Confessioni di fede/Augustana/28

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Indice generale

Confessione augustana (1530)

Prefazione - Confessioni_di_fede/Augustana/01/I Dio - Il. Il peccato originale - III. Il Figlio di Dio - IV. La giustificazione- V. Il ministero della chiesa - VI. La nuova obbedienza - VII. La chiesa - VIII. Che cos’è la chiesa? - IX. Il battesimo - X. La cena del Signore - XI. La confessione - XII. La penitenza o conversione - XIII. Funzione dei sacramenti - XIV. L’ordine ecclesiastico - XV. I riti della chiesa - XVI. La vita nella società civile XVII. Il ritorno di Cristo per il giudizio - XVIII. Il libero arbitrio - XIX. La causa del peccato - XX. Fede e buone opere - XXI. Il culto dei santi - XXII. La cena del Signore con ambedue le specie - XXIII. Il matrimonio dei preti - XXIV. La messa - XXV. La confessione - XXVI. La distinzione degli alimenti - XXVII. I voti monastici - XXVIII. Il potere ecclesiastico - Conclusione

XXVIII. Il potere ecclesiastico

In passato vi furono grandi dispute sul potere dei vescovi, nelle quali alcuni inopportunamente hanno confuso il potere ecclesiastico e il potere temporale. Da questa confusione ebbero origine durissime guerre e fortissime agitazioni poiché i pontefici, fondandosi sul potere delle chiavi, non solo istituirono nuovi atti di culto, aggravarono le coscienze con l’istituzione dei «casi riservati» e con l’impiego brutale della scomunica, ma tentarono anche di trasferire in altre mani i regni del mondo e di togliere il potere sovrano all’imperatore. Fin da molti anni fa vi furono uomini pii e colti che biasimarono questi errori nella chiesa. Perciò i nostri, per istruire le coscienze, furono costretti a mostrare la differenza fra potere ecclesiastico e potere temporale, ed insegnarono che entrambi, per or dine di Dio, devono essere rispettati con devozione religiosa e onorati come i massimi benefici di Dio sulla terra.

I nostri dunque ritengono che il potere delle chiavi, o potere dei vescovi, secondo l’Evangelo, è il potere o l’ordine ricevuto da Dio di predicare l’Evangelo, di rimettere o ritenere i peccati, e di amministrare i sacramenti. Infatti Cristo invia in missione gli apostoli con questo ordine: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete sa ranno ritenuti» [20:21-23]. Anche Marco 16:15: «Andate, predicate l’Evangelo ad ogni creatura, ecc.».

Questo potere si esercita soltanto insegnando e predicando l’Evangelo e amministrando i sacramenti, sia alle moltitudini, sia ai singoli individui, a seconda della vocazione, poi ché non vengono date cose materiali, ma beni eterni, la giusti zia eterna, lo Spirito Santo, la vita eterna. Queste cose non si possono ottenere se non mediante il ministero della Parola e dei sacramenti, come dice Paolo: «L’Evangelo è potenza di Dio per la salvezza di ogni credente» [1:16]. E il salmo 118 [«La tua Parola mi vivifica». Perciò, dal momento che il potere ecclesiastico concede beni eterni e si esercita soltanto mediante il ministero della Parola, non è di per sé incompatibile con l’assunzione di responsabilità amministrative e politi che, come — ad esempio — l’arte del bel canto non è di per sé incompatibile con il governare uno stato. Infatti il potere politico si dirige a cose del tutto diverse da quelle di cui si occupa l’Evangelo. Il magistrato non tutela le menti ma i corpi e i beni materiali contro ogni evidente ingiustizia, e tiene a freno gli uomini con la spada e le pene corporali. L’Evangelo, invece, tu tela le menti contro le empie credenze, contro il diavolo e la morte eterna.

Potere ecclesiastico e potere temporale non devono dunque essere confusi. 11 potere ecclesiastico ha il suo compito di predicare l’Evangelo e di amministrare i sacramenti: non deve quindi usurpare funzioni che non gli spettano, non deve arrogarsi il diritto di trasferire in altre mani i regni del mondo, di abrogare le leggi dei magistrati, di sciogliere [ popoli] dal vincolo della legittima obbedienza [sovrani], di ostacolare giudizi o sentenze di alcun ordinamento civile o riguardo a qualsiasi contratto, di dettar legge ai magistrati sulla forma di organizzazione dello stato, come dice Cristo: «li mio regno non è di questo mondo» [18:36]. E ancora: «Chi mi ha costituito su voi giudice o spartitore?» [12:14]. E Paolo dice, in Filippesi 3:20: «La nostra cittadinanza è nei cieli». E in 2 Co. 10:4]: «Le armi del nostro combattimento non sono carnali, ma potenti nel cospetto di Dio a distruggere le macchinazioni,.

In tal modo i nostri distinguono i doveri di ognuno di questi due poteri e ordinano di rispettarli entrambi e di riconoscere che entrambi sono un dono e un beneficio di Dio. Se i vescovi hanno un qualche potere temporale, non lo detengono in quanto vescovi, per ordine del Vangelo, ma per diritto umano, accordato loro dai re e dagli imperatori per l’amministrazione civile delle loro proprietà. Pertanto questa è una funzione diversa da quella del ministero del Vangelo.

Quando dunque si discute sulla giurisdizione dei vescovi, si deve distinguere il potere civile dalla giurisdizione ecclesiastica. Perciò, secondo l’Evangelo (o, come dicono, secondo il diritto divino) questa giurisdizione [ compete ai vescovi in quanto tali, cioè a coloro ai quali è affidato il ministero della Parola e dei sacramenti, di rimettere i peccati, di re spingere la dottrina contraria al Vangelo, di escludere dalla comunità della chiesa — senza ricorrere alla forza umana, ma unicamente con la parola — gli empi la cui empietà sia evi dente. In questo caso le chiese hanno il dovere di prestare loro obbedienza per diritto divino, secondo il detto di Cristo: «Chi ascolta voi ascolta me» [10:16].

Ma, se i vescovi insegnano o istituiscono qualcosa di contrario al Vangelo, le chiese hanno in tal caso il comandamento di Dio che vieta loro di obbedire. Matteo 7: 15]: «Guardatevi dai falsi profeti». Galati 1:8: «Quand’anche un angelo dal cielo vi annunziasse un vangelo diverso, sia anatema». 2 Co. 13:8: «Non possiamo nulla contro la verità, possiamo solo per la verità». E ancora: «Ci è stata data l’autorità per edificare, non per distruggere» [13:10]. E così ordinano pure i canoni (li, quaest. VII, caput Sacerdotes, caput Oves)<ref>Decr. Grat. Il, q. 7. e. 8 e e. 3. Agostino, De imitate eccl. 11, 28: PL 43. 410s.</ref>. Anche Agostino, nella sua lettera contro Petiliano, dice: «Ai vescovi cattolici non si deve obbedire se sbagliano in qualche caso o esprimono pareri contrari alle Scritture canoniche di Dio».

Se [vescovi] hanno qualche altro potere o giurisdizione nell’istruire certe cause, come quelle di matrimonio o riguardanti le decime ecc., lo hanno per diritto umano; pertanto, se in queste funzioni gli ordinari sono negligenti, i principi sono costretti — anche contro il loro desiderio a rendere giustizia ai sudditi per mantenere la pace pubblica.

Oltre a questo, si discute pure la questione se i vescovi o i pastori abbiano il diritto di istituire nuove cerimonie nella chiesa e prescrizioni sui cibi, sui giorni festivi, sui gradi dei ministri o sugli ordini. Coloro che attribuiscono questo potere ai vescovi adducono come testimonianza questa parola di Cristo:

«Ho ancora da dirvi molte cose, ma non sono per ora alla vostra portata; ma quando sarà venuto lui, lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità» [ 16,12-13]. Adducono anche l’esempio degli apostoli che prescrissero di astenersi dai sangue e dagli animali soffocati [ 15,20-29]. Citano il sabato mutato nella domenica, in apparente contrasto con il decalogo. Nessun esempio, in verità, è maggiormente esaltato del cambiamento del sabato. Sostengono che è ben grande il potere della chiesa se ha potuto addirittura dispensare dall’osservanza di un precetto del decalogo.

Ma su tale questione<ref>Decr. Grat. 1. d. 9. c. 8.</ref> i nostri insegnano che i vescovi non hanno il potere di prescrivere qualcosa che sia contrario al Vangelo, come abbiamo già prima dimostrato. E lo ammettono anche i canoni, nella distinct. 9,64 pienamente. D’altronde è contro la Scrittura istituire delle tradizioni alfine di dare soddisfazione, mediante la loro osservanza, per i nostri peccati, o per meritare di essere giustificati. Si reca offesa, infatti, alla gloria del merito di Cristo, se riteniamo di essere giustificati con tali osservanze. È noto, inoltre, che a motivo di questa convinzione, le tradizioni si sono moltiplicate all’infinito nella chiesa, mentre la dottrina della fede e della giustizia che pro viene dalla fede fu soffocata; infatti, di volta in volta, fu introdotto un sempre maggior numero di giorni festivi, furono prescritti dei nuovi digiuni. furono istituite nuove cerimonie e nuovi ordini, in quanto gli autori ditali cose ritenevano, con tali opere, di meritare la grazia. Così pure, in passato, si moltiplicarono i canoni penitenziali, dei quali vediamo ancora al cune tracce nelle opere di soddisfazione imposte ai penitenti dopo che è stata impartita l’assoluzione.

Analogamente gli autori di queste tradizioni agiscono contro il comandamento di Dio quando fanno consistere il peccato nel mangiare certi cibi, nel non osservare certi giorni e altre simili cose, facendo pesare sulla chiesa la schiavitù della legge, come se i cristiani fossero obbligati, per meritare la giustificazione, a rendere a Dio un culto simile al culto levitico, la cui istituzione Dio avrebbe affidato agli apostoli e ai vescovi. Così infatti scrivono alcuni, e sembra che i pontefici siano stati ingannati, per qualche aspetto, dall’esempio della legge mosaica. Da qui provengono quei ben noti gravami [ coscienza] secondo cui sarebbe peccato mortale compiere un lavoro manuale nei giorni festivi, anche se non è di scandalo agli altri; o secondo cui certi cibi insozzano la coscienza, o i digiuni, fatti non per la salute ma come pena per i peccati commessi, sono opere che placano Dio; o secondo cui è peccato mortale tralasciare le «ore canoniche», o il peccato, nei «casi riservati», non può essere rimesso se non sia intervenuta l’autorità che li ha riservati, benché gli stessi canoni parlino non di riserva della colpa, ma di riserva delle pene ecclesiastiche.

Da dove traggono il diritto i vescovi di imporre alle chiese quelle tradizioni per prendere a laccio le coscienze? Mentre in vece Pietro vieta di imporre un giogo ai discepoli [15:10], e Paolo afferma che l’autorità è stata data a loro per edificare, non per distruggere [10:8]. Perché, mediante queste tra dizioni, si fanno aumentare i peccati?

In verità esistono chiare testimonianze che vietano di istituire tali tradizioni per placare Dio o come necessarie alla salvezza. Paolo, in Colossesi 2:16: «Nessuno vi giudichi quanto al mangiare o al bere, o rispetto a feste, o a noviluni, o a sabati». E ancora: «Se siete morti con Cristo alle cose del mondo, perché, come se viveste nel mondo, vi lasciate imporre dei precetti quali: non toccare, non assaggiare, non maneggiare, cose tutte destinate a perire con l’uso? Sono prescrizioni e dottrine d’uomini che hanno l’apparenza della saggezza» [2:20-23]. Ancora Paolo, nella Lettera a Tito: «Non dare retta a favole giudaiche né a comandamenti d’uomini che voltano le spalle alla verità» [1:14]. Cristo stesso, in Matteo, dice a proposito di coloro che pretendono l’osservanza di tradizioni: «Lasciateli andare; sono ciechi guide di ciechi» e disapprova tali atti di culto: «Ogni pianta che il Padre mio celeste non ha piantata, sarà sradicata» [15:13s].

Se i vescovi avessero il diritto di aggravare le coscienze con queste tradizioni, perché la Scrittura proibisce così frequente mente di istituirle? Perché le chiama dottrine di demoni? È forse invano che lo Spirito Santo ci avrebbe messo in guardia da tutto ciò?

Rimane il fatto, dunque, che, in quanto tali ordinamenti, istituiti come se fossero necessari o nella convinzione di meritare la giustificazione, sono in contrasto con l’Evangelo, non è lecito ai vescovi istituire tali atti di culto o pretenderli come in dispensabili. È necessario, infatti, che nelle chiese sia mantenuta la dottrina della libertà cristiana, cioè che la sottomissione alla legge non è necessaria per essere giustificati, come è scritto in Galati: «Non vi lasciate porre di nuovo sotto il giogo della servitù» [5:1]. In verità è necessario che sia mantenuta questa parte fondamentale del Vangelo: noi otteniamo la grazia mediante la fede in Cristo, non per certe osservanze o per certi atti di culto istituiti dagli uomini.

Che cosa si deve dunque pensare della istituzione della domenica e di simili riti da celebrarsi nei templi? A questo proposito [ nostri] rispondono che è lecito ai vescovi e ai pastori dare delle prescrizioni affinché ogni cosa sia fatta con ordine nella chiesa, ma non alfine di dare con esse soddisfazione per i peccati, o per vincolare le coscienze perché li considerino atti di culto indispensabili. Così Paolo ordina che nelle assemblee le donne tengano il capo coperto e che coloro che interpretano [ profezie] parlino con ordine nella comunità [11:5]. E bene che le chiese, in nome della carità e per amor di pace, obbediscano a tali prescrizioni e le osservino in modo che non ne nascano scandali, ma che ogni cosa nella chiesa si svolga con ordine e con disciplina; le osservino tuttavia in modo tale che le coscienze non ne siano aggravate pensando che tali prescrizioni siano necessarie alla salvezza e che il violarle, senza scandalo per nessuno, costituisca un peccato. Così, ad esempio, nessuno dirà che una donna che cammina in pubblico con la testa scoperta, senza scandalizzare nessuno, commette peccato.

Della stessa natura è la prescrizione di osservare la domenica, la Pasqua, la Pentecoste e le feste e riti consimili. Infatti chi pensa che l’osservanza della domenica sia stata istituita dal l’autorità della chiesa come obbligatoria, al posto del sabato, cade in errore: la Scrittura, non la chiesa, ha abolito il sabato. Infatti, dopo la rivelazione del Vangelo, tutte le cerimonie mosaiche possono essere abbandonate. Tuttavia, poiché era necessario fissare un giorno affinché il popolo sapesse quando doveva riunirsi, risulta che la chiesa ha destinato a tale scopo la domenica, che sembra sia stata preferita ad altri giorni anche perché i fedeli ne ricevessero un esempio di libertà cristiana e imparassero che non era più necessaria l’osservanza del sabato né quella di qualsiasi altro giorno.

Si assiste anche a dispute incredibili sul cambiamento della legge, sulle cerimonie della nuova legge, sullo spostamento del sabato ecc., che sono tutte nate dalla falsa convinzione che il culto nella chiesa debba essere simile a quello levitico e che Cristo abbia affidato agli apostoli e ai vescovi il compito di inventare nuove cerimonie necessarie alla salvezza. Questi errori serpeggiarono nella chiesa perché non si insegnava abbastanza chiaramente la giustizia che proviene dalla fede. Alcuni sostengono che l’osservanza della domenica non è propriamente di diritto divino, ma quasi di diritto divino; e per ogni giorno festivo prescrivono in che forma e in che misura sia lecito lavo rare. Dispute di questo genere, che altro sono se non lacci per le coscienze? Per quanto essi tentino di mitigare l’osservanza di queste tradizioni, tuttavia non si potrà mai raggiungere l’equità finché rimane intatta la convinzione che la loro osservanza sia necessaria; e questa convinzione è destinata a perdurare finché si continuerà ad ignorare la giustizia che proviene dalla fede e la libertà cristiana.

Gli apostoli ordinarono di astenersi dal sangue ecc. Ma chi osserva oggi queste prescrizioni? Eppure non peccano coloro che non le osservano, poiché neppure gli apostoli, da parte loro, vollero aggravare le coscienze con tale schiavitù, ma quel divieto era solo per quel tempo, onde si evitasse lo scandalo. Infatti, in quel decreto, bisogna concentrare l’attenzione sulla perpetua volontà del Vangelo.

Anche da parte di coloro che difendono le tradizioni, sol tanto qualche canone è osservato alla lettera e molti di essi ogni giorno cadono in disuso. E non si può portare aiuto alle coscienze se non si osserva questa giusta moderazione: sapere che Conviene osservare le tradizioni senza pensare che esse siano necessarie e che le coscienze non subiscono offesa se qualcosa muta nelle usanze degli uomini in quel campo.

I vescovi potrebbero facilmente conservare la legittima obbedienza se non insistessero sull’osservanza delle tradizioni che non si possono osservare in buona coscienza. Attualmente, invece, Impongono il celibato e accettano [ordini ecclesiastici] soltanto coloro che giurano di non voler insegnare la pura dottrina del Vangelo.

Le nostre chiese non chiedono che i vescovi ristabiliscano la concordia a scapito del loro onore, cosa che pure rientrerebbe nei compiti di buoni pastori. Chiedono soltanto che rinuncino ad imporre dei pesi iniqui che sono nuovi e che sono stati accolti al di fuori delle consuetudini della chiesa universale. Forse all’inizio quelle istituzioni ebbero dei motivi plausi bili, che tuttavia non sono più in accordo con i tempi attuali. È anche evidente che alcuni precetti sono stati introdotti per errore. La clemenza dei vescovi richiederebbe perciò che essi ne attenuassero il rigore, poiché tale modificazione non spezza l’unità della chiesa. Molte tradizioni umane, infatti, si sono modificate nel tempo, come dimostrano gli stessi canoni. Se in vece non sarà possibile ottenere che vengano mitigate le osservanze di quei precetti che non si possono osservare senza peccato, si renderà allora necessario per noi seguire la parola degli apostoli che ci comanda di obbedire a Dio anziché agli uomini [5:29].

Pietro vieta ai vescovi di dominare e di imporre alle chiese la loro volontà [ 5,2ss]. Al momento attuale, dunque, non si pretende che i vescovi rinuncino al loro potere, ma si chiede questo soltanto: che permettano la predicazione del Vangelo nella sua purezza e che mitighino l’osservanza di certi precetti, pochi in verità, che non si possono osservare senza peccato. Se invece non lo faranno, constateranno di persona in qual modo dovranno rendere ragione a Dio, poiché con la loro caparbietà e durezza offriranno occasione allo scisma.

Note