Letteratura/Legge/13

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Indice generale

Le istituzioni della Legge biblica, di R. J. Rushdoony

CapitoliPrefazione - Introduzione - 01 - 02 - 03 - 04 - 05 - 06 - 07 - 08 -09 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14 - 15 - 16

 

13. LA LEGGE NEL NUOVO TESTAMENTO

1. CRISTO E LA LEGGE

Una delle dichiarazioni bibliche più importanti e più travisate concernenti la legge è quella di nostro Signore nel Sermone sul Monte:

Non pensate che io sia venuto ad abrogare la legge o i profeti; io non sono venuto per abrogare, ma per portare a compimento. Perché in verità vi dico: Finché il cielo e la terra non passeranno, neppure un iota, o un solo apice della legge passerà, prima che tutto sia adempiuto (Mt. 5:17-18).

Per l’idea di portare a compimento/adempiere sono usate due parole. Quella tradotta con “compiere” nel verso 17 è plerosai, correlata a pleroma: significa rendere pieno, fino in cima, riempire, diffondere, far abbondare o pervadere. I cristiani sono definiti plervusthai, riempiti con la potenza dello Spirito santo (Cl. 2:10; Ef. 3:19). Cristo “riempie” l’universo col suo potere e la sua attività (Ef. 4:10, pleroun). La parola significa riempire e mantenere riempito, cioè implementare come una cosa continua. Pertanto, nostro Signore dichiarò di essere venuto ad attuare la legge e a mantenerla in vigore.

Nel verso 18, la parola usata è genetai, da ginomai, diventare, far avvenire, accadere. La legge quindi diventerà la realtà della vita del mondo fino alla fine del mondo. Questo dà una prospettiva molto diversa al significato di “compiere” da quelle interpretazioni che vedono il suo significato come terminata, ovvero il compimento della legge come la fine della legge. Nel testo non c’è suggerimento di tale significato.

Anzi, Cristo in quanto Messia o Re, perché è venuto, ha dichiarato di nuovo la validità della legge e il suo scopo nel metterla in atto. Questo  fu dichiarato poderosamente in “Un Sermone Predicato davanti alla Casa dei Comuni in Parlamento al loro Pubblico Digiuno, 17, Novembre, 1640” da Stephen Marshall:

Primo. …
Questo è lo scettro con cui Cristo governa: il dimorare della sua parola con un popolo è la prova più grande che essi lo posseggono come loro principe, e il suo riconoscerli come suoi soggetti. Qualsiasi nazione, è essa considerata una parte del Dominio di un Principe se non è governata dalle sue Leggi? Neppure può alcuna terra essere considerata il Regno di Cristo, dove non sia stabilita la predicazione della Parola che è la Verga del suo potere. E il Signore ha sempre considerato quelli che avversano la sua parola, essere quegli uomini che non vorrebbero avere Cristo a governare su di loro.

In secondo luogo, se venissero fatte tutte le buone Leggi del mondo, senza questo, non servirebbero a nulla; ordinate ciò che potete, lasciate questo da fare, e non farete mai le cose cui mirate. Magistrati e Ministri di Giustizia non le eseguiranno e la gente non le obbedirà. I luoghi tenebrosi della Terra sono sempre pieni di abitudini malvagie. Ma se Cristo colpisce la terra con la verga della sua bocca, il Lupo dimorerà con l’Agnello, e il Leopardo si accovaccerà col capretto, il vitello, il giovane leone e l’animale da ingrasso staranno insieme e un piccolo bambino li condurrà. Nulla farà del male o distruggerà dove governa lo scettro di Cristo: Le vostre leggi non possono dare agli uomini cuori nuovi, né nuova forza; quello è il privilegio delle Leggi di Cristo [1].

Il fatto che il Re stesse venendo per implementare il suo regno e la sua legge fu dichiarato schiettamente da Giovanni Battista. Egli parlò “dell’ira a venire” (Mt. 3:7; Lu. 3:7), ovvero del giudizio del Re. “E la scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero dunque che non fa buon frutto, sarà tagliato e gettato nel fuoco (Mt. 3:10; Lu. 3:9). Il Re intendeva giudicare, “ripulire interamente” il suo reame (Mt. 3:12). Quando le persone che credettero chiesero a Giovanni “Che faremo noi dunque?” (Lu. 3:10), Giovanni rispose che avrebbero dovuto fare due cose: prima, obbedire la legge e, seconda, manifestare carità verso i bisognosi (Lu. 3:11-14).

La tentazione di Cristo non può essere compresa separatamente dalla legge. Le tentazioni offerte da Satana richiedevano una dichiarazione d’indipendenza da Dio e dalla sua legge e la scelta della volontà della creatura come legge ultima. La risposta di Cristo a ciascuna tentazione fu una citazione dalla legge: Deuteronomio 6:16; 8:3 e 10:20 (cfr. Gs. 24:14; 1 Sa. 7:3). La direzione per la storia avrebbe dovuto derivare non dalla volontà dell’uomo ma dalla legge di Dio. Come Re, Gesù dichiarò la via di Dio o “torah” e, come Re cacciò demoni (Lu. 4:31-37). Nel procedimento i demoni riconobbero la sua regalità (Lu. 4:34; cfr. Isa. 49:7). Gesù dichiarò di essere “il Figlio dell’Uomo” e “Signore” del sabato (Mt. 12:8; Lu. 6:5; Mc. 2:28).

In particolare il Sermone sul Monte identifica Cristo come Re e Legislatore. Egli invitò il paragone con Mosè dichiarando la legge da un monte (Mt. 5:1); rese chiaro di essere più grande di Mosè, di essere Dio il Re dichiarando non “Così dice il Signore” ma: “Io vi dico” (Mt. 5:18) [2].  In Deuteronomio, Dio pronuncia le maledizioni e le benedizioni; nel Sermone sul Monte, Gesù pronuncia le benedizioni o beatitudini (Mt. 5:3-11). Come Re universale e sovrano Gesù è anche la fonte di tutta la legge, ed Egli stesso la legge o la direzione dell’esistenza. Perciò in quanto il principio della legge e la fonte di ogni benedizione dichiarò di essere il nuovo scibboleth di Dio: “E in nessun altro vi è la salvezza, poiché non c’è alcun altro nome sotto il cielo che sia dato agli uomini, per mezzo del quale dobbiamo essere salvati” (At, 4:12).

Come Re, Gesù sottolineò enfaticamente la sua legge sovrana:

Chi dunque avrà trasgredito uno di questi minimi comandamenti e avrà così insegnato agli uomini, sarà chiamato minimo nel regno dei cieli; ma colui che li metterà in pratica e li insegnerà, sarà chiamato grande nel regno dei cieli. Perciò io vi dico: Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi, e dei farisei, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli (Mt. 5:19-20).

Siccome Gesù è il Legislatore, determina anche le maledizioni e le benedizioni della legge; qui parlò delle conseguenze temporali ed eterne della legge e dichiarò di essere colui che determina quelle conseguenze. Questa fu un’esplicita identificazione di Cristo sia con Dio che con la legge.

Cristo poi procedette a sviluppare le piene implicazioni della legge, le implicazioni loro personali e anche quelle civili, i loro requisiti tanto del cuore che della mano. Essere adirati “senza motivo” con un fratello pattizio è avere l’omicidio nel cuore (Mt. 5:21-24). L’adulterio è proibito tanto nel pensiero che come azione (Mt. 5:27-28). Contro la lassa pratica del tempo viene riaffermata la legge biblica sul divorzio (Mt. 5:31-32). Il terzo comandamento è attuato ed evidenziato in contrasto con l’uso disinvolto dei giuramenti (Mt. 5:33-37). Le limitazioni della legge nel trattare con una potenza aliena che controlla le leggi sono citate in Matteo 5:38-42; la legge non può essere implementata dai nemici della legge. Anche in quella situazione il nostro obbligo è d’osservare la legge, e l’amore è il compimento della legge verso i nostri nemici (Mt. 5:43-48).

Anche le leggi della carità sono analizzate nei termini della loro obbedienza interiore, come lo sono i requisiti dell’adorazione e della preghiera (Mt. 6:1-23).

È richiesta la fiducia nel governo del re (Mt. 6:24-34). Dio il Re conosce i nostri bisogni; noi non osiamo dubitare il suo governo, né essere “di poca fede” (Mt. 6:30).

I criteri personali non possono essere fatti diventare principi di giudizio; la legge di Dio è l’unico criterio (Mt. 7:1-5). Vengono dati avvertimenti per capacitarci a giudicare, e ci è comandato di avere fiducia in Dio il quale verso di noi è più fedele dei nostri stessi genitori.

Il test di cittadinanza nel regno di Dio è l’obbedienza a “queste mie parole” (Mt. 7:24). Edificare su Cristo e sulla sua parola-legge è edificare sulla “roccia” (un antico simbolo per Dio), ma edificare sulla parola dell’uomo è edificare sulla sabbia. L’una direzione porta a sicurezza, l’altra al disastro (Mt. 7:21-27).

Ci è detto dello stupore dei suoi ascoltatori: “perché egli li ammaestrava, come uno che ha autorità, e non come gli scribi” (Mt. 7:29). La parola tradotta con “autorità” è exousia, che significa potere di scelta, autorità, e libertà di fare a proprio piacere: il potere del diritto. Gesù insegnava con autorità; dichiarò essere egli stesso il principio delle maledizioni e delle benedizioni; gli uomini si reggono o cadono nei termini di Lui. Deuteronomio 28 è rinforzato nella sua persona perché egli è la legge incarnata, Dio incarnato, la “via” (Gv. 14:6).

I farisei e i capi compresero tutto questo meglio dei discepoli e della gente. In contrapposizione alle loro lasse interpretazioni della legge, Gesù si dichiarò il difensore della legge nella sua piena forza, e lui stesso il Legislatore. Cercarono, perciò, nel caso della donna colta in adulterio, di metterlo in imbarazzo costringendolo ad emettere una decisione che gli sarebbe stata impopolare (Gv. 8:11). Nei confronti della tassazione, di nuovo cercarono di metterlo pubblicamente all’angolo e costringerlo ad una dichiarazione che avrebbe danneggiato la sua posizione come baluardo della legge (Mt. 21:15-22; cfr. Mc. 12:14; Lu. 20:22). I sadducei cercarono di mettere in ridicolo la dottrina della resurrezione insieme a quella del levirato, e di nuovo Gesù li confuse dalle Scritture (Mt. 22:23-33).

Le ripetute sfide che i capi del popolo portarono a Gesù furono nei termini della legge. Fu fatto uno sforzo molto determinato per negargli la sua posizione come baluardo della legge, infatti, in quanto rappresentanti dell’ordine giuridico stabilito e in quanto governanti del loro tempo, le affermazioni di Gesù costituivano un’incriminazione di queste persone. Pertanto, la controparte delle beatitudini del Sermone sul Monte è la maledizione sui capi del popolo, su questi pervertitori della legge, che Cristo ripetutamente pronunciò, specialmente in Matteo 23. Sul capo di questi pervertitori della legge di Dio sarebbe sceso “tutto il sangue giusto sparso sulla terra” (Mt. 23:35), che avrebbe richiesto la piena vendetta della legge. Maledizioni più terribili non potevano essere pronunciate; ecco perché il loro giudizio fu il più severo di tutta la storia: “perché allora vi sarà una tribolazione così grande, quale non vi fu mai dal principio del mondo fino ad ora né mai più vi sarà” (Mt. 24:21). Questo fu il giudizio del Re il quale dichiarò che “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra” (Mt. 28:18). Quel potere porta la maledizione totale su quelli che oppongono Lui, il suo regno, la sua legge; ma Egli stesso è la beatitudine del suo popolo pattizio.

Note:

1 Robin Jeffs, editore, The English Revolution, Fast Sermons to Parliament, vol. I, Nov. 1640; London: Cornmarket Press, 1970, p. 151 s. I testi del Marshall sono Salmo 74:20 e Isaia 11:4 s.

2 Su Mosè come re (De. 33:5) e il Messia come il Nuovo Mosè, vedi H. L. Ellison, The Centrality of the Messianic Idea for the Old Testament

 

2. LA DONNA COLTA IN ADULTERIO

Durante il corso della nostra analisi della legge, sono stati fatti ripetuti riferimenti alla conferma della legge nei vangeli. Non è qui nostro scopo ripetere quelle conferme o cercare di catalogare esaustivamente ogni riferimento alla legge nei vangeli. Un evento, però, benché citato in precedenza in qualche dettaglio, merita ulteriore attenzione: la storia della donna colta in adulterio in Giovanni 8:1-11. Poiché questo particolare incidente è stato citato come un caso che prova l’accantonamento della legge, di fatto come il caso per eccellenza, necessita di ulteriore attenzione perché nei fatti è una conferma della legge.

Se l’incidente fosse stato minimamente antinomiano avrebbe fornito agli scribi e ai farisei esattamente l’accusa che volevano per condannare Gesù. L’accusa di Gesù contro gli scribi e i farisei fu precisamente il loro antinomismo; egli li aveva duramente denunciati pubblicamente per la loro negligenza della legge in favore della tradizione (Mt. 15:1-10). Contro quest’accusa non era possibile rispondere, i capi del popolo avevano accantonato la legge per mezzo delle loro tradizioni giuridiche umanistiche. L’intero scopo dell’attacco di questi capi era cercare di dimostrare che Gesù, quando posto davanti al solido fatto di un caso concreto, non sarebbe stato un rigido difensore della legge più di loro. L’esempio culminante di questo tentativo d’imbarazzare Gesù fu questo incidente della donna colta in adulterio. Richiedere la piena applicazione della legge, la pena di morte, avrebbe significato invitare ostilità perché l’attitudine prevalente era una di lassismo morale. Negare la pena di morte avrebbe dato ai farisei la possibilità di accusare Gesù d’ipocrisia: a quel punto Egli sarebbe stato della stessa scuola di pensiero dei farisei che condannava. È assai ovvio che Gesù non assunse la posizione antinomiana perché i farisei si allontanarono confusi, e l’incidente ovviamente confermò Gesù come il baluardo della legge.

Una donna era “stata sorpresa sul fatto, mentre commetteva adulterio” (Gv. 8:4). La donna “gli fu condotta”. Non possiamo assumere che fosse venuta volontariamente. Potrebbe essere stata trascinata lì, ma il testo non lo indica. Sembra che “gli scribi e i farisei” coinvolti avessero potere poliziesco, o, che con l’aiuto delle autorità abbiano utilizzato tali poteri legali per obbligarla. Avendo tale autorità, stavano anche richiedendo che Gesù presiedesse l’udienza. L’uomo implicato nell’atto non fu presentato, non abbiamo alcuna conoscenza delle ragioni per questo benché sembrerebbe che avrebbe aggravato la “offesa” di Gesù sia che avesse richiesto la pena di morte per una donna, sia, d’altro lato, se avesse permesso che una donna adultera se n’andasse libera. Gli scribi e i farisei potevano spremere più reazione emotiva usando una donna adultera piuttosto che un uomo. “‘Ora, nella legge Mosè ci ha comandato di lapidare tali donne; ma tu, che ne dici?’ Or dicevano questo per metterlo alla prova e per aver di che accusarlo” (Gv. 8:5-6). Lo scopo dell’incidente è dichiarato espressamente: si cercavano motivi per accusare Gesù. Che avrebbe fatto Gesù? Avrebbe persistito nel fare il difensore della legge, o si sarebbe ritirato nell’uso di qualche aspetto della tradizione farisaica?

“Ma Gesù, fingendo di non sentire, chinatosi, scriveva col dito in terra” (Gv. 8:6). A questo punto il commento di Burgon è molto significativo e merita la citazione completa:

Gli scribi e i farisei portano una donna al nostro SALVATORE con l’accusa d’adulterio. Il peccato prevaleva in tale misura tra i giudei che le promulgazioni divine riguardo ad una persona accusata di questo erano da lungo tempo cadute nell’oblio pratico. Nella presente occasione si osserva nostro SIGNORE  riportare in vita un suo antico ordinamento in un modo fin qui mai visto. Il processo per acqua amara, o acqua di convinzione (vedi Nu. v. 11-31), era una specie di ordalia, intesa per la conferma d’innocenza o il convincimento di colpa. Ma secondo la credenza tradizionale la prova risultava inefficace a meno che il marito fosse innocente del crimine di cui accusava la moglie.

Si considerino ora i provvedimenti della legge contenuta in Numeri v. 16 a 24. Avendo fatto avvicinare la donna accusata e fatta stare in piedi davanti al SIGNORE, il sacerdote prendeva “dell’acqua santa in un vaso di terra” e prendeva “della polvere dal pavimento del tabernacolo e la metteva nell’acqua”. Poi, con in mano l’acqua amara che porta maledizione, esaminava la donna sotto giuramento. Poi scriveva le maledizioni in un rotolo e le cancellava con l’acqua amara. Poi faceva bere alla donna dell’acqua amara che porta maledizione. Al che, se ella era colpevole, sarebbe caduta sotto una pena terribile: il suo corpo avrebbe testificato del suo peccato. Se era innocente non succedeva nulla.

Ed ora, chi non vede che il Santo trattò i suoi ipocriti assalitori, come se fossero essi la parte accusata? In verità erano stati fatti stare in piedi davanti alla presenza di JEHOWAH incarnato: e probabilmente, quand’egli si chinò e scrisse per terra, quella che scrisse fu un’amara sentenza contro gli adulteri e le adultere. Non possiamo fare a meno d’assumere che ci sia qualche connessione tra la maledizione che tracciò “nella polvere del pavimento del tabernacolo” e le parole che pronunciò con le sue labbra, e in verità si può dichiarare che abbia “preso della polvere e messa nell’acqua” e abbia “loro fatta bere l’acqua amara che porta maledizione”. Infatti quando, per lo Spirito santo, il nostro grande Sommo Sacerdote nella sua carne umana si rivolse a questi adulteri — cosa fece se non presentare loro acqua viva (Nu. v. 17, Così i LXX) “ in un vaso di terra” (2 Co. iv. 7; v. 1)? Non li ha Egli ulteriormente accusati d’aver fatto un giuramento esecratorio, dicendo: “Se non avete deviato nell’impurità, siete liberi dall’acqua amara: ma se siete contaminati …” Confrontati con questa alternativa, non si defilarono uno alla volta, convinti dalla coscienza? E che cos’altro era questo se non l’assoluzione della donna peccatrice per la condanna della quale si erano dimostrati così impazienti? Sicuramente fu “l’acqua di maledizione” com’è chiamata sei volte [in Numeri 5], quella che essi furono costretti a bere; al che “convinti dalla loro coscienza”, come racconta san Giovanni, avevano pronunciato l’assoluzione dell’altra. Infine, si noti che declinando di “condannare” egli stesso la donna accusata, il SIGNORE, in effetti, cancellò quelle maledizioni che aveva  già scritte contro di lei nella polvere, quando fece del pavimento del santuario il proprio “rotolo” [1].

Poiché quest’incidente avvenne nel tempio (Gv. 8:2), il commento di Burgon è ancor più sul punto. La polvere del tempio su cui Gesù scrisse aveva i requisiti della legge. La sua azione collocò immediatamente tutti sotto processo. Che ne siano stati consapevoli, lo acclara il testo, perché ci dice che tutti furono “convinti dalla loro coscienza” (Gv. 8:9).

Delle accuse erano state fatte contro la donna da parte degli “scribi e farisei”. Le loro accuse rappresentavano un preciso caso contro una donna  sorpresa “sul fatto mentre commetteva adulterio”. Le contro-accuse di Gesù, mediante le sue azioni e con la sua dichiarazione: “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei” (Gv 8:7) li distrusse. In quanto essi stessi uomini colpevoli, sospettarono che da parte sua Gesù avesse delle prove contro di loro. S’erano affaccendati a cercare di raccogliere prove contro Gesù; questo rese più facile per loro credere che Gesù avesse fatto lo stesso nei loro confronti.

Questi scribi e farisei avevano proferito accuse contro la donna al posto di suo marito [2]; Gesù li colloca nella categoria del marito invocando Numeri 5 col suo scrivere sulla polvere. Se erano colpevoli, e Gesù sapeva della loro colpa, allora Egli invocò la pena di morte, non poteva forse incriminare anche loro? Invocando Numeri 5, Gesù in effetti pose anche loro sotto processo: erano venuti a giudizio con mani pulite?

Appellarsi agli “alti standard morali” dei farisei non vale. Questi uomini stavano progettando la morte di Gesù. Di fronte al loro deliberato e calcolato piano contro il Messia di Dio, il peccato d’adulterio era cosa irrisoria per tali uomini. Non digerivano un’accusa contro di loro che poteva citare  la richiesta di pena capitale da parte di Dio.

Quando Gesù disse: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Gv. 8:7), non si stava riferendo ai peccati in generale ma al peccato d’adulterio. Una dichiarazione generale avrebbe significato che non è possibile avere nessuna corte di giustizia; il riferimento specifico significava che uomini colpevoli di un crimine non erano moralmente liberi di condannare quel crimine in altri a meno che non lo condannassero anche in loro stessi. Ci è detto che tutti gli scribi e i farisei furono a quel punto “convinti dalla coscienza” (v. 9).

Inoltre, Gesù aveva confermato la pena di morte; aveva semplicemente domandato che dei testimoni onesti si facessero avanti e la eseguissero, che “scagliassero la prima pietra” (v.7). Rimanere come testimoni contro di lei era invitare la testimonianza contro se stessi; testificare su di un fatto testimoniato e confermare la pena di morte contro la donna era invitare una testimonianza a morte contro loro stessi. Se ne andarono.

Gesù dunque, alzatosi e non vedendo altri che la donna, le disse: “Donna dove sono quelli che ti accusavano? Nessuno ti ha condannata?”.

Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. Gesù allora le disse: “Neppure io ti condanno; va’ e non peccare più” (Gv 8:10-11).

A questo punto è necessario distinguere il perdono civile o giuridico [penale]. Il perdono civile avviene quando una persona condannata paga la pena per il proprio crimine, quando la restituzione è stata fatta e i requisiti morali della legge sono soddisfatti. Un ladro che avesse rubato ad un uomo un bue e avesse restituito cinque volte sarebbe stato con ciò perdonato. Il perdono religioso richiede come condizione sine qua non la restituzione, ovvero il perdono civile. Un ladro non può essere perdonato religiosamente se non ha fatto restituzione.

C’è una distinzione simile tra la condanna civile e quella religiosa. La condanna civile è per reati contro la legge civile; la condanna religiosa è per ambedue i reati contro la legge civile e per la miscredenza nei confronti di Dio e della sua parola-legge. I due tipi di perdono e di condanna sono distinti ma correlati.

Gesù era stato interpellato perché si pronunciasse sulla legge penale riguardo all’adulterio: Egli affermò la pena di morte. I testimoni, però, avevano ritirato l’accusa ed erano spariti. Non c’era pertanto un caso giuridico contro la donna. Legalmente, perciò, Gesù non poteva sostenere la procedura: “Neppure io ti condanno”.

Ma esisteva una procedura morale. L’umiltà della donna, che lo riconobbe come “Signore”, indica qualche evidenza di cambiamento in lei, e forse rigenerazione. Ma Gesù disse semplicemente: “Va’ e non peccare più”, un’eco delle sue parole in Giovanni 5:14: “Non peccare più affinché non ti avvenga di peggio”.

È più che possibile che ella fosse religiosamente una persona cambiata, e perdonata per grazia di Dio. Ci è semplicemente detto che al momento non esisteva fondamento per una condanna legale. Questo non esclude una susseguente condanna legale; il marito, se ne aveva uno, la cosa non è evidente nell’episodio, avrebbe avuto fondamento per qualche tipo d’azione, sotto la legge esistente, se avesse scelto d’intraprenderla. Questo non è l’interesse del testo. Le fu concessa l’assoluzione nei termini delle evidenze della “udienza” appena svolta. Gesù riconobbe la realtà del suo reato col suo avvertimento: “Va’ e non peccare più”. Il fatto di questo avvertimento indica qualche evidenza di cambiamento in lei, visto che era contrario alla pratica di nostro Signore avvertire quelli che non volevano esserlo (Mt. 7:6). Per Cristo, dire a una persona non-rigenerata: “Non peccare più” era irragionevole. Il peccato particolare cui si riferì era l’adulterio. Ella fu caricata della responsabilità di vivere castamente come un aspetto della sua nuova vita in Cristo.

La donna si rivolse a Gesù come “Signore” (Gv. 8:11); gli scribi e i farisei lo chiamavano semplicemente “Maestro” (v. 4), e i discepoli stessi spesso parlavano di lui chiamandolo semplicemente “Rabbi” (Gv. 1:49). Il sua comportamento qui indica una persona cambiata.

In breve, al posto di qualche evidenza di antinomismo, questo episodio conferma enfaticamente la posizione di Gesù come difensore della legge, ed egli confuse i tentativi degli scribi e dei farisei di provare diversamente.

Il peccato di fariseismo fu dunque messo a nudo. Il fariseismo, prima di tutto, negava la necessità della conversione. L’uomo, senza aiuto, col suo libero arbitrio, è capace di salvarsi, di scegliere tra bene e male e farsi buono. Furono pertanto da loro affermati tanto il libero arbitrio che la salvezza autonoma, e negati la predestinazione, e la conversione o rigenerazione [3].  Secondo, mentre professavano di attenersi alla legge di Dio i farisei l’avevano convertita nella tradizione degli uomini. In questo modo avevano negato le dottrine bibliche della giustificazione e della santificazione e di conseguenza furono il bersaglio particolare della denuncia di Cristo. Mentre professavano d’essere i difensori della parola di Dio i farisei ne erano di fatto nemici e pervertitori.

Note:

1.  John W. Burgon, The Woman Taken in Adultery, p. 239 s. Sulle evidenze dell’autenticità di questo passo, vedi p. 246 s.

2. Nella legge biblica l’onere di formulare l’accusa e istruire una causa spettava alla parte lesa, in questo caso l’eventuale marito. (N.d.T)

3. Vedi Hugo Odeberg, Phariseeism and Christianity; St. Louis: Concordia, 1964.

 

3. ATTACCO ALL’ANTINOMISMO

Diverse questioni divisero i capi religiosi da Gesù. Essi rigettarono la sua implicita ed esplicita dichiarazione di essere il Messia; negarono la sua condizione unica di Figlio di Dio; Rigettarono la sua richiesta di una riforma religiosa nei termini di se stesso; e si risentirono fortemente per i suoi attacchi alla tradizione. Come difensori della legge secondo le loro tradizioni religiose e civili i capi del popolo si risentirono per l’accusa di Gesù che erano di fatto dei senza-legge. La tradizione era per loro lo sviluppo vitale e necessario della legge; veniva dunque data la priorità alla tradizione sulla legge. I farisei, comunque, vedevano la loro tradizione come inseparabile dalla legge: Gesù, dal canto suo, attaccò le loro tradizioni come una perversione della legge.

La questione fu dichiarata aspramente alla terza pasqua. Secondo Marco 7:1-23 (cfr. Mt. 15:1-20), gli scribi e i farisei attaccarono Gesù per la presunta violazione della legge da parte di alcuni dei suoi discepoli. Questi discepoli “mangiavano il cibo con le loro mani impure, cioè non lavate” (Mc. 7:2). Questo non significa che questi discepoli mangiassero con mani sporche ma piuttosto con mani cerimonialmente non purificate. Questa era “la tradizione degli anziani” (vs. 3). Si trattava di una forma rituale di separazione da un mondo “impuro” ed era considerata un’aspetto della legge e una forma di santità.

L’attacco di Gesù a questa usanza apparentemente innocua fu sferrato con parole dure:

Ma egli, rispondendo, disse loro: Ben profetizzò Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me. Ma invano mi rendono un culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando infatti il comandamento di Dio, vi attenete alla tradizione degli uomini: lavatura di brocche e di coppe; e fate molte altre cose simili (Mc. 7:6-8).

I discepoli di Gesù erano stati accusati di trasgredire la legge; la risposta di Gesù fu di negare la validità della loro legge religiosa fatta dall’uomo e di chiamare la loro legge “comandamenti di uomini” e “tradizione degli uomini”. Gli scribi e i farisei furono chiamati ipocriti e il loro culto descritto come  “vano” o futile. Il commento di Alexander sul verso 7 è d’interesse:

La traduzione letterale delle parole ebraiche è: e il loro temermi (ovvero il loro culto) è (o è diventatoun precetto di uomini, una cosa insegnata. … Nell’applicazione del passaggio agli ipocriti dei suoi giorni, il nostro Salvatore si riferisce particolarmente a capi religiosi, che corrompevano la legge con le loro aggiunte non autorizzate [1].

L’innalzamento di una tradizione innocua ad una posizione pari alla legge di Dio ed egualmente vincolante per l’uomo è totalmente condannata da Gesù. Legge significa la legge di Dio, non i comandamenti degli uomini. Perciò, l’accusa  degli scribi e dei farisei contro alcuni discepoli fu rovesciata contro di loro: essi erano trasgressori della legge. “E fate molte altre cose simili” (vs. 8).

Una di queste cose viene poi citata specificamente:

Disse loro ancora: “Voi siete abili nell’annullare il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosé infatti ha detto: ‘onora tuo padre e tua madre’ e: ‘chi maledice il padre o la madre sia messo a morte’. Ma voi dite: ‘Se un uomo dice a suo padre o a sua madre: Tutto quello con cui potrei assisterti è Corban cioè un’offerta a Dio’, non gli lasciate piú far nulla per suo padre o per sua madre, annullando cosí la parola di Dio con la vostra tradizione, che voi avete tramandata. E fate molte altre cose simili” (Mc. 7: 9-13).

La legge di Mosè (vs. 10) è identificata con “il comandamento di Dio” (vs. 9) e “la parola di Dio” (vs. 13). La legge di Mosè non può essere ridotta alla dimensione di una legge nazionale per il solo Israele, né ad una cosa di passaggio: è l’immutabile comandamento o parola del Dio immutabile. Gli scribi e i farisei sono accusati di aver alterato, rigettato e annullato la legge di Dio.

La legge di Dio richiede che si onorino i genitori e che li si sostengano economicamente nel loro bisogno. Maledire un genitore è incorrere nella pena di morte.  Secondo Gesù, mancare di sostenerli economicamente è un modo di maledirli.

Gli scribi e i farisei invece esentavano gli uomini dall’obbligo di sostenere i genitori. Pronunciano Corban i propri mezzi di sostentamento tali uomini potevano specificare l’intero ammontare o una parte del loro reddito come dono al tempio o ai sacerdoti e ai leviti. “Che cose simili fossero permesse e plaudite  può essere provato da certi detti del Talmud, e specialmente da una famosa disputa tra Rabbi Eliezer e i suoi fratelli, nella quale proprio l’azione qui descritta fu convalidata da quest’ultimi” [2]. La religione era dunque usata per condonare la violazione della legge di Dio (vs. 12). Gesù dichiarò nuovamente: “E fate molte altre cose simili” (vs.13). La loro violazione della legge di Dio non era occasionale: era basilare e radicale. Stavano annullando la legge di Dio con la loro tradizione.

Gli scribi e i farisei si gloriavano, ci informa san Paolo, di essere conduttori dei ciechi “guida di ciechi” (Ro. 2:19). Consideravano la loro tradizione come uno strumento importante nel guidare il cieco. Ora, informato che i farisei s’erano offesi per le sue constatazioni, Gesù spinse ulteriormente la questione:

Ma egli, rispondendo, disse: “Ogni pianta che il Padre mio celeste non ha piantata sarà sradicata. Lasciateli, sono ciechi guide di ciechi; e se un cieco guida un altro cieco, ambedue cadranno nella fossa” (Mt. 15:13-14).

I farisei erano “ciechi guide di ciechi”, e il loro destino era la fossa. Ma ancor di più, Gesù rigettò con forza ogni legge eccetto quelle che erano state date da Dio: “Ogni pianta che il Padre mio celeste non ha piantata, sarà sradicata”. Poiché la faccenda in questione è la legge, il suo riferimento con “pianta” è chiaramente la legge, benché s’intenda di più perché si tratta di una generalizzazione. L’esempio particolare da cui è fatta la generalizzazione è la legge di Dio, e il significato principale è la legge. Pertanto, ogni ordine giuridico non piantato da Dio, non fondato fedelmente sulla legge di Dio: “sarà sradicato”. Non solo è condannato l’antinomismo ma anche il legalismo, che è la sostituzione della legge dell’uomo per quella di Dio.

Le cose che contaminano l’uomo, che lo rendono impuro davanti a Dio, provengono dall’interno. L’empietà è la sostituzione della via dell’uomo per quella di Dio, della legge dell’uomo per quella di Dio. L’empietà dichiara: “ha Dio veramente detto …?” (Ge. 3:1). L’azione esteriore d’empietà è il prodotto di una contaminazione interiore che poi contamina il mondo esterno con le sue azioni:  

Disse ancora: «Ciò che esce dall’uomo, quello lo contamina. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, procedono pensieri malvagi, adultéri, fornicazioni, omicidi, furti, cupidigie, malizie, frodi, insolenza, invidia, bestemmia, orgoglio, stoltezza. Tutte queste cose malvagie escono dal di dentro dell’uomo e lo contaminano (Mc. 7:20-23).

I farisei erano come i moderni assertori della responsabilità dell’ambiente sociale: ciò che proviene dall’esterno contamina l’uomo. In contrapposizione, Gesù enfaticamente indicò il cuore dell’uomo come la scaturigine della contaminazione. Credere che il male provenga dalla società porta all’antinomismo perché nega la responsabilità in favore dei condizionamenti esterni. La legge di Dio evidenzia la responsabilità e non permette a nessun uomo di evaderla. La purezza, per i farisei, stava progressivamente diventando una questione cerimoniale, una questione di isolamento da un mondo contaminante. Però, secondo Gesù, ogni uomo è la propria fonte di contaminazione; “dal di dentro”, Egli dichiarò, in contrasto con i farisei, non dall’esterno, proviene la contaminazione. A causa di questo antinomismo, i farisei stavano logicamente sviluppando una nuova legge: la tradizione degli uomini, per sfuggire alla forza della responsabilità individuale della legge di Dio. I lavaggi cerimoniali perciò non erano innocui: con tali lavaggi assumevano che il mondo fosse la fonte di contaminazione, non la loro natura decaduta. Era perciò inevitabile che preferissero la loro tradizione alla legge di Dio. Nell’attaccare i farisei, Gesù stava perciò condannando ogni forma di antinomismo in ogni epoca. L’antinomismo non può perciò mai chiamarsi legittimamente cristiano.

Se il mondo è la fonte basilare di contaminazione, la logica della legge richiede un ricondizionamento dell’ambiente: il mondo deve essere ricreato per poter salvare l’uomo. Se la fonte basilare della contaminazione, come dichiarò Gesù è “dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini” allora la salvezza dell’uomo è la conversione o rigenerazione. L’uomo deve essere ri-creato se il mondo stesso debba essere salvato. Abbiamo in questo modo due opposte dottrine di salvezza e di legge.

Note:

1. Joseph Addison Alexander, Commentary on the Gospel of Mark; Grand Rapids: Zondervan, [1864], p. 185.

2. Ibid. p. 189.

 

4. LA TRASFIGURAZIONE

La relazione tra Gesù e Mosè è evidenziata dai vangeli. Come Mosè, Gesù promulga la legge da un monte. Mosè mediò tra Dio e Israele, esibendo con ciò la funzione del Mosè Maggiore. La profezia concernente il Messia era che sarebbe stato come Mosè (De. 18:18-19). Proprio come Mosè condusse il popolo di Dio dalla cattività alla libertà, così il Mosè Maggiore avrebbe condotto la razza pattizia di Dio.

Il paragone fatto tra Mosè e Cristo è particolarmente chiaro nel racconto della trasfigurazione (Mt. 17:1-9; Mc. 9:2-10; Lu. 9:28-36). Il paragone è marcato in diversi punti.

Prima di tutto, l’incidente avvenne su un monte. La maggior parte dei commentatori sono preoccupati d’identificare la montagna anziché analizzare il significato del fatto che si appartarono in montagna. La privacy sarebbe stata possibile anche in altri luoghi. È evidente che la scelta di una montagna invitava il paragone con Mosè, e Gesù, auto-consapevolmente adempì la profezia implicita nella tipologia. Proprio come Mosè salì sulla montagna, dopo il primo episodio disastroso, per tornare con rinnovate tavole della legge, ed egli stesso trasfigurato, così Gesù salì sul monte. Aveva già dato la legge da un monte, ovvero la sua conferma della legge nel Sermone sul Monte. Ora, come Mosè, sarebbe stato trasfigurato. Il Mosè trasfigurato diede le istruzioni per la costruzione del tabernacolo; il Cristo trasfigurato, in quanto Egli stesso la dimorante presenza di Dio, compì tutti i sacrifici del vecchio tabernacolo tipizzati. Il fatto che i discepoli tendessero ad aspettarsi la letterale restaurazione del potere politico d’Israele fu confermata dall’evento della trasfigurazione; nella cornice delle loro insistenti aspettative, la trasfigurazione sembrò confermare la loro speranza.

Secondo, Gesù fu “trasfigurato alla loro presenza”. Matteo ci dice che “la sua faccia risplendette come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt. 17:2). Marco dice che “le sue vesti divennero bianchissime come neve; più bianche di ciò che potrebbe fare alcun lavandaio sulla terra” (Mc. 9:3), e Luca dice che “l’aspetto del suo volto cambiò e la sua veste divenne candida e sfolgorante” (Lu. 9:29). La trasfigurazione di Mosè è pertanto ripetuta e superata.

Or Mosè, quando scese dal monte Sinai (scendendo dal monte Mosè aveva in mano le due tavole della testimonianza), non sapeva che la pelle del suo volto era divenuta raggiante, perché era stato a parlare con l’Eterno.Così, quando Aaronne e tutti i figli d’Israele videro Mosè, ecco che la pelle del suo volto era raggiante ed essi avevano paura di avvicinarsi a lui (Es. 34:29-30).

Come Mosè ebbe finito di parlare con loro, mise un velo sul suo volto. Quando però Mosè entrava davanti all’Eterno per parlare con lui, si toglieva il velo finché usciva fuori; uscendo fuori, diceva ai figli d’Israele ciò che gli era stato comandato. I figli d’Israele, guardando la faccia di Mosè, vedevano che la pelle di Mosè era raggiante; poi Mosè rimetteva il velo sul suo volto, fino a quando entrava a parlare con l’Eterno (Es. 29:33-35).

L’esperienza di Mosè è ripetuta sul monte per indicare Gesù come Mosè Maggiore.

Terzo, “Ed apparve loro Mosè con Elia, i quali conversavano con Gesù” (Mc. 9:4). In persona, la legge e i profeti resero testimonianza al Grande Legislatore e Supremo Profeta.

C’era, era ovvio, un unico accoppiamento in ciascun caso. Uno era il grande rappresentante della legge, il quale fu un “precettore” o “servo- tutore” nel portare uomini a Cristo, l’altro dell’intera considerevole compagnia dei profeti. Dell’uno era stato detto che “un profeta come lui” sarebbe venuto in un tempo successivo (De, xviii. 18), al quale tutti gli uomini avrebbero dovuto dare ascolto; dell’altro, che sarebbe venuto di nuovo per “far ritornare il cuore dei padri ai figli” (Ml. iv. 5). La conclusione del ministero di ciascuno non fu “secondo la morte comune a tutti gli uomini”. Nessuno conosceva la sepoltura di Mosè (De. xxxiv. 6), ed Elia era salito in cielo col carro e cavalli di fuoco (2 Re ii. 11). Ambedue erano associati nella mente degli uomini con la gloria del regno del Cristo. Il Targum di Gerusalemme (a Ex. xiii.) collega la venuta di Mosè con quella del Messia. Un’altra tradizione giudaica predice la sua comparsa con quella di Elia. La loro presenza era ora un’attestazione che la loro opera era finita, e che Cristo era venuto [1].

Però, anziché testimoniare che la loro opera era terminata, di cui il testo non dà indicazione, la presenza di Mosè ed Elia con Gesù attesta la loro unità. La loro opera e ministero era una parola e un ministero; non si può fare nessuna divisione tra Gesù e la legge e i profeti. Mosè ed Elia “apparvero in gloria” (Lu. 9:31), e Gesù stesso fu trasfigurato e glorificato talché i tre rivelano insieme la gloria di Dio.

Quarto, “Essi parlarono del suo decesso (dipartita, ND) che doveva compiere a Gerusalemme” (Lu. 9:31), letteralmente “il decesso o dipartita di Lui”. La parola tradotta “decesso” (dipartita) in greco è exodon, la nostra parola in italiano “esodo”. La scelta di parole di Luca non fu accidentale. Mosè condusse il popolo di Dio nel loro esodo dall’Egitto; Elia testimoniò della loro apostasia e dunque implicitamente dell’esodo a venire dalla terra promessa. Ora Gesù stava per compiere il vero esodo a Gerusalemme. Con la sua morte espiatrice e la sua resurrezione, Gesù avrebbe condotto il popolo di Dio dalla terra di schiavitù alla vera libertà. Ebrei 4 sviluppa questo stesso punto contrastando Giosuè e Gesù ciascuno nel suo condurre il popolo di Dio nel loro sabato o riposo. L’enfasi qui è nell’esodo che sta per compiersi a Gerusalemme, non nella visione in sé. Ecco perché quando Pietro cercò di concentrare l’attenzione sul fatto della visione piuttosto che sulla sua chiamata ad agire nella storia, la sua affermazione fu ignorata (Lu. 9:33).

Nixon ha richiamato l’attenzione sull’uso esteso del tema dell’esodo nel Nuovo Testamento. Alcuni dei molti eventi citati sono il battesimo di Gesù da parte di Giovanni, una “rappresentazione sacramentale dell’esodo storico d’Israele e, allo stesso tempo, un’introduzione al nuovo esodo di salvezza”; i quaranta giorni della tentazione nel deserto “sono una miniatura dei quarant’anni che Israele trascorse nel deserto. … Le tentazioni poste a Cristo sono basilarmente quelle a cui Israele cedette”:

Ove furono insoddisfatti con la manna che Yahweh provvide, Gesù è tentato di trasformare le pietre in pane. Ove misero Dio alla prova a Massa richiedendo una prova della sua presenza e potere, Egli fu tentato di gettarsi dal pinnacolo del tempio per costringere Dio a onorare le sue promesse. Ove dimenticarono il Signore che li aveva fatti uscire dall’Egitto e lo sostituirono con un vitello fuso, Gesù è tentato di prostrarsi e adorare Satana. Cristo viene mostrato che affronta le tentazioni non arbitrariamente ma deliberatamente dal riassunto che Mosè fa in Deuteronomio della storia d’Israele nel deserto. Se Gesù era realmente il vero rappresentante del popolo di Dio, doveva essere mostrato che aveva avuto il suo viaggio nel deserto e aveva sostenuto il test che provò la sua persona, solo senza peccato [2] .

Anche l’invio dei settanta (Lu. 10:1 s.) è un eco dell’esperienza dell’Esodo (Nu. 11:16 s.). “Deve dunque esserci una nuova conquista di Canaan. Le sue città saranno distrutte in un giorno di giudizio (Mc. 8:12; Mt. 16:4; Mt. 12:39; Lu. 7:31 s.)” [3].

Quinto, Gesù fu comprovato dalla legge e dai profeti, e da Dio stesso, essere il Mosè Maggiore. La voce di Dio dalla nuvola (un simbolo di Dio in giudizio) dichiarò: “Questo è il mio amato Figlio in cui mi sono compiaciuto: ascoltatelo!” (Mt. 17:5). San Pietro ci dice esattamente ciò che questo significò:

Mosè stesso infatti disse ai padri: Il Signore Dio vostro susciterà per voi un profeta come me in mezzo ai vostri fratelli; ascoltatelo in tutte le cose che egli vi dirà. E avverrà che chiunque non ascolterà quel profeta, sarà distrutto tra il popolo (At.3:22-23).

Mosè diede la legge; quelli che rifiutarono di ascoltarlo rifiutarono di sottomettersi alla legge di Dio; rivelarono con ciò la loro natura non- rigenerata. Gesù assomiglia a Mosè; Egli è il grande e definitivo Legislatore incarnato. Ascoltare Lui è ascoltare tutta la legge e i profeti e molto di più. Rigettarlo è negare la legge e i profeti insieme alla sua persona. Ogni persona che non vuole ascoltarlo sarebbe stata “estirpato di mezzo al popolo (NR)”. In Deuteronomio 18:19, che Pietro citò, il testo dice: “io gliene domanderò conto”. La minaccia, o promessa di distruzione compare in Esodo 12:15, 19; Levitico 17; 4, 9, ecc. Il significato ultimo di “recisa” è richiesto qui ed è applicato da Pietro perché disobbedire la parola-legge di Gesù Cristo è essere una persona radicalmente senza-legge (empia).

L’ “Ascoltatelo” di Dio non chiamò ad ascoltare Gesù contrapposto a Mosè ed Elia, perché essi comparvero in gloria con lui. Il comando di ascoltare Gesù è di dare ascolto a Cristo, la cui parola è la totalità delle Scritture, in contrapposizione agli scribi e ai farisei, i capi del popolo. I discepoli devono ascoltare Gesù Cristo, che significa ascoltare Mosè ed Elia, contrapposti alle potenze di questo mondo, e contrapposti ai suoi filosofi e capi religiosi. Devono ascoltare Gesù anziché uomini di “una generazione incredula e perversa” (Lu. 9:41).

È pertanto una bestemmia separare la legge da Gesù Cristo. Il fatto che ciò venga fatto è un’evidenza di un declino religioso e di un collasso. Come evidenza di questo fatto, si prenda visione di una lettera di uno studente di primo anno di un prominente seminario che si gloria della propria “ortodossia”:

Il Dottor W. Colloca l’intera discussione (sull’aborto) nella sfera puramente accademica quando ha divorziato la moralità dalla società dicendo che siccome questa è una democrazia, lo stato sarebbe costretto a basare le proprie decisioni riguardo alle leggi sull’aborto sulla volontà della maggioranza delle persone. Se essi pensano che l’aborto danneggi la società, devono proibirlo, se no, lasciate che lei lo squarti!! Il suo antinomismo è raccapricciante.
Suppongo che quella sia la cosa che trovo più preoccupante qui (più negli studenti che nei professori, ma in quest’ultimi in una certa misura): l’antinomismo. La vecchia tiritera: “Io non mescolo mai religione e politica…” … Tra alcune delle persone è così terribile che quando ho cercato di discutere la legge di Dio in politica e nella società con uno degli studenti nella prima settimana che ero qui, lui mi ha detto che il problema con me è che sono troppo “bacchettone!”
Ora, ho associato parecchie cose col desiderio di osservare la legge di Dio, ma mai quella!
Una cosa che mi ha disturbato riguardo alla questione dell’aborto è stata che era più o meno presupposta da tutti qui, anche da quelli che osteggiano l’aborto generico, che l’aborto terapeutico sia moralmente giustificabile. …E dunque l’uccisione (di chiunque?) Per una “buona causa” è accettabile. È difficile capire perché non vedano la fallacia di questa cosa. L’omicidio è omicidio [4].

Una tale posizione è anti-biblica e anti-cristiana, come tutto l’antinomismo inevitabilmente è.

La salvezza è per grazia di Dio mediante la fede; la santificazione è mediante la legge di Dio. Quelli fuori dalla grazia sentono la legge come un’accusa; è una sentenza di morte contro di loro. Quelli che sono nel patto sono in un patto di grazia che è anche in patto di opere. La grazia li abilita a svolgere le opere che sono loro richieste. Il combattimento di Gesù non fu contro Mosè: fu contro gli scribi e i farisei che pervertivano Mosè. Separare la legge e i profeti da Gesù è una perversione delle Scritture. Il monte della trasfigurazione testimoniò della loro unità.

Foulkes ha giustamente indicato che il patto e la legge sono una unità, il patto in quanto principio della predizione, e anche base per la preghiera.

È significativo anche che per Israele la legge non è solamente un’affermazione di principi astratti, un codice di comportamento attentamente congegnato e formulato come tale. La legge è l’espressione della giustizia e della misericordia di Dio. È la dichiarazione dei principi del patto. La collocazione veterotestamentaria della legge è la promulgazione del patto al tempo dell’Esodo. Il Decalogo comincia: “Io sono il Signore Dio tuo che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù….”

La legge, pertanto, contiene non solo un codice che Israele doveva osservare, ma anche i principi che stanno alla base dell’azione di Dio nel passato, che rimangono gli stessi per il presente ed il futuro [5].

L’antinomismo ha favorito lo sviluppo di una legge umanistica, e la legge umanistica ha stimolato la crescita dell’antinomismo. Quando gli uomini hanno visto la legge umanistica assumere un carattere messianico e allo stesso tempo dissolvere le fondamenta della società, è stato facile per loro sviluppare un’ostilità teologica alla legge. Nelle Scritture, comunque, la legge è proclamata al popolo eletto, al patto di grazia; e il prologo della legge, come ha notato Foulked, celebra quella grazia.

Note:

1 C. J. Gloucester and Bristol, Commentary on Mattew XVII. 3, in Ellicott, VI, 104.
2 R. E. Nixon, The Exodous in the New Testament; London: The Tyndale Press, 1962, p. 14 s.

Ibid., p. 17.

4 Da una lettera del 17 ottobre, 1970. (Rispetto al caso dove ipoteticamente il dottore deva scegliere tra la vita della madre e la vita del bambino, non sono stato capace di trovare medici che potessero citare un caso del genere. Non posso credere che Dio metta mai un uomo in una situazione dove deve assumere il ruolo di Dio. L’intera questione dell’aborto terapeutico è un tentativo di creare situazioni dove l’uomo deve svolgere il ruolo di Dio. RJR)

5 Francis Foulkes, The Acts of God, a Study of the Basis of Typology in the Old Testament; London: The Tyndale Press, 1955, p. 17.

 

5. IL REGNO DI DIO

Luca riporta un’affermazione importante sulla relazione di Legge e Profeti con il regno di Dio:

Or i farisei, che erano amanti del denaro, udivano tutte queste cose e si beffavano di lui. Ed egli disse loro: «Voi siete quelli che giustificate voi stessi davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori; poiché ciò che è grandemente stimato tra gli uomini è cosa abominevole davanti a Dio. La legge e i profeti arrivano fino a Giovanni; da allora in poi il regno di Dio è annunziato e ognuno si sforza di entrarvi. Ma è più facile che passino il cielo e la terra, piuttosto che cada un sol apice della legge (Lu. 16:14-17).

La forza di quest’ultimo versetto non può essere sminuita in nessun modo. “Gli scribi e i farisei avevano una storia di manomissione della sacralità di leggi che non sono di oggi o di ieri — stabili come i monti eterni — e viene loro detto che la loro casistica non può accantonare le richieste di quelle leggi in nessuna singola istanza, quale, ad esempio, quella che segue immediatamente [1].  Il verso 17 rende perfettamente chiaro che la legge non è in nessun modo eliminata; è ancora in vigore. Sui versetti 17 e 18 Geldenhuys commenta:

17. Ma, nonostante sia un fatto che col suo (di Cristo) avvento si sia entrati in un nuovo ordine, una nuova dispensazione, ciò non significa che la rivelazione di Dio sotto il Vecchio Patto sia accantonata o rigettata. Benché fosse di natura preparatoria essa rimane (naturalmente in un senso morale e spirituale e nella piena luce della rivelazione divina in e per mezzo di Gesù) assolutamente autoritativa.

18. Le leggi morali, per esempio, possono essere violate — l’adulterio continua ad essere adulterio, anche nonostante il fatto che il tempo della preparazione sia stato superato dal tempo del compimento [2].

Il problema concerne la prima parte del versetto 16: “La legge e i profeti arrivano fino a Giovanni”, o, come lo rende la Versione Berkeley: “Fino a Giovanni avemmo la legge e i profeti”. Questo non può significare che la legge e i profeti non siano più validi o in vigore, perché confliggerebbe con la conclusione del versetto 17. Se “è più facile che passino il cielo e la terra, piuttosto che cada un sol apice della legge”, allora la legge non è caduta e col verso 16 è inteso qualcos’altro. La frase successiva del verso 16 rende chiaro cosa sia inteso: “da allora in poi il regno di Dio è predicato”. Fino a Giovanni la predicazione era dalla legge e i profeti; ora Dio il Re, nella persona di Cristo, predica. Ambedue le frasi trattano una proclamazione; l’una con un preannuncio, l’altra con un avvento. Cristo il Re è venuto: il Re è il Legislatore e il grande esecutore. Essendo il Re, egli viene a raccogliere insieme il suo popolo e a prendere possesso per loro della loro eredità.

La conseguenza è che “ogni uomo si sforza di entrarvi” (vs. 16). Lenski traduce questo verso in questo modo: “La legge e i profeti —fino a Giovanni, da allora in poi il Regno di Dio è predicato come buona novella, e ognuno si sta energicamente pressando dentro” [3].  Ciò significa, come ha notato Plummer, che: “ il giudeo non ha più alcun diritto esclusivo” [4].  Ora tutte le nazioni sono chiamate dentro al nuovo patto. Questo cambiamento, comunque, non invalida la legge. “Ci sono diversi detti giudaici che dichiarano che chiunque sia colpevole di scambiare qualcuna di queste simili lettere (essi distinguono le lettere e gli iota) in certi passi del Vecchio Testamento distruggeranno l’intera parola” [5].  Questi detti sono echeggiati da Cristo nel verso 17.

Tra quelli che “premono” per entrare nel regno non erano inclusi i capi del popolo, come rese chiaro Gesù nella parabola del ricco e Lazzaro (Lu. 16:19-31). Da nessun altra parte una persona in una parabola è chiamata per nome. Tertulliano, in De Anima (vii) sostenne che il nome fosse prova che la narrativa non fosse una parabola ma storia. Ciò che la storia effettivamente insegna chiaramente è che gli uomini prominenti della Giudea non avrebbero creduto. “Non crederanno neppure se uno risuscitasse dai morti” (vs. 31) come Cristo fece di lì a poco. Dall’altra parte, persone da tutto il mondo si sforzarono di entrare nel regno e si sottomisero alle sue leggi. In questo modo, da un lato, gli scribi e i farisei rigettarono Gesù Cristo e sostituirono la legge con tradizioni umane; dall’altro molte persone premettero per entrare nel regno, accettando Cristo come loro Redentore e Re e sottomettendosi alla sua legge. Edersheim notò che “la parabola in sé è strettamente dei farisei e della loro relazione con ‘pubblicani e peccatori’ che essi disprezzavano, al cui economato essi opposero il loro diritto di proprietà” [6].  Del verso 17 Edersheim osservò:

Sì, era vero che la Legge non poteva venir meno in un piccolo trattino d’essa. Ma notoriamente, e nella vita di tutti i giorni, i farisei, che parlavano in questo modo della legge e si appellavano ad essa, erano i costanti e manifesti trasgressori della stessa. Lo testimonia qui la pratica riguardante il divorzio, che effettivamente implicava l’infrazione del settimo comandamento [7].

Il Re era venuto e perciò il Regno di Dio era ora manifesto in un senso che non era possibile quando Dio governava dal tabernacolo. Il Re, dichiarando la propria regalità universale e chiamando tutte le genti della terra a spingersi dentro, stava con ciò togliendo il regno dai falsi locatari (Mt. 21:43). Edersheim osservò, dei passi del Nuovo Testamento che trattano del Regno:

Di fatto, un’analisi dei 119 passi nel Nuovo Testamento dove si presenta l’espressione “Regno” dimostra che essa significa il governo 'di Dio; che fu manifestato in e per mezzo di Cristoè visibile nella chiesasi sviluppa gradualmente in mezzo a impedimenti; è trionfante alla seconda venuta di Cristo (“la fine”); e infine, è reso perfetto nel mondo a venire. Visto in questo modo, l’annuncio di Giovanni del vicino avvento di questo Regno ha un significato più profondo, benché, come succede spesso col profetismo, gli stadi che intervengono tra l’Avvento di Cristo e il trionfo di quel Regno sembrano essere stati nascosti al predicatore. Egli venne a chiamare Israele a sottomettersi al Regno di Dio, in procinto di essere manifestato in Cristo. Ecco perché, da un lato egli li chiamò a pentimento — un “cambio di mente” — con tutto ciò che questo implicava; e, dall’altro lato, li spinse verso Cristo, nell’esaltazione della sua Persona e del suo Ufficio. O, piuttosto, i due combinati insieme possono essere riassunti nel richiamo: “Cambiate la vostra mente” — pentitevi, che implica, non solo un voltare le spalle al passato ma un volgersi a Cristo in novità di mente. E pertanto l’atto simbolico con cui accompagnava la sua predicazione può essere designato “il battesimo di ravvedimento” [8].

In Matteo 11:20-24 Gesù denunciò le città d’Israele per averlo rigettato. Nel giorno del giudizio a Sodoma e Gomorra sarebbe andata meglio che a queste città dov’era intronato il fariseismo. Contrapposto ai capi d’Israele Gesù offrì un “giogo” dolce (Mt. 11:29-30). L’espressione fa riferimento ad un’espressione giudaica comune a quel tempo: “prendere il giogo del regno dei cieli”, intendendo “giurare obbedienza alla legge” [9].  La legge d’Israele era finita col diventare l’insostenibile giogo della tradizione umana che annullava la legge di Dio. Al suo posto Gesù offrì il dolce giogo della legge di Dio. “Nel suo insegnamento il regno diventa di nuovo un regno di grazia quanto di legge, e in questo modo il bilanciamento preservato così bene nel Vecchio Testamento è ripristinato” [10].  Il termine “regno dei cieli” equivale a “regno di Dio”; l’abitudine giudaica d’evitare l’uso del nome di Dio portò ad un utilizzo frequente della prima definizione [11].

Nel “Padre Nostro”, la grande petizione all’inizio è “Venga il tuo regno. Sia fatta la tua volontà in terra come in cielo” (Mt. 6:10). La preghiera conclude: “Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria, in eterno. Amen” (Mt. 6:13). L’ingresso in quel regno è mediante l’elezione della grazia di Dio; le regole di quel regno sono i comandamenti di Dio: la sua legge. Per chi è nella grazia, il giogo è dolce, e il peso è leggero, perché la grazia risponde alla legge.

Note:

1 Gloucester and Bristol; “Luke” in Ellicott, VI, 322.

2 Norval Geldenhuys, Commentary on the Gospel of Luke; Grand Rapids: Eerdmand, 1951,p. 421. Con riguardo a Luca 16:18, molti sostengono che questo impedisce il divorzio o quantomeno le seconde nozze di persone divorziate, In questo modo, uno studioso sostiene che “il matrimonio di persone divorziate è proibito nelle Scritture” (H. C. Hoeksema. “About Marriage Regulations for Priests in Leviticus”, The Standard Bearer, vol. XLVII, n°. 5 [1 dicembre, 1970], p. 115. La legge mosaica che permette il divorzio non è accantonata da nessuna parte; 1 Corinzi 7:15 lo conferma. Il punto di Luca 16:18 è che gli empi divorzi del tempo, come quelli condonati dalla perversione della legge dei farisei, non ha posizione davanti a Dio. Matteo 19:9 rende chiaro che il permesso di rimaritarsi è negato solo a coloro i quali sono privi di fondamento biblico per il divorzio; divorzio e secondo matrimonio non sono proibiti a chi ha pie basi.

3 R. C. H. Lenski, Interpretation of St. Like’s Gospel; Columbus Ohio: The Wartburg Press, 1946, 1951, p. 839.

4 Alfred Plummer, A Critical and Exegetical Commentary on the Gospel According to St. Luke; Edimburgh: T. & T. Clark, 1910, p. 389.

Ibid., p. 389.
6 Alfred Edesheim, The Life and Times of Jesus the Messiah; New York: Longmans, Green, 1897, II, 277.

Ibid.

Ibid., I, 270.

9 Geerardus Vos, The Teaching of Jesus Concerning the Kingdom and the Church; Grand Rapids: Eerdmans, 1951, p. 18.

10 Ibid., p. 19.

11 Ibid., p. 24.

 

6. IL DENARO DEL TRIBUTO

Una delle storie meglio conosciute del Nuovo Testamento è la domanda che riguarda la questione del denaro del tributo: “È lecito o no pagare il tributo a Cesare?” La risposta di Cristo: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mt. 22:15-22; Mc. 12:13-17; Lu. 20:20-26), è una delle frasi più conosciute della Scrittura. L’implicazione generale è stata riconosciuta da tempo; nell’applicazione specifica c’è stata molta varietà.

Il proposito dei farisei è ancora una volta “coglierlo in fallo nelle parole” (Mt. 22:15). Luca è più specifico: “Essi lo osservavano attentamente e gli mandarono degli istigatori che, fingendosi giusti, lo sorprendessero in fallo in un suo discorso, per poi consegnarlo al potere e all’autorità del governatore” (Lu. 20:20-26). È inteso il governatore romano. Evidentemente l’aspettativa era che Gesù, in fedeltà alla legge, avrebbe dichiarato che in Israele era valida solo una teocrazia, non il governo e la legge romana. Dietro a questa strategia c’erano i farisei e gli erodiani (Mt. 22:16; Mc. 12:13), un partito politico minore, non religioso, del tempo. Gli erodiani favorivano la tassazione romana e la dinastia di Erode, che essi consideravano preferibile al diretto governo di Roma. I farisei erano normalmente ostili agli erodiani, ma unirono le forze in ostilità a Gesù. Se Gesù si fosse opposto alla tassa avrebbe potuto essere denunciato e consegnato alle autorità romane perché fosse arrestato e processato.

La domanda fu preceduta da smaccata adulazione; gli interpellanti chiesero come se motivati da una sensibile coscienza piuttosto che da un desiderio di intrappolare. Cercarono di spingere Gesù verso una risposta incurante delle conseguenze asserendo: “Maestro, noi sappiamo che tu sei verace e non hai riguardi per nessuno, perché non badi all’apparenza delle persone, ma insegni la via di Dio secondo verità” (Mc. 12:14). Una tale integrità, sperarono, l’avrebbe costretto a negare la legittimità della tassa romana. “Ci è lecito pagare il tributo a Cesare o no?” (Lu. 20:22).

Il testo greco rende chiaro he la tassa era una “capitazione” non una tassa indiretta [1].  “Luca usa phoros, la parola più ampia per “tributo” come viene pagato da una nazione ad un’altra; Matteo e Marco usano il più specifico kenos o testatico che viene imposto ad ogni individuo sulla sua persona ed è quindi particolarmente irritante in quanto un marchio di servitù al potere romano” [2].

Israele aveva già un testatico, quello richiesto dalla legge di Dio in Esodo 30:11-16. Il suo scopo era provvedere espiazione civile, ovvero la copertura o protezione del governo civile. Ogni maschio dai vent’anni in su doveva pagare questa tassa per essere protetto da Dio il Re nel suo governo teocratico d’Israele. Questa tassa era dunque un dovere civile e religioso (ma non uno ecclesiastico).

C’era dunque un particolare aggravamento nel fatto che anche Roma richiedesse una capitazione o testatico. L’impero romano e l’imperatore stavano progressivamente assumendo ruoli divini, richiedendo consenso religioso, e reclamando priorità sulla religione. Il testatico era quindi una tassa particolarmente offensiva, perché sembrava richiedere una fede politeista, l’adorazione di un dio altro dal vero Dio. Inoltre, la tassazione erodiana era talmente pesante che ben due volte il governo imperiale costrinse Erode a ridurre la sua esazione di tasse per evitare seri problemi. Giuda Galileo si era tempo prima presentato come come il messia ed aveva intimato Israele, nel nome del Dio delle Scritture, di rifiutare di pagare la tassa. I romani furono spietati nello spegnere la ribellione (At. 5:37).

La faccenda era stata aggravata fin dal 29 d. C. da Pilato, il quale per un periodo emise coniazione “raffigurante il lituus, il bastone sacerdotale, o la patera, la coppa sacrificale — due simboli della filosofia imperiale che erano destinati a risultare odiosi alla nazione [3].  Queste monete furono più tardi ritirate, ma fecero il servizio di evidenziare il fatto che la loro sottomissione a Roma aveva connotazioni religiose.

Il diritto di emettere monete aveva per Israele connotazioni religiose come implica 1 Maccabei 15:6, ed era quindi importante per loro. “La ‘moneta’ e il ‘potere’ erano considerati sinonimi, di modo che la moneta era il simbolo della dominazione del governante” [4].  Nel secondo secolo dopo Cristo, Bar Cochba, il falso messia, rimpiazzò la coniazione romana col proprio conio come mezzo per affermare il proprio potere. La questione implicita nell’affermazione degli erodiani era se qualsiasi governo altro da quello di Dio avesse alcuna legittimità. L’affermazione di Cristo della sua messianicità era vista dai suoi accusatori come un diniego del diritto di Cesare di tassare (Lu. 23:2), infatti, nella loro prospettiva, il Messia in quanto Re avrebbe dovuto avere sovranità esclusiva. Per Gesù, aver negato a Cesare il diritto di tassare Israele sarebbe stato segno d’insurrezione e l’avrebbe reso passibile d’arresto. Per Gesù l’aver affermato il diritto di Cesare di tassare sarebbe stato, agli occhi del popolo, una negazione della sua messianicità.

La risposta di Gesù fu di chiedere un denario; lo chiese a chi gli stava facendo la domanda. Come scrisse Stauffer, il cui capitolo su “La storia della moneta del tributo” è molto importante:

Gesù chiese una moneta, un denarius. Perché? C’erano un sacco di monete nell’immenso impero romano che passavano per legale moneta corrente, vecchie e nuove, grandi e piccole, imperiali e locali, oro, argento, rame, bronzo, e ottone. In nessun’altra nazione circolavano tante monete come in Palestina. Ma la moneta prescritta per scopi fiscali attraverso tutto l’impero era il denarius, una piccola moneta d’argento del valoro di circa uno scellino. (In Marco 12:16; Luca 20:24 e Matteo 22:19 può essere inteso solo il denarius d’argento, non una moneta d’oro, come suppone Tiziano nella sua rappresentazione della scena del tributo il ‘Cristo della moneta’, non una moneta erodiana, com’è spesso affermato, perché le monete erodiane non erano chiamate denarii e non erano monete da tributo ma spiccioli locali di rame.) Gesù lo sapeva, e perciò chiese che gli fosse portata la moneta imperiale d’argento prescritta per la tassa, usando la parola latina, l’espressione tecnica romana che era diventata corrente in Palestina insieme alla stessa moneta. “Portatemi un denarius“, Egli disse. Non ne produsse uno dalla propria tasca. Perché no? Il punto ora non è se Gesù avesse avuto tale moneta nella sua tasca ma se i suoi oppositori l’avessero avuta. Con ironia socratica, aggiunse: “perché lo veda?” Perché? Aveva uno scopo maieutico con i suoi inquisitori, che voleva portare loro alla moda socratica, non a priori, ma a posteriori. Non il loro senso logico o morale, ma la loro situazione e attitudine storica avrebbe portato alla luce la verità. Qualcosa deve essere visto, e dedotto, dal denarius stesso [5].

Quando gli fu porta la moneta, egli non rispose alla loro domanda: “È lecito dare il tributo a Cesare, o no?” Invece, egli fece un’atra domanda: “Di chi è questa immagine e questa iscrizione?” (Mt. 22:20; Mc. 12:16; Lu. 20:24). La risposta fu, ovviamente: “di Cesare”. Secondo Geldenhuys:

Dopo il riconoscimento che è di Cesare, i due fatti seguenti vengono vividamente portati alla luce attraverso il modo maestro con cui Gesù ha gestito la situazione:
(1) Ci sono monete con l’immagine e l’iscrizione di Cesare che sono in uso tra i giudei.

(2) Le monete sono evidentemente proprietà di Cesare, altrimenti non avrebbero portato la sua immagine e la sua iscrizione.
Da questi due fatti consegue che Gesù aveva accettato la dominazione imperiale come realtà pratica, perché era generalmente opinione corrente che il potere di un governante s’estendeva fin dove erano in uso le sue monete [6].

La realtà pratica fu pertanto resa chiara. Questi uomini usavano le monete di Tiberio che ritraevano un “busto di Tiberio in olimpica nudità, adorno di una corona di lauro, il segno della divinità”. L’iscrizione diceva da un lato: “Imperatore Tiberio Augusto Figlio dell’Augusto Dio”, e dall’altro “Pontifex Maximus” ovvero “Sommo Pontefice”. I simboli includevano la madre dell’imperatore: Giulia Augusta (Livia) seduta sul trono degli dèi, con nella mano destra lo scettro dell’Olimpo, e in quella sinistra un ramo d’olivo a significare che “ella era l’incarnazione terrena della Pace celeste” [7].  Le monete avevano dunque un significato religioso. In un certo senso, Israele stava servendo altri dèi essendo soggetta a Roma e alla valuta di Roma. Il punto, fatto implicitamente dai nemici di Gesù, che il tributo a Cesare aveva connotazioni religiose, fu quasi confermato da Gesù proprio mentre fornì la prova della loro sottomissione a Cesare.

Poi vene la sua grande risposta: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio (Mc. 12:17). Secondo Stauffer rendete qui significa “restituite”. “Quella è la prima grande sorpresa in questo verso, e il suo significato è: il pagamento del tributo a Cesare è non solo vostro indubitabile obbligo; è anche il vostro dovere morale” [8].  San Paolo usa lo stesso termine in Romani 13:7: “Rendete dunque a ciascuno ciò che gli è dovuto: il tributo a chi dovete il tributo, l’imposta a chi dovete l’imposta …”. La Giudea stava vivendo all’interno dell’Impero Romano, ricevendo da quell’impero benefici militari ed economici che lo volesse oppure no. Perfino se i benefici dell’Impero fossero stati superati dalle sue passività, la gente doveva lo stesso rendere a Cesare ciò che gli spettava.

Rimaneva ancora il fatto che due testatici rimanevano contrapposti, uno pagato all’imperatore e l’altro a Dio. La tassa imperiale provvedeva “per il sacrificio quotidiano per il bene dell’imperatore romano” manteneva l’impero romano come entità religiosa [9].  L’altra tassa, chiamata la tassa del tempio, era la tassa di Dio per il mantenimento del suo ordinamento pio. Come si poteva pagarle entrambe? Secondo Stauffer: “Egli affermò il simbolismo del potere ma rigettò il simbolismo del culto. Ma questa riserva non fu resa come un’affermazione negativa, ma piuttosto come un comando positivo. “Rendete a Dio ciò che è di Dio” [10].  Stauffer ha ragione nel dire che, secondo Numeri 8:13 s., questo significa che “tutto appartiene a Dio” [11].  Al tempo in cui Gesù parlò il testatico biblico veniva raccolto in primavera, nel mese di Adar. Più specificamente, Gesù chiese che la tassa di Cesare fosse resa a Cesare, e la tassa di Dio fosse resa a Dio. Sembra che la chiesa primitiva fosse consapevole di questo fatto. Girolamo, commentando su Matteo 22:21, dichiarò: “ Rendete a Cesare le cose che sono di Cesare, vale a dire: monete, tributo, denaro; e a Dio le cose che sono di Dio, vale a dire: decime, primizie, voti, sacrifici” [12].

L’allontanamento d’Israele dal governo e dalla legge di Dio li aveva posti sotto il governo e la legge romana; dovevano a Roma il tributo dovuto a Roma. Roma non serviva Dio, ma neppure lo faceva Israele. L’obbedienza è dovuta a tutte le autorità sotto le quali ci troviamo (Ro. 13:1-7). Roma era ora il loro padrone, e Roma doveva essere obbedita. L’obbedienza a Dio richiede obbedienza a tutti coloro dei quali ci troviamo sottoposti. Nella tentazione nel deserto, Satana aveva tentato Gesù di seguire la via dell’impero: dare al popolo pane e miracoli; abilitarli a camminare per visione. Ora, attraverso altri tentatori, fu offerta la tentazione di rigettare tutti gli imperi, tutte le potenze terrene.

Cristo conquistò di nuovo questa tentazione con le sue parole sul doppio dovere d’obbedienza alla via e all’obbiettivo della storia, al regno del mondo e al regno di Dio. Marco 12:17 è pronunciato da Cristo in conspectu mortis, in vista della morte messianica. La Settimana santa è l’esegesi esistenziale delle sue parole: sottomissione al dominio di Cesare, sottomissione al dominio di Dio — uniti nell’accettazione di quel mostruoso omicidio giudiziale mediante ilquale la creatura più miserabile di Cesare compie sub contrario l’opera di Dio (Mt. 26:52 s.; Gv. 19:11) [13].

Torniamo alle parole di san Girolamo. Ci sono due tipi di tassazione e Cristo richiede l’obbedienza ad entrambe. Il mondo di Cesare cerca di creare un nuovo mondo senza Dio, e senza rigenerazione; esige una tassa pesante e compie poco o niente. Noi siamo, da peccatori, orientati dalla nostra natura decaduta a cercare la risposta di Cesare. Noi paghiamo il nostro tributo a Cesare così, nella nostra fede e coi nostri soldi. La risposta al mondo di Cesare non è la disobbedienza civile, la cui implicazione finale è la rivoluzione. Questa è la via di Cesare, il credere che gli sforzi dell’uomo per opere della legge possa ricreare l’uomo e il mondo.

La risposta è invece d’obbedire tutte le debite autorità e pagare tributo, tassa e onore a chi sia dovuto. Questo è l’aspetto minore del nostro dovere. Più importante, dobbiamo rendere a Dio ciò che gli è dovuto, le nostre decime, le primizie, i voti, e i sacrifici. Il rigenerato comincia col riconoscere Dio, l’autore e redentore della sua vita, e suo signore e salvatore, suo Re. Ad ogni punto della sua vita, rende a Dio il servizio che gli è dovuto, ringraziamento, lode e decima. La sua salvezza è dono di Dio; l’abbondanza di cui gode è dono e provvidenza di Dio, il rigenerato perciò rende, restituisce a Dio, la porzione di tutte le cose che Dio ha indicato.

La via di resistere a Roma scelta dalla Giudea portò alla peggior guerra del mondo e alla morte della nazione. Nè la risposta imperiale romana, né quella giudea, rivoluzionaria, offrirono altro che morte e disastro. Auto- consapevolmente, i cristiani seguirono il loro Signore. Giustino Martire scrisse:

E ogni dove noi, più prontamente di tutti gli uomini, ci sforziamo di pagare a quelli da voi preposti le tasse, sia quelle ordinarie che quelle straordinarie, come ci è stato insegnato da Lui, se uno debba pagare il tributo a Cesare; ed Egli rispose. “Ditemi di chi è l’immagine su questa moneta?” Ed essi dissero: “Di Cesare”; e di nuovo Egli rispose loro: “ Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Da cui noi rendiamo il culto solo a Dio, ma nelle altre cose, vi serviamo con allegrezza, riconoscendovi come re e governatori degli uomini, e preghiamo che coi vostri poteri regali siate trovati in possesso anche di giusto giudizio. Ma se non darete alcuna considerazione alle nostre preghiere e alle nostre franche spiegazioni, non ne subiremo perdita, poiché noi crediamo (o anzi, siamo di fatto persuasi) che ogni uomo soffrirà punizione nel fuoco eterno secondo i meriti delle sue opere, e tutti renderanno conto secondo il potere che hanno ricevuto da Dio, come Cristo intimò, quando disse: “a chi molto è stato affidato, molto più sarà richiesto” [14].

La risposta di Cristo non impedì che i suoi nemici lo accusassero di “sovvertire la nazione e proibire di dare i tributi a Cesare” (Lu. 23:2). La sua risposta in realtà aveva demolito ogni fondamento d’accusa contro di lui.

Il loro dovere, Gesù aveva dichiarato, era di “restituire” “di pagare ciò che era dovuto”[15] a Cesare e a Dio. Ciò che è dovuto aCesare è dovuto a Cesare solo per la provvidenza, proposito e consiglio di Dio. Ciò che è dovuto a Dio, ciò che tutti gli uomini gli devono, è tutto. Gesù enunciò “Il diritto assoluto e peculiare di Dio rispetto ad ogni uomo individualmente e a tutti gli uomini collettivamente — un diritto esclusivo e totale posseduto solo da Dio”[16].

Quelli che riducono questa grande dichiarazione di Gesù a una dichiarazione riguardante la separazione tra chiesa e stato hanno mancato il punto dell’incidente.

Note:

1 Plummer, Luke, p. 465.
2 Lenski, Luke, p. 988.
3 Ethelbert Stauffer, Christ and the Caesars; Philadelphia: Westminster Press, 1955, p. 119.

Ibid., p. 125.
Ibid., p. 122 s.
6 Geldenhuys, Luke, p. 504.
7 Stauffer, op. cit., p. 124 s.
Ibid., p. 129.
Ibid.,p. 131.
10 Ibid., p. 132.
11 Ibid.
12 Ibid.
13 Ibid., p. 135.
14 Justino Martire, Prima Apologia, cap. XVII.
15 Geldenhuys, op. cit., p. 507.
16 Ibid., p. 508.

 

7. IL MANDATO CULTURALE

Nel 1970, il Trentaquattresimo Sinodo Generale della Bible Presbyterian Church, riunito venerdì 9 ottobre, presso il Christian Admiral Hotel, Cape May, New Jersey, adottò una risoluzione. Questa misura, la Risoluzione n° 13, con la paternità del dr. McRae e del dr. Carl McIntire, concerneva “Il Mandato Culturale” e dichiarava:

Risoluzione N° 13

IL MANDATO CULTURALE

Noi, i membri del 34° Sinodo Generale della Bible Presbyterian Church, riuniti a Cape May, New Jersey nell’ottobre del 1970, desideriamo esprimere la nostra opposizione alla falsa dottrina talvolta chiamata “il mandato culturale”. Il mandato sotto cui i cristiani obbediscono il loro Signore è il Grande Mandato di Matteo 28:18-20, il quale richiede che insegniamo e onoriamo tutte le cose “che io vi ho comandate”. Questo cosiddetto “mandato culturale” istruisce erroneamente la propria causa su Genesi 1:28 prima della Caduta* e della promessa di redenzione nella progenie della donna. Le condizioni di Genesi 1:28 non saranno mai più a disposizione dell’uomo fino a dopo il ritorno di Cristo e la rimozione del peccato. Il mandato culturale dichiara che sia dovere del cristiano perseguire queste realtà pre-Caduta*, proprio come è loro dovere predicare l’Evangelo. Questo stesso comando fu rinnovato a Noè (Genesi 9) dopo il Diluvio senza alcun riferimento al comando “e rendetevela soggetta”. Inoltre, il verso non ha nulla a che vedere con la cultura, nel senso attuale del termine. Il cosiddetto “mandato culturale” è basato interamente su una parola del verso, la parola tradotta “e soggiogatela”. Come tutte le parole della Scrittura, questa parola dovrebbe essere interpretata nel contesto. Qui il contesto è quello di riempire la terra di persone. Dice che la terra deve essere messa a coltivazione per permettere a queste persone di sopravvivere e di moltiplicarsi. Quello, e solo quello è il significato. Calvino non vide in questo verso né un mandato, né nient’altro correlato alla cultura, e lo stesso vale per gli altri grandi esegeti della storia cristiana.

Noi ci opponiamo al “mandato culturale” anche perché dà una falsa idea della collocazione del cristiano in quest’era di peccato, e tronca il nervo della vera opera missionaria e dell’evangelismo.
I cristiani hanno un diritto di godere dei frutti dei vari sviluppi culturali sotto la grazia comune e di partecipare di tutte le buone cose che Dio ha create. Ma il sommo dovere dei cristiani tra la Caduta* e il Ritorno di Cristo è di testimoniare della giustizia di Dio in tutte le cose, di vivere vite pie, e di usare ogni sforzo per portare individui alla conoscenza del salvatore, che possano essere redenti mediante il suo prezioso sangue e possano crescere nella grazia e in conoscenza della sua parola.

_________________________________

Adottato all’unanimità, venerdì 9 ottobre, 1970, dal 34° Sinodo Generale della Bible Presbyterian Church, riunita al Christian Admiral Hotel, Cape May, New Jersey, Ottobre 5-9, 1970.

Prima di analizzare questa misura, esaminiamo il termine mandato culturaleCultura significa: “Educare o raffinare; coltivare. 1. La coltivazione di piante o di animali, specialmente con in prospettiva il miglioramento. 2. L’addestramento, miglioramento, e raffinamento di mente, morale o gusto; illuminazione …”. Mandato significa: “Un requisito autorevole; un comando; ordine, incarico”. Il mandato culturale è quindi l’obbligo dell’uomo pattizio di soggiogare la terra e di esercitare su di essa il dominio sotto Dio (Ge. 1:26_28). La legge è il programma per quel proposito e provvede il mezzo ordinato-da-Dio per migliorare e sviluppare piante, animali, uomini e istituzioni nei termini del loro dovere di compiere il proposito di Dio. In ogni epoca, gli uomini hanno il dovere d’obbedire Dio e di educarsi e migliorarsi; ovvero di santificarsi nei termini della legge di Dio. Tutti i nemici di Cristo in questo mondo decaduto devono essere conquistati. San Paolo, nel richiamare i credenti alla loro vocazione, dichiarò:

Perché le armi della nostra guerra non sono carnali, ma potenti in Dio a distruggere le fortezze, affinché distruggiamo le argomentazioni ed ogni altezza che si eleva contro la conoscenza di Dio e rendiamo sottomesso ogni pensiero all’ubbidienza di Cristo, e siamo pronti a punire qualsiasi disubbidienza, quando la vostra ubbidienza sarà perfetta (2 Co. 10:4-6).

La Versione Berkeley rende il verso 6 in questo modo: “Siamo anche pronti ad amministrare giustizia su qualsiasi disobbedienza quando la vostra obbedienza sarà completamente dimostrata”. Moffat esprime la forza di questo verso ancor più chiaramente: “Io sono pronto a processare in corte marziale chiunque rimanga insubordinato, una volta che la vostra sottomissione è completa”. Moffat rende il verso 5: “Io demolisco teorie e qualsiasi bastione innalzato per resistere la conoscenza di Dio, io faccio prigione ogni progetto per farlo obbedire a Cristo”.

San Paolo stava parlando del mandato culturale. Prima della Caduta il compito era meno complicato. Ora l’uomo ha bisogno della rigenerazione. Pertanto, il primo passo nel mandato è portare persone alla parola di Dio affinché Dio le rigeneri. Il secondo passo è demolire qualsiasi tipo di teoria: umanistica, evoluzionistica, idolatrica, o altre, e qualsiasi bastione o opposizione al dominio di Dio in Cristo. Il mondo e gli uomini devono essere portati in cattività a Cristo, sotto il dominio del regno di Dio e sotto la legge di quel regno. Terzo, ciò richiede che, come Paolo, processiamo in corte marziale o “amministriamo la giustizia su qualsiasi disobbedienza” in ogni area di vita ove la incontriamo. Negare il mandato culturale è negare Cristo e arrendere il mondo a Satana.

Il mandato culturale non può essere equiparato alla visione di cultura e di progresso dell’uomo naturale. Non si riassume in opere, comodità fisiche, o puerili indulgenze con se stessi. Clemente di Alessandria ci dà alcuni divertenti esempi dei tentativi dei decadenti romani di esibire la loro cultura e la loro ricchezza con dimostrazioni assurde:

È una farsa, e una cosa che fa scoppiare dal ridere, infatti gli uomini fanno portar dentro vasi per l’urina d’argento e vasi da notte di cristallo mentre fanno entrare i loro consiglieri, e perché sciocche ricche donne si fanno fare ricettacoli d’oro per gli escrementi; talché, essendo ricchi, non possono neppure alleggerirsi se non in modo superbo [1].

Nell’Unione Sovietica, e sempre più nel mondo occidentale la cultura è identificata col balletto, un teatro dell’opera, e una galleria d’arte, che potranno pure essere leggermente migliori dei vasi da notte d’oro delle donne romane, ma è comunque falsa.

La cultura è la religione esternalizzata*, ed è lo sviluppo dell’uomo e del suo mondo nei termini della legge della sua religione. Le leggi di Roma non avevano un fondamento ultimo e assoluto; erano relativistiche e pragmatiche; erano il prodotto degli eventi, non leggi date-da-Dio forgiatrici di eventi. Nel parlare di questo ambientalismo* romano, della fede nel Fato, Tatiano, un cristiano d’Assiria della metà del secondo secolo, dichiarò:

Ma noi siamo superiori al fato, e al posto di demoni errabondi, noi abbiamo imparato a conoscere un Signore che non erra; e, poiché non seguiamo la guida del Fato, rigettiamo i suoi legislatori. …
E com’è che Cronos, che fu messo in catene ed espulso dal suo regno, è costituito amministratore del Fato? Come può dare regni se non regna più egli stesso?[2]

Con la sua citazione di Cronos, Tatiano indicò con precisione il dilemma romano: come possono uomini o dèi, che sono essi stessi prodotti e governati dal fato e dall’ambiente governare quell’ambiente? Sono forse qualcosa di più che marionette o azioni di riflesso? La psicologia del Marxismo è derivata da Pavlov; è condizionante; l’uomo è governato da azioni di riflesso ed è socialmente condizionato. La filosofia del Marxismo è materialismo dialettico; uomini ed idee sono prodotti socio-economici. La giurisprudenza sovietica è pertanto in contraddizione con se stessa: insiste, in pratica, sulla colpa individuale mentre afferma, in teoria, il condizionamento totale. Gli uomini sono in pratica ritenuti responsabili, mentre in teoria sono interamente vittime. Un giurista sovietico ha detto:

Solo quando tutti quanti sono pienamente consapevoli di ciò che significhi essere un cittadino sovietico non ci sarà più crimine. …
Non esiste una cosa come la natura umana. L’uomo è il prodotto di ciò che lo circonda, del sistema socio-economico che lo modella. Si cambi lo stampo e si cambia l’uomo. E questo è ciò che stiamo facendo. Voi sapete che la chiesa era abituata a parlare a lungo e a voce alta di peccato originale; fu una buona idea per tenere le masse al loro miserabile posto. Ma noi abbiamo buttato via quell’idea molto tempo fa.
Stiamo facendo qualcosa, stiamo facendo molto, per rimuovere gli arrangiamenti societari artificiali che promuovono il crimine, e qui è dove io credo che il socialismo dimostri i maggiori vantaggi sul capitalismo. … Vedete, l’uomo è essenzialmente buono; solo la proprietà privata e tutto ciò che da essa ha imparato l’hanno corrotto. Noi stiamo ripristinando la sua bontà e allo stesso tempo lo stiamo rendendo infinitamente più ricco in ogni maniera. Non ne vedete la gloria? [3]

La legge umanistica occidentale ha adottato basilarmente gli stessi presupposti di quella sovietica e in alcuni casi l’ha praticata più rigorosamente e sistematicamente. Ma tutta questo è la loro religione rivelata; la cultura dell’uomo moderno è una cultura di resa all’ambiente*, al fato. L’Umanismo*, che sia nelle sue forme liberale o Marxista, non ha mandato culturale ma anzi una resa culturale; è un’aggressiva filosofia della resa.

La dichiarazione della Bible Presbyterian Church non è migliore; anch’essa chiama ad arrendere il mondo al diavolo.

Le implicazioni della resa sono però anarchia e caos sociale. Dove l’uomo è un trasgressore del patto, l’anarchia è un problema importante e perfino terrificante. In quella situazione la prospettiva dell’uomo è la guerra da parte di ogni persona contro tutte le altre. La sua risposta è lo stato.

L’Imperium è una necessità, altrimenti il mondo dell’uomo va in pezzi in a bellum omnium contra omnes. Quello, per così dire, fu il testamento politico degli imperi mondiali orientali fino al tempo di Alessandro, un testamento che fu eseguito in un modo unico e nuovo nell’impero mondiale di Roma. Ovunque andasse l’imperium romanum, lì giungeva anche la pax romana. Fintantoché  l’imperium durò il mondo fu protetto dal caos. Quella era la ragione per cui l’imperium doveva durare finché durava il mondo stesso, e anche la ragione per cui l’impero romano avrebbe dovuto essere un impero eterno 4.

Poiché l’uomo ha nuovamente negato il mandato culturale, cerca protezione dal caos per mezzo dell’impero: l’Impero Sovietico, Le Nazioni Unite, e varie altre alleanze e sforzi. L’aggressione sostituisce fede e legge come difese degli uomini contro l’anarchia.

La risposta di Dio a questa crisi dell’uomo è la sua grazia sovrana: l’incarnazione. Il commento di Stauffer qui è sul punto:

Ci sono due richieste che la storie pre-cristiana del concetto di destino ha da fare alla soteriologia della chiesa. Il mondo intero è così coinvolto col peccato di Adamo che la situazione può essere redenta, semmai, solo da Dio stesso. Poi il destino di questo mondo è così radicalmente vincolato con quello dell’uomo che l’effettiva opera di liberazione* può essere effettuata solo nei termini di una vita umana. Ambedue le richieste hanno compimento nella venuta di Cristo [5].

Ma questo onore del Cristo non è un’usurpazione auto-glorificante, non è un demonico impossessarsi dell’onore di Dio, è invece un servizio alla gloria dei che Dio stesso ha voluto.
Matteo e Luca nelle prefazioni ai loro vangeli cercano un altro modo per esprimere il duplice interesse della cristologia del Nuovo Testamento. Natale è il giorno della nuova creazione, e l’ora della nascita di Cristo è la lungamente attesa ora critica della storia cosmica. Perché? Lo Spirito di Dio menzionato in Genesi 1:1 entra in azione in una nuova Genesi (Mt. 1:18), e un miracolo divino (Lu. 1:37) crea un uomo nuovo che realizza la promessa di Genesi 3:15 e compie le speranze frustrate di Genesi 4:1. Come il primo uomo: Adamo (Lu. 3:38), il nuovo uomo proviene direttamente da Dio. Ma egli non fu solo, come Adamo, semplicemente il recipiente del divino alito di vita. Egli fu concepito di Spirito santo nella Vergine Maria (Lu. 1:35; Mt. 1:18). Così Gesù è insieme e allo stesso tempo tanto figlio di Adamo che di Dio [6].

Lo scopo del nuovo Adamo è di disfare l’opera della caduta, ripristinare l’uomo come osservante del patto, fare dell’uomo nuovamente un fedele cittadino del regno di Dio, e abilitare l’uomo di nuovo a compiere la sua vocazione di sottomettere la terra sotto Dio e di restituire tutte le cose alla legge e al dominio di Dio. Coloro i quali si sottomettono a questa vocazione e dominio ereditano la terra (Mt. 5:5).

La gioiosa novella della nascita di Cristo è questo ripristino dell’uomo alla sua vocazione originale con l’assicurazione della vittoria. Questo è stato per lungo tempo celebrato negli inni di Natale. Nel 1719 Isaac Watts scrisse, in “Joy to the World”

Non crescano più i peccati e i dolore,

Nè infestino il suolo le spine:

Egli viene a far scorrere le sue benedizioni

Ovunque si trovi la maledizione.

Nel 1671 Johannes Olearius, in “Comfort, Comfort Ye My People” scrisse:

Poiché la voce del messaggero sta gridando

Nel deserto vicino e lontano

Chiamando tutti gli uomini a pentimento,

Perché il regno ora è qui.

Oh, quel grido d’avvertimento obbedite!

Preparate ora una via per Dio;

S’alzino le valli per incontralo,

E le colline s’inchinino a salutarlo.

Fate dritto ciò che fu per lungo tempo storto,

Spianate i luoghi scabrosi;

Siano i vostri cuori veraci e umili,

Come s’addice al suo santo regno.

Poiché la gloria del Signore

Ora è sparsa su tutta la terra

E ogni carne vedrà la prova,

Che la sua parola non è rotta mai.

Il mandato culturale e il postmillennialismo sono o espliciti o impliciti negli inni natalizi. Nel 1850, Edmund H, Sears scrisse: “It Came Upon a Midnight Clear” che conclude in questo modo:

Poiché ecco, s’affrettano i giorni

Predetti dai bardi dei profeti

Che gli anni in sempiterno circolo

Giungon vicini all’epoca d’oro;

Che pace su tutta la terra

Scaglierà nel suo antico splendore,

E tutto il mondo ripeterà il cantico

Che adesso cantano gli angeli.

[Per l’ovvio motivo storico per cui l’Italia non ha mai visto una Riforma, nella nostra lingua è più difficile trovare inni con la stessa convinzione. Non manca comunque qualche ‘perla’:

A te l’impero

il Padre diè

su l’orbe intero

per ogni età;

e l’alto tuo potere

noi celebriam, Gesù,

con le potenti schiere,

col popol tuo quaggiù.

Gloria, a te gloria

In cielo e in terra, sia a te la vittoria

O Emmanuel!

Ed. Tagliatela, 1875-1937. GM]

Gli scrittori di inni, mentre riflettevano sulla gloria del Natale e sulle profezie che lo riguardavano, a volte rifletterono una teologia dal contenuto più grande di quel che essi stessi sostenevano.

Nella sua ascensione Gesù sottolineò di nuovo il mandato creazionale, dichiarando:

Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt. 28:18-20, CEI).

Lenski rese “ammaestrate tutte le nazioni” con “discepolate* tutte le nazioni”. Sono citati due domini ove prevale la totale autorità regale di Cristo: cielo e terra. “L’universalità della commissione è resa chiara da … ‘tutte le nazioni della terra’. Qui abbiamo il compimento di tutte le promesse messianiche riguardanti il regno a venire” 7.

Nell’ascensione: “Il Cristo esaltato ascese al suo trono”. Secondo Stauffer:

Leggiamo che l’assoggettamento finale dei nemici di Dio avverrà solo alla fine dei giorni, benché, nel dire questo, si presupponga che l’inizio fondamentale sia già stato fatto (Mc. 14:62; Ap. 3:21; 14:14). Leggiamo ancora che l’assoggettamento ha già avuto luogo, benché qui le celebrazioni per il trionfo siano sospese fino al tempo della fine (Ef. 1:20 s.; Eb. 1:13; 10:12 s.; 12:2). Ma dovunque cada l’enfasi, una cosa è chiara: Il Signore ha da ora in poi ogni autorità in cielo e sulla terra, egli è con la sua chiesa sempre, fino alla fine del mondo (Mt. 28:18 s.) [8] .

Tutte le nazioni devono essere soggiogate mediante il battesimo e l’insegnamento, cioè per rigenerazione e la parola di Dio. In origine, il primo Adamo affrontava da assoggettare un mondo naturalmente buono e non caduto, il secondo o ultimo Adamo affrontò nazioni decadute e ribelli e un mondo caduto*, un deserto da trasformare in fertile e produttivo per Dio. Da sottomettere adesso c’era più che un giardino; le nazioni e gli imperi del mondo dovevano essere portati sotto il dominio di Cristo e dei suoi membri.

Questo mondo decaduto si mobilizza contro Cristo e contro il suo popolo. Nega Cristo e lo maledice, prima nel massacro di Betlemme, più tardi nella crocifissione, e da allora con le sue condanne. Anziché accettare la trasfigurazione di Cristo come rivelazione di Dio e del suo ordine giuridico mediante il suo Figlio unigenito, il mondo cerca di trasfigurare se stesso, talvolta esaltando le persone più miserabili. Ecco che a Roma, la basilica sotterranea di una fratellanza di culto ellenica presentava una lesbica deificata. “Sulla sua abside portava la raffigurazione della trasfigurazione di Saffo”[9].

Ma Cristo rovesciò la maledizione della croce in vittoria, e la condanna del mondo in giudizio contro il mondo.

La chiesa, perseguitata dal dragone espulso ma pure liberata da un peso tremendo, canta i suoi inni a Cristo: “Ora è giunta la salvezza, la potenza e il regno del nostro Dio e la potestà del suo Cristo, poiché è stato gettato giù l’accusatore dei nostri fratelli colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. Ma essi l’hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello!” (Ap. 12:10 s.). Questa è la nuova situazione del mondo a partire dalla data dell’ascensione [10].

Note:

1 Clemente Alessandrino, Il Pedagogo, Libro II, cap. iii.

2 Tatian, “Address to the Greeks”, cap. ix; Ante-Nicene Christian Library, III, 14.

3 George Feifer, Justice in Moscow; New York: Simon and Schuster, 1964, pp. 330-332.

4 Ethelbert Stauffer, New Testament Theology, trad. di John Marsh; New York: Macmillan, 1955, p. 82.

Ibid., p. 116 s.

Ibid., p. 117.

7 R. C. H. Lenski, The Interpretation of St. Mattew’s Gospel; Columbus, Ohio: The Wartburg Press, 1943, pp. 1170, 1172.

8 Stauffer, op. cit., p. 138.

Ibid., p 139.
10 Ibid.

 

8. LA LEGGE IN ATTI E NELLE EPISTOLE

Poche cose illustrano cos’è accaduto nei circoli teologici meglio di un esame del Biblical and Theological Dictionary di Richard Watson. Watson (1783-1833) fu un teologo Wesleyano; il suo dizionario fu pubblicato nel 1832. Per Watson la legge non era soppiantata; anzi, l’era cristiana richiedeva che fosse applicata più intensamente e ampiamente. Watson dimostrò che il Nuovo Testamento non solo riaffermò l’intero Decalogo, ma che ne estese la forza.

In questo modo, dunque, abbiamo un obbligo verso l’intero Decalogo in quanto pienamente stabilito nel Nuovo Testamento come nel Vecchio, come se fosse stato formalmente ri-promulgato; e che non abbia avuto luogo nessuna ri-promulgazione formale è da assumere come prova che non fu mai considerato temporaneo dal legislatore, cosa che si sarebbe potuta supporre se fosse stato ri-promulgato formalmente. È importante rimarcare, però, che, benché le leggi morali della dispensazione mosaica passino nel codice cristiano, lì ci stanno in circostanze diverse e più elevate; talché il Nuovo Testamento è una dispensazione più perfetta della conoscenza della volontà morale di Dio di quella che si ebbe nel Vecchio. In particolare: (1) esse [le leggi] sono estese al cuore in modo più diretto, come fece nostro Signore nel suo Sermone sul Monte il quale c’insegna che il pensiero e il proposito interiore di qualsiasi offesa è una violazione della legge che ne proibisce la commissione esterna e visibile. (2) I principi su cui sono fondate vengono eseguiti nel Nuovo Testamento in una grande varietà di doveri, i quali, abbracciando le relazioni sociali e civili della vita più perfettamente, sono di carattere più universale. (3) C’è un’ingiunzione molto più allargata di virtù positive e particolari, specialmente di quelle che costituiscono il temperamento cristiano. (4) Col fatto che tutte le azioni manifeste che sono inseparabilmente connesse coi corrispondenti principi del cuore per poter costituire un’obbedienza accettevole; principi che suppongono la rigenerazione dell’anima da parte dello Spirito santo, questa rigenerazione morale è pertanto mantenuta come necessaria alla nostra salvezza, e promessa come parte della grazia della nostra redenzione in Cristo. (5) Con l’essere connesse con le promesse di assistenza divina, la quale è peculiare ad una legge collegata con provvedimenti evangelici. (6) con l’avere un’illustrazione vivente nel pratico e perfetto esempio di Cristo. (7) Con le maggiori sanzioni derivate dalla più chiara rivelazione di uno stato futuro, e minacce di punizione eterna. Da ciò consegue, che abbiamo nel Vangelo la più completa e perfetta rivelazione di legge morale mai data agli uomini; e una più esatta manifestazione della lucentezza, perfezione e gloria di quella legge, sotto la quale gli angeli e i nostri progenitori furono posti nel giardino, e che l’obbedirla è insieme il diletto e l’interesse degli esseri più perfetti e felici  [1].

Si contrasti questa dichiarazione di Watson, uno degli uomini più grandi nella storia Wesleyana, con l’opera di uno studioso evangelico britannico moderno: F. F. Bruce. Le “Payton Lectures” di Bruce nel 1968 al Fuller Theological Seminary, Pasadena; California, discussero Lo Sviluppo Neotestamentario di Temi dell’Antico Testamento. (The New Testament Development of Old Testament Themes). L’opera antinomiana di Bruce ignora la legge interamente; “Il Governo di Dio” è discusso nel capitolo II senza alcun riferimento alla legge di Dio [2].  Il capitolo IV tratta “La Vittoria di Dio” e comincia con una dichiarazione importante:

La salvezza di Dio è la vittoria di Dio: come nell’Esodo, così nell’atto redentivo di Cristo la vittoria di Dio sta nella salvezza del suo popolo. Le parole ebraiche per “salvezza” sono volentieri tradotte con “vittoria” nelle nostre comuni versioni in inglese quando il contesto lo rende preferibile [3].

Esattamente. Ma poiché Bruce aggira la legge, un aspetto centrale del piano e programma di Dio per la vittoria, egli può cercare la vittoria solo nella morte o nel martirio e nella fine del mondo. “Il supremo conquistatore è il Messia Davidico, … che compare, però, come l’agnello sacrificale riportato in vita dopo che ebbe vinto la sua vittoria sottomettendosi alla morte; i suoi seguaci condividono la sua vittoria mediante una simile sottomissione” 4. Questo è un programma per la sconfitta.

Uno dei testi centrali usati dagli antinomiani è Atti 15:5: “Ma alcuni della setta dei farisei che avevano creduto si alzarono, dicendo: «Bisogna circoncidere i gentili e comandar loro di osservare la legge di Mosé”. Come si deve comprendere? Non c’è assolutamente nessuna prova che i Dieci Comandamenti abbiano cessato d’essere legge dopo l Concilio di Gerusalemme; le epistole riaffermano la legge; infatti, san Paolo, in Efesini 6:2 non solo riafferma il quinto comandamento, ma ci ricorda delle sue promesse, tutte ancora valide. Le leggi di Dio contro il peccato non furono mai abrogate da questo concilio.

La questione era la giustificazione; il giudaismo aveva abusato la legge. Primo, l’aveva rimpiazzata con le tradizioni degli uomini, che tramutò in legge e, secondo, la legge, che è il mezzo alla santificazione, fu tramutata nel mezzo di giustificazione. Questo era il problema tanto col fariseismo che coi giudaizzanti. Ad Antiochia Paolo dichiarò di Gesù Cristo:

Vi sia dunque noto, fratelli, che per mezzo di lui vi è annunziato il perdono dei peccati, e che, mediante lui, chiunque crede è giustificato di tutte le cose, di cui non avete potuto essere giustificati mediante la legge di Mosè (At. 13:38-39).

La questione era questa, la giustificazione per legge. Inoltre, i farisei chiamavano le loro interpretazioni rabbiniche “la legge di Mosè”, benché Cristo le abbia chiamate “le tradizioni degli uomini”. Plumptre giustamente definì la dichiarazione di Paolo ad Antiochia sulla giustificazione: “Il germe di tutto ciò che fu più caratteristico nell’insegnamento successivo di Paolo” [5].  Paolo non attaccò mai la legge come mezzo di santificazione, ma solo come mezzo di giustificazione. La questione nel Concilio era la conversione di alcuni Gentili; fino a quel tempo, tutti i convertiti erano giudei, già collocati nel vecchio patto e legge. Ora venivano aggiunti dei membri per conversione. Quella che leggiamo in Atti 15:5 era la protesta e l’espressione dei farisei che dissero: “Bisogna circoncidere i gentili e comandar loro di osservare la legge di Mosè”. Per legge era dunque intesa la legge come vista dalla tradizione rabbinica. Fu questo il “giogo” contro il quale Pietro protestò (At. 15:10). Egli non avrebbe osato chiamare obbedienza alla legge di Dio il tentare Dio. La questione, affermò san Pietro, è che gli uomini sono salvati “dalla grazia del Signore Gesù Cristo” (At. 15:11); la questione era la dottrina della giustificazione. In questione c’erano anche le leggi cerimoniali e le leggi di separazione. I giudei convertiti non avevano bisogno d’istruzioni; osservavano già tutto il necessario, ovvero le leggi bibliche (At. 15:21). Secondo Plumptre, sul verso 21:

I giudei, che avevano udito la legge nelle loro sinagoghe ogni Sabato, non avevano bisogno d’istruzione. Si può dare per scontato che avrebbero aderito alle regole ora specificate. Pertanto, nel verso 23, l’enciclica è indirizzata esclusivamente ai “fratelli fra i gentili” [6].

Chiaramente il verso 21 enfatizza il carattere ancora vincolante della legge e non disturba i convertiti giudei che obbedivano la legge. L’uso della parola “sinagoghe” può riferirsi alle sinagoghe giudaiche, ancora frequentate da molti, o a incontri cristiani.

L’istruzione ai gentili cristiani è riassunta al verso 20: “ma che si scriva loro di astenersi dalle contaminazioni degli idoli, dalla fornicazione, dalle cose soffocate e dal sangue”. Significa forse che i Gentili erano liberi d’avere altri dèi, di bestemmiare, di disonorare i genitori, uccidere, rubare, fare falsa testimonianza o concupire? Ovviamente no, e proprio altrettanto ovviamente la questione non fu se la legge dovesse essere mantenuta, ma come dovesse essere mantenuta: come mezzo di giustificazione o di santificazione? Molto chiaramente, la legge fu rigettata come mezzo di giustificazione e tenuta come mezzo di santificazione. Le istruzioni di Atti 15:20 e 29 chiaramente presuppongono la legge ed enfatizzano in che misura fu mantenutaPrimo, ai credenti gentili fu comandato di astenersi “dalla contaminazione degli idoli”. Al verso 29 questo è definito come mangiare “carni sacrificate agli idoli”, Nelle città esisteva un problema serio in quanto le carni venivano sacrificate agli idoli e il loro consumo rappresentava un rito religioso. “Giuseppe Flavio dice che alcuni dei Giudei a Roma vivevano esclusivamente di frutta per il timore di mangiare qualcosa di contaminato” [7].  Più tardi, in Romani 14, san Paolo rivide questa regola; Calvino parlò del verdetto di Paolo come di un rimodellamento della legge [8].  Questo cambiamento significa forse che non era in vigore nessuna legge? Al contrario, tanto il Concilio che san Paolo sostennero che in gioco c’era una legge di Dio; la questione era come mantenere l’obbedienza a quella legge. La contaminazione degli idoli, nei termini della legge della separazione, doveva essere evitata come questione di legge. Se un uomo poteva considerare gli idoli come un nulla, e la carne semplicemente come cibo, la sua coscienza non ne sarebbe stata turbata, né l’uso della carne lo avrebbe compromesso; costui sarebbe stato “il forte” incontaminato nel suo uso della carne. I deboli, però, avevano ragione nell’evitare la carne perché per loro non esisteva la possibilità di questa separazione interiore.

Secondo, dovevano astenersi dalla fornicazione, ovvero da peccati sessuali in genere e dalla lascivia. Per molti pagani, queste azioni non erano peccati ed erano infatti talvolta azioni religiose. A causa della propensione dei pagani verso i peccati sessuali, specialmente in quell’epoca, fu posto particolare peso su queste offese. Furto e omicidio furono condannati dai pagani ma la moralità del tempo vedeva le trasgressioni sessuali con casualità sempre maggiore.

Terzo, “le cose strangolate” dovevano essere evitate come cibo e, quarto, doveva esserlo anche il sangue. Queste due sono in stretto collegamento perché agli animali strangolati non viene scolato il sangue. Per alcuni popoli tali carni sono preferite. La legge, però, proibiva specificamente di mangiare il sangue (Ge. 9:4; Le. 3:17; 17:14; De. 12:16, 23). Questa legge non è mai stata emendata in nessun tempo nelle epistole. Così, dei quattro comandamenti ai Gentili da parte del Concilio, tre riguardavano il cibo. Anziché dichiarare che la legge era terminata, il Concilio di Gerusalemme dunque chiaramente stabilì o sostenne la legge come via di santificazione e mantenne perfino gli aspetti della legge che riguardavano la dieta.

C’è però un cambiamento significativo. In Atti 15:5, la richiesta dei farisei nella chiesa riguardò anche la circoncisione. Questa richiesta, fu risposto ai Gentili nell’enciclica, “è venuta da persone cui non abbiamo dato alcun mandato e vi ha turbato con parole sconvolgendo le anime vostre, dicendo che bisogna che siate circoncisi e osserviate la legge” (At. 15:24). La circoncisione fu dunque fatta decadere, e fu mantenuto il battesimo di Pietro ai Gentili come segno del patto rinnovato; L’osservanza della legge nel senso farisaico di essere giustificati mediante la legge (At. 13:39) fu rigettata. Bruce pertanto si sbaglia nell’assumere che la questione in gioco fosse “l’obbligo d’osservare la legge mosaica” [9].  Lenski sostiene che “tutte queste regole levitiche (riguardanti il cibo) siano state abrogate”. Egli spiega la decisione del Concilio come pragmatica:

Giacomo menziona questi due punti perché i Giudei cristiani ne erano particolarmente sensibili. Anch’essi sapevano che questi punti della legge erano stati abrogati ma si sentivano comunque ancora inorriditi all’idea di mangiare sangue o qualsiasi carne in cui ne fosse stato ritenuto. Ai gentili cristiani fu richiesto di rispettare questo sentimento e pertanto per ragioni d’amore fraterno, e per queste solamente, di astenersi dal mangiare sangue e carne che avesse ancora il suo sangue [10].

Ma il punto in questione non era il sentimento dei Giudei cristiani in quanto tale; nessuna considerazione del genere entra nel testo. Nel dichiarare che la questione fosse una di “ragioni d’amore fraterno, e per queste solamente, di astenersi dal mangiare sangue …” Lenski stava leggendo dentro al testo ciò che non vi era. La questione fu apertamente sollevata dai farisei nella chiesa con un falso concetto della legge e della giustificazione.

In Colossesi 2:16 san Paolo dice che non dobbiamo farci giudicare riguardo a carni (il mangiare carni offerte agli idoli), o ai sabati. Non c’è evidenza che i sabati siano stati aboliti con questa dichiarazione. Se l’incidente che san Paolo descrive in Galati 2:11-21 è lo stesso di quello di Atti 13:39, o ad esso correlato, e pertanto precedente il Concilio, chiaramente la questione in gioco fu che san Pietro, timoroso della critica dei farisei nella chiesa, si conformò ala loro pratica. Il principio di san Paolo fu che non si potesse ergere coi cibi una barriera artificiale nell’approccio ai gentili per convertirli.

Andando ora a Romani, troviamo che san Paolo, lungi dallo scartare la legge e le sue sanzioni, fa appello alla pena di morte contro omosessuali come un fatto stabilito e permanente (Ro. 1.32). Dell’espressione “il decreto di Dio”, Murray commenta: “‘Il decreto di Dio’ in questo caso è l’ordinanza giudiziale di Dio che richiede espressamente la morte, qui più che la sola morte temporale, mentre la include” [11].

In Romani 6:14, comunque, san Paolo dichiara: “Poiché voi non siete sotto la legge, ma sotto la grazia”. Di nuovo, Murray è sul punto:

“Legge” in questo caso deve essere compresa nel senso generale della legge come legge. Che non abbia da essere compresa nel senso della legge mosaica come un’economia appare molto evidentemente dal fatto che molti che erano sotto l’economia mosaica erano ricettori della grazia e in quell’aspetto erano sotto la grazia, e anche dal fatto che l’esonero dalla legge mosaica come un’economia da solo non pone persone nella categoria di essere sotto la grazia. “Legge” deve pertanto essere compreso nei termini molto più generali di legge come comandamento [12].

Anche il commento di Charles Hodge è molto significativo su questo punto. Scrivendo su questo stesso verso, Hodge disse in parte:

Per legge qui, non si deve intendere la legge mosaica. Il senso non è: “il peccato non avrà più alcun potere su di voi perché la legge mosaica è stata abrogata”. La parola non deve essere presa nel suo senso più ampio. È la regola del dovere, quella che vincola la coscienza in quanto espressione della volontà di Dio. Ciò è evidente: 1. Dall’uso della parola attraverso tutta questa epistola e di altre parti del Nuovo Testamento. 2. Dall’insieme della dottrina della redenzione, la quale c’insegna che la legge da cui siamo liberati dalla morte di Cristo, non è semplicemente la legge mosaica; noi non siamo meramente liberati dal giudaismo, ma dall’obbligo di adempiere la legge di Dio come condizione di salvezza [13].

La legge in questo senso generale è un mezzo di salvezza; è la credenza dell’uomo che, osservando la legge generale di Dio come la conosce, l’uomo salverà se stesso e meriterà il cielo. Libertà dalla legge come un mezzo di salvezza non dà all’uomo il diritto di peccare (Ro. 6:15-16); l’uomo ha un dovere d’obbedire Dio come adesso “un servo della giustizia” piuttosto che come “un servo del peccato” (Ro. 6:17-23).

Secondo Murray: “Romani 7:1-6 deve essere collegato con quello che l’apostolo aveva detto in 6:14: ‘Voi non siete sotto la legge ma sotto la grazia’” [14].  In Romani 7:4 Paolo parla di essere diventati morti mediante il corpo di Cristo; come notava il Murray: “Quella morte è la nostra morte alla legge nella morte di Cristo” [15].  Paolo usa l’illustrazione del matrimonio; come una donna “è per legge legata al marito finché egli vive; ma se il marito muore, ella è sciolta dalla legge del marito” (vs. 2), così anche noi mediante la morte di Cristo al posto nostro siamo morti alla legge. Il punto in questa illustrazione non è che la legge è morta, ma che noi in Cristo siamo morti, ovvero la sentenza di morte della legge contro di noi è adempiuta. Come notò Hodge: “Non è la legge a morire” [16].  Per tornare all’illustrazione, se un uomo muore, non è l’istituto del matrimonio che muore ma un uomo particolare che è morto al matrimonio.

Qual’è dunque il significato dell’illustrazione e della frase? Nel verso 5 ci è detto schiettamente che, mentre eravamo peccatori, l’effetto della legge nella nostra vita era di accrescere la nostra ribellione contro Dio; la legge di Dio ci rendeva tutti più zelanti nell’affermare la nostra propria volontà in ribellione. Il risultato era “frutto per la morte”. La legge era per noi una sentenza di morte: dichiarava che per la nostra apostasia, per la nostra trasgressione del patto con Dio, noi meritavamo di morire. Essendo la sentenza di morte stata compiuta contro di noi nel Signore Gesù, siamo adesso giudizialmente morti davanti alla legge. Perciò, quelli che sono veramente salvati non possono mai più essere condannati a morte dalla legge. Però, essendo stati resuscitati dai morti, cioè dalla morte del peccato, per l’opera di Cristo, ora siamo sposati ad un altro, che è resuscitato dai morti, affinché portiamo frutto a Dio (vs. 4). Il peccatore, essendosi fatto Dio ai propri occhi (Ge. 3:5), è un guerra con Dio; la legge di Dio lo incita solamente a ulteriore guerra. La legge così ci portava sempre più in servitù al peccato. Per rigenerazione, però, la nostra unione non è più col peccato ma con Cristo. Essendo viventi in Cristo, siamo ora vivi alla legge, non come sentenza di morte contro di noi, ma come quella cosa che rappresenta la nostra nuova vita, la “novità di spirito” (vs. 6), la nostra vita in Cristo nella quale la legge è ora il nostro felice modo di vivere. La legge non muore; il vecchio uomo, l’uomo non rigenerato muore: l’uomo nuovo, rigenerato, ha ora una nuova relazione con la legge, non più negli “atti del peccato” ma in “novità di spirito”. Laddove per il peccatore la violazione della legge di Dio è l’istinto e la natura del suo essere, per l’uomo rigenerato l’obbedienza alla legge di Cristo è il diletto del suo essere.

Paolo sottolinea che “la legge è spirituale” (7:14); “La legge è santa, e il comandamento santo, giusto e buono” (vs. 12); la legge, inoltre, “è in funzione della vita” (vs.10); nel suo peccato, perché in principio in quel momento stava trasgredendo la legge perché è buona, conferma “che la legge è buona” (vs.16). Come uomo redento, che sta operando la propria salvezza, crescendo in santificazione, può dichiarare: “Infatti io mi diletto nella legge di Dio secondo l’uomo interiore” (vs. 22). “La legge del peccato” la sua natura decaduta, in Cristo giudizialmente morta ma non eradicata dal suo essere, guerreggia contro la sua nuova natura talché un aspetto del suo essere, l’uomo nuovo, serve “la legge di Dio”, un altro aspetto “la legge del peccato” (vss. 23-25). Chiaramente, la legge è lo standard per l’uomo nuovo. Infatti, l’obbiettivo della santificazione è “che la giustizia della legge si adempia in noi” (8:4). Il commento di Murray qui è ancora una volta degno di nota:

È tanto più significativo in questo contesto perché egli [Paolo] aveva rappresentato la liberazione dal potere del peccato in 6:14 come procedere dal fatto che non siamo “sotto la legge”, ma “sotto la grazia”. Nel capitolo 7 era ritornato a quel tema e dimostrato che non siamo “sotto la legge” perché siamo “morti alla legge mediante il corpo di Cristo” e siamo “sciolti dalla legge” (7:4, 6). Egli aveva anche dimostrato che la legge è motivo di morte perché il peccato colse occasione dalla legge per operare ogni sorta di concupiscenza (7:8-13). E, infine, in questo capitolo aveva appena parlato dell’impotenza della legge (8:3). Come può dunque concepire la santità della condizione cristiana come il compimento del requisito della legge? Il fatto, ad ogni modo, non può essere messo in discussione, ed è prova determinante che la legge di Dio ha la più piena applicazione normativa in quella condizione che è il prodotto della grazia. Interpretare diversamente le relazioni tra legge e grazia è andare contro l’evidente significato di questo testo. Eravamo stati preparati a questo, comunque, in precedenti notifiche di questo stesso effetto (cfr. 3:31; 6:15; 7:12, 14, 16, 22, 25). E nel successivo sviluppo del soggetto c’è abbondante corroborazione (cfr. 13:8-10).

Il termine “si adempia” esprime il carattere plenario del compimento che la legge riceve e indica che l’obbiettivo contemplato nel procedimento di santificazione è niente di meno che la perfezione che la legge di Dio richiede [17].

Brevemente, per riepilogare la questione, non è la legge che è morta, ma noi che moriamo in Cristo e che siamo perciò morti alla legge intesa come accusa e condanna di morte. In quanto rigenerati, nella parole del Murray: “La legge di Dio ha la più piena applicabilità normativa in quella condizione che è il prodotto della grazia. Interpretare diversamente la relazione tra legge e grazia è andare contro l’evidente significato di questo testo”.

Galati 2:19 deve essere letto nello stesso senso: “perché per mezzo della legge io sono morto alla legge, affinché io viva a Dio”. Anche qui, la legge non è morta ma lo è il peccatore. In Galati 2:21 il contrasto è tra la giustificazione per legge e la giustificazione per grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo; nell’uso della legge come strumento di giustificazione, non si può ottenere nessuna giustizia. In Galati 5:16-18, il contrasto è tra la via “della carne” la natura umana decaduta e senza aiuto, e la via “dello Spirito” l’uomo nuovo redento e aiutato. In questo contesto la legge è associata con “la carne” in modo tale che il riferimento è ancora una volta al cattivo uso della legge come via di giustificazione. In Efesini 2:15 il riferimento alla legge è molto chiaramente alla legge come condanna a morte per il non-credente.

San Paolo dunque non è di sostegno a quelli che dichiarano che la legge è morta, né per quelli che sostengono che l’uomo redento sia morto alla legge. Non solo san Paolo conferma la legge, ma lettera dopo lettera fa appello alla legge nel dirimere conflitti ecclesiali, nel dare istruzioni, e nel dare consiglio concernente la santificazione.

Murray ha ragione: “La legge di Dio ha la più piena applicabilità normativa in quella condizione che è il prodotto della grazia”.

 

Note:

1 Richard Watson, “Law” in A Biblical and Theological Commentary, p. 576 s. (New York: Mason and Lane, 1832, 1840).

2 F. F. Bruce, The New Testament Development of Old Testament Themes; Grand Rapids: Eerdmans, 1968, pp. 22-31.

Ibid., p. 40.

Ibid., p. 50.

5 E. H. Plumptre, “Acts” in Ellicott, VII, 86.

Ibid., VII, 98.

7 Charles Hodge, Commentary on the Epistle to the Romans; New York: Armstrong, 1882, 1893, p. 656.

8 John Calvin, Commentary Upon the Acts of the Apostles; Grand rapids: Eerdmans, 1949, II, 79.

9 F. F. Bruce, Commentary on the Book of Acts; Grand Rapids: Eerdmans, 1954, p. 301.

10 R. C. H. Lenski, The Intrepretation of the Book of Acts of the Apostles; Columbus, Ohio: The Wartburg Press, 1944, p. 616.

11 John Murray, The Epistles to the Roman; Gran Rapids: Eerdmans, 1959, I, 51.

12 Ibid., I, 228 s.
13 Hodge, Romans, p. 322.
14 Murray, op. cit., p. 239.

15 Ibid., p. 242.
16 Hodge, op. cit., p. 337.

17 Murray, op. cit., p. 283.