegnati in un’alta chiamata, cosa che considera un privilegio, un onore, viste le alte finalità dell’annuncio dell’Evangelo. In confronto a quello, i suoi diritti stessi diventano del tutto secondari e irrisori.

II.

Paolo, dunque, volontariamente rinuncia al suo diritto di essere retribuito per il servizio che svolge in quanto apostolo per non porre alcun reale o potenziale ostacolo all’accoglienza dell’Evangelo. Allo stesso modo, per favorire l’accoglienza dell’Evangelo in ogni tipo di ambiente, egli rinuncia a ostentare e praticare gli stessi usi e costumi che caratterizzano la sua personale identità culturale (quella di ebreo) per adattarsi a quelli dell’ambiente in cui via via si viene a trovare. In Cristo egli è un uomo libero. Il Signore Gesù, infatti, dice: “Se perseverate nella mia parola … conoscerete la verità e la verità vi farà liberi … se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi” (Giovanni 8:31-32,36). Egli, però – e proprio in forza di questa sua libertà – non la vanta e non la impone se questo può favorire l’Evangelo, anzi, temporaneamente rinuncia a questa sua libertà conformandosi, adattandosi, agli usi e costumi del suo uditorio. Egli scrive:

(19) Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne il maggior numero. (20) Mi sono così fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; mi sono fatto come uno che è sotto la legge con coloro che sono sotto la legge, per guadagnare quelli che sono sotto la legge; (21) tra quanti sono senza legge, mi sono fatto come se fossi senza la legge (benché non sia senza la legge di Dio, anzi sotto la legge di Cristo), per guadagnare quanti sono senza la legge. (22) Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per poterne salvare in qualche modo alcuni. (23) Or io faccio questo per l’evangelo, affinché ne sia partecipe anch’io”.

Paolo adatta sé stesso (non il messaggio che porta) all’ambiente in cui si trova per annunciarlo. Lo fa per rispetto della cultura del suo uditorio e per guadagnarne la fiducia. Così facendo, l’apostolo si dimostra forse incoerente con la verità dell’Evangelo? Forse che compromette strumentalmente tale verità o la relativizza? Forse che si tratta, da parte sua, di un “furbo stratagemma”, fondamentalmente disonesto, per mostrarsi quale egli non è? No, Paolo sa adattare il suo comportamento a seconda della compagnia in cui si trova, e sempre nei limiti, beninteso, di ciò che Dio consente. Per qual fine? Per conquistare a Cristo il maggior numero di persone eliminando i possibili ostacoli di carattere culturale, i pregiudizi avversi, che potrebbe incontrare.

Paolo aveva concluso l’ultimo capitolo dicendo: “Perciò, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non scandalizzare il mio fratello” (8:13). Ha iniziato questo capitolo chiedendo: “Non sono io apostolo? Non sono io libero? Non ho io veduto Gesù Cristo, il nostro Signore? Non siete voi la mia opera nel Signore?” (9: 1): quattro domande che richiedono un “Sì!” come risposta. Come avevamo prima notato, Paolo ha parlato del suo volontario sacrificio di alcuni suoi diritti, in particolare il diritto di essere sposato (v. 5) e il diritto di richiedere il pagamento per i suoi servizi come apostolo (vv. 6 segg.). Ora dice che, anche se è libero, libero per tutti, ha scelto di rendersi “schiavo di tutti”. Nei versetti 20-22, spiega esattamente cosa intende per “schiavo di tutti”. È diventato “schiavo” degli ebrei onorando i precetti e le tradizioni che essi seguono (la loro legge cerimoniale), come pure “schiavo” di coloro che tali precetti non seguono adattandosi così ai loro costumi (nei limiti di ciò che Dio consente). Perché? Lo ha fatto per eliminare le barriere che potrebbero ostacolare la conquista a Cristo del loro cuore (v. 20). Paolo sa adattarsi ai costumi degli ebrei e a quelli dei non-ebrei senza fare inutili questioni o attizzare pregiudizi. Paolo sa adattarsi persino ai “deboli”, vale a dire ai cristiani alle prime armi o persone non sofisticate che potrebbero essere facilmente scandalizzate dalla sua spregiudicata e legittima libertà (come il mangiare carne offerta ad idoli). Paolo, quando interagisce con le persone, cerca di “adattarsi”, di identificarsi con loro così completamente da diventare uno di loro piuttosto che apparire un estraneo. Lo fa, non per ingraziarsi il favore personale, ma per lasciare la porta aperta per conquistarli a Cristo.

Paolo indubbiamente è un ebreo e non rinnega la sua origine. Non ha timore di dire “sono stato circonciso l’ottavo giorno, sono della nazione d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo di Ebrei; quanto alla legge, fariseo” (Filippesi 3:5). Tuttavia, il Cristo si era rivelato a Saul (come allora era conosciuto) sulla strada per Damasco, ed era diventato un cristiano, un ebreo cristiano. In presenza di ebrei, Paolo si manifesta come uno di loro, rispettoso delle loro tradizioni. Possiamo essere certi che Paolo non sia “ridiventato ebreo” nel senso di rinnegare il Cristo o qualsiasi principio cristiano. Significa sicuramente che osservava le usanze ebraiche in presenza di ebrei per evitare di offenderli e di creare barriere che avrebbero reso difficile raggiungerli per Cristo. Possiamo essere sicuri che avrebbe rifiutato cibo non kosher in presenza di ebrei. Aveva fatto persino circoncidere Timoteo “a motivo dei Giudei che erano in quei luoghi” (Atti 16:3). Paolo in genere non reputa più necessaria la circoncisione rituale ebraica per diventare cristiano (basta il Battesimo). Piuttosto però che suscitare la riprovazione degli Ebrei (per i quali quel rito è importante), nel loro contesto e in determinate circostanze da valutare, egli la accetta perché, rispetto alla priorità da darsi all’Evangelo, è cosa sulla quale non merita suscitare inutili discussioni. Così oggi, chi annuncia l’Evangelo si adatta agli usi e costumi del suo uditorio (nei limiti di ciò che Dio consente) per aumentare la possibilità di conquistare delle persone a Cristo evitando così contrasti o discussioni su questioni secondarie superabili in un secondo tempo.

Così nel versetto 21 è detto: “Tra quanti sono senza legge, mi sono fatto come se fossi senza la legge (benché non sia senza la legge di Dio, anzi sotto la legge di Cristo), per guadagnare quanti sono senza la legge”. La “legge” di cui qui egli parla è quella cerimoniale ebraica, quella che le popolazioni pagane (che gli ebrei chiamano “le genti”, o “i Gentili”) non seguivano. Paolo è conosciuto come il grande missionario fra le genti non ebraiche. Il Cristo risorto aveva affidato personalmente a Paolo questa missione, dicendo a Paolo: “Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani” (Atti 22:21). Paolo ha osservato che “Anzi al contrario, avendo visto che mi era stato affidato l’evangelo per gli incirconcisi, come a Pietro quello per i circoncisi” (Galati 2: 7). Stare con ” coloro che sono senza legge” significa sicuramente che Paolo si sentiva libero di mangiare cibo non kosher in situazioni in cui il rifiuto di mangiare quei cibi avrebbe creato una barriera tra lui e i pagani, rendendo difficile per lui conquistarli a Cristo (10: 27). Non richiedeva che gli uomini d’estrazione pagana convertiti a Cristo fossero sottoposti alla circoncisione (1 Corinzi 7:18; Galati 2: 3; 5: 2-6). Si comporta in questo modo tra i pagani “per guadagnare quanti sono senza la legge” (v. 21c), conquistandoli a Cristo.

Dice pure: “Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli” (v. 22a). Come abbiamo già notato, “i deboli” sono o cristiani pagani – o tutti i gentili – o cristiani alle prime armi che potrebbero essere facilmente scandalizzati dalle azioni dei cristiani che fanno qualcosa che potrebbe essere frainteso, come mangiare carne sacrificata agli idoli. In presenza di queste persone, Paolo si adegua ai loro modi per evitare di violare i loro scrupoli, in modo da “guadagnare i deboli”. Conquistare le persone a Cristo è la sua missione e la sua passione, quindi farà tutto il possibile, entro i limiti delle sue convinzioni e integrità, per conquistarle.

Quindi Paolo, egli scrive, “… sono stato presso di voi con debolezza, con timore e con gran tremore” (2: 3). Fino a che punto si spinge Paolo per conquistare persone a Cristo? “Fino ad ora noi soffriamo la fame, la sete e la nudità; siamo schiaffeggiati e non abbiamo alcuna fissa dimora,  ci affatichiamo, lavorando con le nostre mani; ingiuriati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; vituperati, esortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo e come la lordura di tutti fino ad ora” (1 Corinzi 4:11-13). Questo lo ha fatto per “conquistare i deboli”.

“Mi sono fatto tutto a tutti, per poterne salvare in qualche modo alcuni” (v. 22b). La flessibilità di Paolo non si estenderebbe a comportamenti o insegnamenti incompatibili con il Vangelo. Tuttavia, si sarebbe esteso il più possibile per adattarsi a persone di quasi tutte le fasce sociali e culture. Questa è semplicemente l’estensione del principio che ha sposato in questa sezione. Dice infine: “Or io faccio questo per l’evangelo, affinché ne sia partecipe anch’io” (v. 23).  Questo versetto ci rammenta che il Dio che ci è stato così fedele si aspetta da noi, in cambio, fedeltà. Dio ha accordato a Paolo la grazia della salvezza, proprio lui che dice “prima ero un bestemmiatore, un persecutore ed un violento; ma mi è stata fatta misericordia” (1 Timoteo 1:13), e gli ha affidato la missione di proclamare l’Evangelo, e Paolo deve farlo per condividere le benedizioni del Vangelo.

Dal comportamento e testimonianza dell’apostolo, quindi, apprendiamo quanto sia importante accogliere l’appello al ravvedimento ed alla fede nel Salvatore Gesù Cristo e, per chi l’annuncia, la disponibilità ad adattarsi ad ogni situazione facendo attenzione a non porre ostacolo alcuno alla ricezione dell’Evangelo. Abbiamo noi, avete voi, un tale spirito?

Paolo E. Castellina, 31 gennaio 2021