Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? (1 Corinzi 6:1-9)

Domenica 19 Maggio 2024 – Giorno di Pentecoste

(Servizio di culto completo con predicazione, 60′)

Quando il “non giudicare” diventa una virtù

“Chi sono io per giudicare?” aveva detto in un’intervista papa Bergoglio [1], in una frase ormai diventata famosa, a proposito dell’omosessualità. Innescava così anche per la chiesa cattolica-romana un processo di “sdoganamento” e relativizzazione di una pratica chiaramente condannata dalla Legge morale suprema di Dio, così com’è espressa dalle Sacre Scritture. Oggi, di fatto, in nome della “tolleranza” e della “libertà” in non pochi ambienti che si professano cristiani si svuota sempre di più l’espressa volontà di Dio da ogni valore normativo. Si tratta, di fatto, di uno sviluppo tutto moderno che, fatto passare per “vangelo”, vanifica uno degli elementi dell’Evangelo, cioè quello del ravvedimento e del concetto stesso di giudizio di Dio in favore di un malinteso “amore” di cui Dio stesso sarebbe portatore. L’apostolo Paolo, però, avrebbe detto anche a questo cosiddetto pontefice: “Non sai che i santi giudicheranno il mondo?” (1 Corinzi 6:2).

Questo compiacente rifiuto di giudicare, cioè di valutare criticamente la realtà secondo i criteri morali di Dio e quindi di prendere sul serio la Sua giustizia, sembra che molti cristiani moderni non siano più in grado o non vogliano più fare. È un’incapacità fatale perché aprirà la strada in questo mondo al preannunciato anticristo, secondo che è scritto: “Nessuno vi tragga in errore in alcuna maniera, poiché quel giorno non verrà se prima non sia venuta l’apostasia e non sia stato manifestato l’uomo del peccato, il figlio della perdizione” (2 Tessalonicesi 2:3). Quanto è qui tradotto con “l’uomo del peccato” è solo uno dei modi di tradurre il termine del testo originale, che è: “ὁ ἄνθρωπος τῆς ἀνομίας”, letteralmente: ”l’uomo dell’anomia”, cioè “il fuorilegge per eccellenza” [2] . La “anomia”, infatti, è la condizione di chi è privo di legge, o perché ne è ignorante, o perché la viola o, peggio, perché la disprezza [3]: esattamente la tendenza che vediamo oggi, anche in molte chiese. Ci si chiede così giustamente: come potranno riconoscere l’anticristo quei cristiani moderni che, quale ne sia la loro giustificazione, non conoscono o sottovalutano la legge morale suprema di Dio e la Sua giustizia? Di questo anticristo non correranno forse il rischio di diventarne inevitabilmente entusiasti sostenitori?

La responsabilità del giudicare

Molti sono gli equivoci e i pregiudizi moderni sul “non giudicare”. A differenza di quanto alcuni affermano, Gesù non ci dice di non giudicare, ma ci esorta a giudicare secondo verità. Non solo questo, ma alla della comunità dei cristiani è detto che giudicare è e sarà loro responsabilità: “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? Se dunque il mondo è giudicato da voi, siete voi indegni di giudicare delle cose minime? Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più possiamo giudicare delle cose di questa vita!” (1 Corinzi 6:2-3). Qual è il contesto in cui l’apostolo Paolo fa queste affermazioni? Ascoltiamone prima il testo completo.

Quando qualcuno di voi ha una lite con un altro, ha il coraggio di chiamarlo in giudizio davanti agli ingiusti anziché davanti ai santi? Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? Se dunque il mondo è giudicato da voi, siete voi indegni di giudicare delle cose minime? Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più possiamo giudicare delle cose di questa vita! Quando dunque avete da giudicare su cose di questa vita, costituite come giudici quelli che sono i meno stimati nella chiesa. Dico questo per farvi vergogna. È possibile che non vi sia tra di voi neppure una persona saggia, capace di pronunciare un giudizio tra un fratello e l’altro? Ma il fratello processa il fratello e lo fa dinanzi agli infedeli. Certo è già in ogni modo un vostro difetto avere fra voi dei processi. Perché non patite piuttosto qualche torto? Perché non patite piuttosto qualche danno? Invece, siete voi che fate torto e danno e ciò a dei fratelli. Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio?” (1 Corinzi 6:1-9).

Contese nella chiesa

In questa sezione della sua epistola, l’apostolo continua a trattare il tema generale della disciplina nella chiesa, quello che aveva iniziato al capitolo cinque. Prosegue, così, sottolineando alcuni altri esempi evidenti di incoerenza che avevano le loro radici nella visione lassista del peccato da parte dei cristiani di Corinto. In quella comunità cristiana vi erano contese così aspre che per risolverle alcuni avrebbero voluto portarle davanti ai tribunali civili. L’Apostolo dice che piuttosto che rivolgersi a magistrati civili per risolvere i loro conflitti interni, in questi casi avrebbero dovuto esercitare la disciplina tra di loro. Nel libro degli Atti degli apostoli troviamo, per esempio, il caso di Gallione, proconsole romano d’Acaia, che si era rifiutato di farsi coinvolgere nelle controversie ebraiche a Corinto e aveva detto agli ebrei di occuparsi da soli di quelle questioni (Atti 18:14-16). Paolo ora consigliava un approccio simile ai cristiani.

In questa sezione Paolo affronta un problema che toccava particolarmente i Greci. Gli ebrei normalmente non si rivolgevano ai tribunali civili, ma sistemavano le cose davanti agli anziani della loro sinagoga; per loro la giustizia era molto più una questione da risolvere con spirito di famiglia, nell’ambito della loro stessa comunità di fede. Si consideravano popolo eletto e distinto: che cosa avrebbero avuto a che fare loro con dei giudici estranei? Essi avevano la propria legge, quella di Dio: che cosa ne sapevano dei pagani, per quanto magistrati, della legge di Dio? Perché il popolo di Dio avrebbe dovuto farsi giudicare secondo principi secolari? Certo i greci erano famosi per il loro amore per la giustizia, ma su quali presupposti essa si basava? Per quanto Dio avesse impresso anche nella loro coscienza e legislazioni i principi della Sua giustizia, quanto facilmente sarebbero stati distorti e contaminati! La società dell’antica Roma era notoriamente litigiosa, e Corinto, con la sua crescente classe di nuovi ricchi, lo era ancora di più – e i nuovi cristiani che provenivano da quel mondo, non ne erano esenti.

Il problema principale di quella comunità cristiana risiedeva nella immaturità teologica. Avrebbe delegato a pagani l’amministrazione della giustizia e non si rendeva abbastanza conto di possedere essa stessa i migliori criteri di giudizio e di giustizia, quelli di Dio. Certo, la loro salvezza eterna dal peccato non si basava sull’osservanza della legge di Dio ma sull’opera di Cristo fatta propria per fede in Lui, ma la legge di Dio, buona, santa e giusta, doveva essere norma e criterio di ogni aspetto della loro vita – perché data per il loro bene. Ogni cosa avrebbe dovuto essere giudicata secondo quel criterio e nello spirito di Cristo, anche le loro dispute interne. Tanto più, commenta Paolo, “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? … Quanto più possiamo giudicare delle cose di questa vita!” (1 Corinzi 6:2-3).

Già l’apostolo in questa stessa lettera aveva parlato di casi di abusi a livello sessuale che dovevano essere trattati secondo la Parola di Dio. Qui egli parla delle dispute fra due membri della comunità che riguardavano questioni finanziarie o di proprietà, forse un’eredità. La legge di Dio non si occupava forse anche di queste cose tanto da doversi rivolgere a magistrati pagani? Certo che riguarda anche questi aspetti della vita! Questa era un’altra prova che la chiesa di Corinto non funzionava correttamente. Ciò indicava quanto questi cristiani mancassero di vera sapienza. Paolo, così, svolge la sua argomentazione con una serie di domande retoriche: “Quando qualcuno di voi ha una lite con un altro, ha il coraggio di chiamarlo in giudizio davanti agli ingiusti anziché davanti ai santi?” (1). Per lui la risposta era ovvia. “L’altro” a cui fa riferimento è un confratello, “santo” perché santificato dalla fede in Cristo. L’“ingiusto” o “empio” contrasta con i “santi” e si riferisce a un non credente (v. 6). Quando le persone avevano controversie tra loro a Corinto e volevano un arbitrato ufficiale, di solito si recavano in un tribunale nel centro della città. I disputanti cristiani avrebbero dovuto sottoporsi ad un arbitrato cristiano basato su principi cristiani e così essere giudicati. “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo?” (v. 2). “Non sapete” appare sei volte in questo capitolo. In ciascun caso introduce un argomento che i cristiani di Corinto avrebbero dovuto ben conoscere, qualcosa per loro di scontato, probabilmente perché Paolo o altri li avevano precedentemente istruiti al riguardo.

Ben altro, quindi, che “non giudicare”! Giudicare secondo i criteri di giustizia di Dio e nello spirito di Cristo, per i cristiani è un dovere! Lo faranno nei tempi escatologici [4] e lo fanno nel presente vivendo una vita santa e giusta: questo li qualifica a discernere e a giudicare le questioni morali e le controversie sia nella comunità ecclesiale che nel mondo allorché denunciano il male (ciò che non è conforme all’espressa volontà di Dio) ed opponendosene. Come scrive Giovanni Calvino: “… essi giudicheranno il mondo, come del resto cominciano già a fare, perché la loro pietà, fede, timore del Signore, buona coscienza e integrità di vita, renderanno i non credenti del tutto inescusabili”. Poiché in futuro il Signore delegherà ai cristiani l’autorità di giudicare i non credenti, Paolo conclude che ora avremmo ancor più la competenza per risolvere le controversie tra di noi, soprattutto come, nel caso di Corinto, “delle cose minime”.

Ovviamente alcuni casi che coinvolgono cristiani che discutono tra loro sono più difficili da risolvere rispetto ad alcuni di quelli che coinvolgono non credenti e, vivendo nella società civile, dobbiamo rispondere anche alla legge civile. Il punto di Paolo, però, era che i cristiani hanno generalmente la competenza per risolvere le controversie tra le persone. Dopotutto, abbiamo a nostra disposizione l’aiuto e la saggezza dello Spirito Santo interiore, così come le Scritture.

Che cosa vuol dire però l’Apostolo quando scrive: “Quando dunque avete da giudicare su cose di questa vita, costituite come giudici quelli che sono i meno stimati nella chiesa” (4). Paolo potrebbe aver parlato in modo ironico, come il versetto successivo può implicare. Se è così, potrebbe aver voluto dire che i Corinzi avrebbero dovuto selezionare le persone meno qualificate nella chiesa per risolvere queste controversie. Ciò che intendeva in questo caso era che qualsiasi cristiano sarebbe stato capace di risolvere le controversie tra i suoi fratelli, anche “i meno stimati”, quelli che, da un certo punto di vista il mondo avrebbe considerato avere il minor numero di qualifiche per arbitrare. No, anche loro sarebbero stati qualificati a giudicare. “Dico questo per farvi vergogna. È possibile che non vi sia tra di voi neppure una persona saggia, capace di pronunciare un giudizio tra un fratello e l’altro? Ma il fratello processa il fratello e lo fa dinanzi agli infedeli” (5-6). Che cosa era di vergogna per i Corinzi? Il fatto è che, rivolgendosi ai tribunali secolari per risolvere i loro problemi interni, sembravano dire che non c’era nessuno nella loro chiesa abbastanza saggio da risolvere queste questioni. Certamente potevano contare sullo Spirito Santo per dare loro la saggezza e lo spirito adeguato di cui avevano bisogno per fare questo [5]. Una comunità cristiana è giunta a un brutto punto quando i suoi membri credono di avere maggiori probabilità di ottenere giustizia dai non credenti che dai propri fratelli e sorelle in fede! Chiaramente questa Chiesa non comprendeva la propria identità di comunità escatologica né mostrava molta preoccupazione per la propria testimonianza al mondo. Ogni comunità ebraica in tutto l’Impero Romano e oltre i suoi confini aveva il proprio apparato competente per l’amministrazione della giustizia civile all’interno dei propri membri; il minimo che ci si potesse aspettare da una chiesa cristiana era che adottasse disposizioni simili se necessario, e non lavasse i panni sporchi in pubblico!

Nello spirito di Cristo

L’apostolo si rivolge ora ai due uomini coinvolti nella causa, ma scrive pensando a tutta la chiesa: “Certo è già in ogni modo un vostro difetto avere fra voi dei processi. Perché non patite piuttosto qualche torto? Perché non patite piuttosto qualche danno?” (7). I Corinzi, trascinandosi a vicenda in tribunale, miravano a chiedere compensazione per danni subiti. Evidentemente all’origine di questo caso c’era una disputa commerciale o patrimoniale. Paolo, però, rammenta loro che avevano già perso prima che il giudice emettesse il verdetto. La vergogna di persone che professavano di amarsi a vicenda e di anteporre il benessere degli altri al proprio, denunciandosi a vicenda, era già di per sé una sconfitta. Questa sconfitta era molto più grave degli eventuali danni che avrebbero dovuto pagare. Sarebbe meglio subire il torto o l’inganno piuttosto che reagire in modo così poco cristianovi. Intentare una causa contro un confratello vuol dire, di fatto, intentare una causa contro sé stessi, tanto stretto è il rapporto. Una condizione ancora più scioccante era che alcuni cristiani di Corinto erano più che vittime di errori e frodi. Erano loro gli autori di queste cose [6]!

I cristiani dovrebbero essere disposti a donarsi gli uni agli altri piuttosto che cercare di ottenere gli uni dagli altri. In altre parole, non si dovrebbe assolutamente andare in tribunale gli uni con gli altri. Tuttavia, se i Corinzi insistessero ad andare in tribunale, dovrebbe essere un tribunale di credenti nella chiesa, non di non credenti al di fuori della chiesa.

Perché giudicare?

Infine, l’Apostolo dice: “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio?”. (9) Chi sono questi “ingiusti” o “malvagi”? Paolo aveva precedentemente usato questa parola (gr. adikos) dei non salvati nel versetto 1 (cfr v. 6 dove li chiamava non credenti). Tuttavia lo usa anche per i cristiani di Corinto nel versetto 8: “voi che fate torto [adikeo]” o “commettete ingiustizia”. Sia i cristiani che i non credenti si sono resi colpevoli di condotta ingiusta, compresi tutti le trasgressioni elencate nel versetto che segue: “Non v’illudete: né i fornicatori, né gli idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né i sodomiti, né i ladri, né gli avari, né gli ubriachi, né gli oltraggiatori, né i rapinatori erediteranno il regno di Dio” (9-10). Pertanto ciò che Paolo dice sugli ingiusti in questo versetto sembra applicarsi a chiunque sia ingiusto nel suo comportamento, sia dentro che fuori della chiesa! Non si applica solo agli ingiusti nella loro posizione davanti a Dio, cioè ai non credenti! Cosa sarà vero per gli ingiusti? “Non erediteranno il regno di Dio”. Gesù spiega chi erediterà il regno [8] mentre Paolo spiega chi non lo erediterà – e questo potrebbe ben essere il caso per qualcuno!

Conclusione

Una diffusa tendenza moderna fra i cristiani è quella del “non giudicare”, quella della “tolleranza”, fatta passare per “amore”. Questo spesso vale non solo per coloro che seguono la teologia neo-liberale che relativizza l’autorità normativa della Parola di Dio sulla nostra fede e sulla nostra condotta, ma anche per quelli che, apparentemente conservatori, estremizzano il concetto di salvezza per grazia mediante la sola fede in Cristo, relativizzando l’impegno etico e morale e le responsabilità del cristiano in questo mondo. Senza per questo scadere in un gretto e settario moralismo, la comunità cristiana è sicuramente chiamata a giudicare, sia esercitando appropriata disciplina al suo interno, sia denunciando le ingiustizie di questo mondo. Il giudizio va esercitato in riferimento alla legge morale suprema stabilita da Dio, un tesoro che il mondo non conosce o misconosce – legge che deve quindi essere ben conosciuta e praticata dal credente come pure applicata nello spirito della misericordia e comprensione del Cristo. Ne consegue che non possiamo sentirci esonerati dall’appello al ravvedimento nell’evangelizzare e nel vivere la nostra fede. Quando l’Apostolo, quindi, ci dice: “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo?” egli prende la cosa per scontata, ovvia, qualcosa dovrebbero ben sapere. Giovanni Calvino scrive: “Ogni volta che i credenti si riuniscono in un luogo, sotto gli auspici di Cristo, c’è già nella loro assemblea una sorta di immagine del giudizio futuro, che sarà perfettamente messo in luce nell’ultimo giorno. Perciò Paolo dice che il mondo viene giudicato nella Chiesa, perché lì è eretto il tribunale di Cristo, dal quale egli esercita la sua autorità [9]” (Giovanni Calvino).

Quando oggi questo “non lo si sa” (o si ritiene “più conveniente” non saperlo), vuol dire solo essere ad uno stadio avanzato di apostasia, cioè di allontanamento dalla fede “che è stata una volta per sempre tramandata ai santi” (Giuda 3).

Paolo Castellina, 13 Maggio 2024

Note

[1] https://www.corriere.it/cronache/13_luglio_29/intervista-papa-lobby-gay-ratzinger-scarano_6c99664c-f83d-11e2-a59e-96a502746665.shtml

[2] La maggior parte dei manoscritti (AD F G Ψ 1175 1241 1505 M al lat sy) qui leggono ἁμαρτίας (hamartias, “del peccato”), ma diversi manoscritti significativi (א B 0278 6 81 1739 1881 2464 al co) si leggono ἀνομίας (anomia, “dell’illegalità” ). Sebbene il sostegno esterno a favore di ἁμαρτίας sia più ampio, i testimoni generalmente migliori stanno dalla parte di ἀνομίας. Internamente, poiché ἁμαρτία (hamartia, “peccato”) ricorre quasi dieci volte più spesso di ἀνομία (anomia, “illegalità”) nel corpus paulinum, ci si aspetterebbe che gli scribi cambiassero il testo con il termine più familiare. Allo stesso tempo, la menzione di ἀνομία nel v. 7 e ὁ ἄνομος (ho anomos, “l’illegale”) nel v. 8, che si riferiscono entrambi al v. 3, potrebbe aver spinto gli scribi a modificare il testo verso ἀνομίας. Le prove interne sono quindi abbastanza equamente bilanciate. Sebbene una decisione sia difficile, ἀνομίας ha una probabilità di autenticità leggermente maggiore rispetto a ἁμαρτίας.

[3] Il vocabolario della Treccani così definisce l’anomia: dal gr. ἀνομία, composto di ἀ- privativo e νόμος «legge». Assenza di leggi fisse, carenza dei poteri dello stato, anarchia. In sociologia: Incapacità dell’individuo di percepire il valore della legge, per rifiuto delle norme della comune esperienza. Condizione di relativa assenza di regole nel comportamento dei singoli, dovuta alla mancanza di un sistema adeguato di norme adatte a una determinata situazione https://www.treccani.it/vocabolario/anomia1/

[4] La rivelazione secondo cui i santi avranno un ruolo nel giudicare i non credenti in futuro potrebbe essere Daniele 7:18, 22 e 27. Questo giudizio avrà evidentemente luogo subito dopo che il Signore ritornerà sulla terra alla Sua seconda venuta per istituire il Suo regno. Saremo con Lui allora (1 Tessalonicesi 4:17).

[5] Cfr Giovanni 14,26; 16,13

[6] Cfr. Matteo 5:39-40; 1 Pietro 2:19-24

[7] Cfr. Matteo 5,39-41.

[8] Cfr. Matteo 5:3, 10; Marco 10:14.

[9] “Non sapete che i santi…”. Qui abbiamo una discussione dal minore al maggiore; Infatti Paolo, volendo dimostrare che si reca danno alla Chiesa di Dio quando i giudizi su questioni di controversia relative alle cose terrene vengono portati davanti agli increduli, come se non ci fosse nessuno nella società dei pii che fosse qualificato per giudicare, ragiona in questo senso: «Poiché Dio ha ritenuto i santi degni di tale onore, da costituirli giudici del mondo intero, non è ragionevole che siano esclusi dal giudicare nelle piccole cose, come persone non idonee a Esso”. Ne consegue che i Corinzi ingiungono se stessi consegnando nelle mani dei non credenti l’onore che è stato loro conferito da Dio. Ciò che qui viene detto riguardo al giudizio del mondo dovrebbe essere visto come riferito a quella dichiarazione di Cristo: Quando verrà il Figlio dell’uomo, vi siederete, ecc. (Matteo 19:28). Poiché al Figlio è stato affidato ogni potere di giudizio (Giovanni 5:22) in modo tale che riceverà i suoi santi partecipando con lui a questo onore, come assessori. A parte questo, giudicheranno il mondo, come del resto cominciano già a fare, perché la loro pietà, fede, timore del Signore, buona coscienza e integrità di vita, renderanno i non credenti del tutto inescusabili, come si dice di Noè, che per la sua fede condannò tutti gli uomini del suo tempo. (“Per fede Noè, avvertito divinamente di cose che ancora non si vedevano, costruì con pio timore un’arca a salvezza della sua famiglia; e per questa fede condannò il mondo e divenne erede della giustizia secondo la fede” Ebrei 11:7). Ma il primo significato si accorda meglio con il disegno dell’Apostolo, poiché se non si prende il giudizio qui menzionato nella sua corretta accettazione, il ragionamento non regge. Ma anche in questo senso può sembrare che non abbia molto peso, perché è come se si dicesse: «I santi sono dotati di sapienza celeste, che trascende incommensurabilmente tutte le dottrine umane: perciò possono meglio giudicare stelle che astrologi”. Ora questo nessuno lo permetterà, e il motivo dell’obiezione è evidente: perché la pietà e la dottrina spirituale non conferiscono la conoscenza delle arti umane. La mia risposta qui è questa, che tra la perizia nel giudicare e le altre arti c’è questa differenza, che mentre le seconde si acquistano con l’acutezza dell’intelletto e con lo studio, e si apprendono da maestri, la prima dipende piuttosto dall’equità e dalla coscienziosità . Ma «gli avvocati giudicheranno meglio e con più sicurezza di un cristiano analfabeta: altrimenti la conoscenza del diritto non giova a nulla». Rispondo che il loro consiglio non è qui escluso, perché se si deve cercare la soluzione di qualche questione oscura dalla conoscenza delle leggi, l’Apostolo non impedisce ai cristiani di rivolgersi agli avvocati. Ciò che trova da ridire nei Corinzi è semplicemente questo, che portano le loro controversie davanti a giudici non credenti, come se non ne avessero nella Chiesa qualcuno qualificato per emettere giudizi, e inoltre mostra quanto superiore sia il giudizio che Dio ha assegnato al suo popolo credente. Le parole rese in te significano qui, secondo me, in mezzo a voi. Infatti, ogni volta che i credenti si riuniscono in un luogo, sotto gli auspici di Cristo, c’è già nella loro assemblea una sorta di immagine del giudizio futuro, che sarà perfettamente messo in luce nell’ultimo giorno. Perciò Paolo dice che il mondo viene giudicato nella Chiesa, perché lì è eretto il tribunale di Cristo, dal quale egli esercita la sua autorità” (Giovanni Calvino).