Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (Matteo 28:19)

Domenica 15 giugno 2025 – Domenica della Trinità

[Culto completo con predicazione, 54′ 32″]

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Appello ad un’istanza superiore 

Immaginiamo una scena familiare del contesto italiano: in un tribunale, al termine del processo, il giudice pronuncia la sentenza “in nome del popolo italiano” [1]. Questa espressione non è solo una formula legale: essa implica che l’autorità e la responsabilità della decisione sono radicate in un’entità più grande del singolo giudice. Egli agisce non a titolo personale, ma come rappresentante di un’autorità superiore e condivisa: il popolo italiano. Questo concetto affonda le sue radici nel costituzionalismo moderno, influenzato dalla Rivoluzione Francese (1789), che sanciva la sovranità popolare come base del potere statale. Affermare “in nome del popolo italiano” è certamente una grande responsabilità, talora non debitamente onorata, così come spesso è solo formale l’appello politico alla democrazia mentre, in realtà, dominano interessi privati del potere di oligarchie economiche e politiche.

Se agire nel nome del popolo italiano è già cosa seria e solenne, ancora di più lo è la formula cristiana: “Nel nome di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo” [2]. La formula “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” ha origine nel Vangelo di Matteo (28:19) ed è stata adottata dalla Chiesa primitiva come parte integrante del battesimo e della liturgia. La sua formalizzazione è stata rafforzata dai concili ecumenici e dalla riflessione teologica sulla natura trinitaria dell’Essere e dell’attività di Dio. La sua centralità nella tradizione cristiana ne fa una delle espressioni più antiche e durature della fede cristiana. Oggi rifletteremo su questa formula battesimale. Lungi dall’essere una formalità, essa è carica di significato. Impartire il battesimo, infatti, nel nome di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, vuol dire fare appello a tutta l’espressione trinitaria dell’Essere di Dio ed è per questo che davvero bisogna amministrarlo “con timore e tremore”!

Non una formalità  

Quando, infatti, il Signore Gesù affida ai Suoi discepoli la suprema missione: “Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Matteo 28:19) egli non usa una formula vuota. Essa non è una formalità, e men che meno una sorta di formula magica. Egli invia i Suoi nel nome di Dio stesso, nella pienezza della Sua identità trinitaria ad accompagnare la proclamazione dell’Evangelo al segno del battesimo, indicando con esso l’opera sovrana di Dio per la salvezza della creatura umana dal peccato. Il battesimo cristiano non è un’espressione ornamentale, né ha a che fare con le molte interpretazioni di quell’atto che generalmente la gente gli attribuisce. Questa formula illustra graficamente ed applica il solenne mandato di collegare, sottoporre, consacrare il battezzando con nulla di meno di ciò che Dio ha compiuto e compie in Cristo per la sua eterna salvezza.

Come nota Giovanni Calvino nel suo Commentario su Matteo 28:19, “Cristo comanda che coloro che si sono sottomessi all’Evangelo e hanno professato di essere suoi discepoli siano battezzati; in parte affinché il loro battesimo sia pegno di vita eterna davanti a Dio, e in parte affinché sia un segno esteriore di fede davanti agli uomini. Sappiamo infatti che Dio ci attesta la grazia dell’adozione con questo segno, perché ci innesta nel corpo del suo Figlio, così da annoverarci tra il suo gregge; e, pertanto, non solo il nostro lavacro spirituale, mediante il quale ci riconcilia con sé, ma anche la nostra nuova giustizia, sono rappresentati da esso. Ma come Dio, con questo sigillo, ci conferma la sua grazia, così tutti coloro che si presentano per il battesimo ratificano, per così dire, con la propria firma, la loro fede. […]. Inoltre, poiché la dottrina è posta al primo posto nell’ordine, ciò ci indica la vera distinzione tra questo mistero e i riti bastardi dei Gentili, mediante i quali vengono iniziati ai loro sacri misteri; poiché l’elemento terreno non diventa sacramento finché Dio non lo vivifica con la sua parola. Poiché la superstizione contraffà impropriamente tutte le opere di Dio, gli uomini stolti falsificano vari sacramenti a loro piacimento; ma poiché la parola, che è l’anima, non è in essi, essi sono ombre vane e prive di significato. Sosteniamo quindi che la potenza della dottrina fa sì che i segni assumano una nuova natura; come l’attività esteriore della carne comincia a essere il pegno spirituale della rigenerazione, quando è preceduta dalla dottrina dell’Evangelo; e questa è la vera consacrazione, al posto della quale il Papato ci ha introdotto gli incantesimi della stregoneria” [3].

Il battesimo cristiano così certifica “l’innesto” del battezzato in una grandiosa opera salvifica, quella di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.

“Nel nome di” – Significato biblico e teologico   

Che cosa significa nella Bibbia agire “nel nome di” qualcuno? Significa agire con la Sua autorità, sotto la Sua protezione, in rappresentanza della Sua persona. Fare qualcosa “nel nome di” implica sempre una delega d’autorità, una chiara appartenenza e una nuova identità. Non è un’etichetta esterna, ma un cambiamento profondo. Significa appartenere a Lui, essere identificati con Lui, ricevere da Lui mandato e legittimità. Non apprezzeremmo mai completamente la grandezza, serietà e responsabilità di tale mandato, troppo spesso assunto con leggerezza. Chi tratta questo come se fosse una formalità, non si rende conto delle implicazioni di quel solenne atto.

In Atti 3:6, Pietro guarisce uno zoppo dicendo: “Nel nome di Gesù Cristo, alzati e cammina!”. Quel nome è potenza operante.

In Giovanni 1:12 si afferma che a quanti hanno creduto “nel suo nome” è stato dato il diritto di diventare figli di Dio. Un privilegio non comune!

Il battesimo, fatto nel nome del Dio trino, non è solo un rito d’ingresso nella comunità di fede, ma il segno visibile di una nuova realtà spirituale: siamo immersi nella comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito. Dio si compiace di operare nell’ambito della comunità dei Suoi discepoli.

Questo significa che ogni azione della Chiesa e di ogni credente è fatta non per interesse privato, ma come rappresentanza pubblica del Dio vivente. Nel contesto del battesimo cristiano, essere battezzati “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” significa entrare nella realtà del Dio vivente ed operante, in comunione con ciascuna delle tre Persone, ricevendo da esse vita, perdono, adozione e guida.

Il riformatore italiano Girolamo Zanchi (1516–1590), teologo italiano del secondo Rinascimento riformato, molto attento alla dottrina della Trinità, univa la profondità dell’erudizione scolastica con l’immediatezza pastorale. Nel suo trattato trinitario, afferma: “Noi non adoriamo tre dei, ma un solo Dio in tre Persone, le quali tutte operano la nostra salvezza: il Padre che ci elegge, il Figlio che ci redime, lo Spirito che ci rigenera. È dunque nella loro unità che siamo salvati, e nella loro distinzione che conosciamo l’amore”.

L’affermazione trinitaria è quindi di grande rilevanza. Facciamo appello a Dio che non solo ci dà la vita e la sostiene, ma che ci impartisce nella Persona ed opera di Gesù la grazia della salvezza dalle fatali conseguenze del peccato, finalizzando ad essa tutto il Suo impegno, un impegno dell’intero Suo essere.

Padre, Figlio e Spirito Santo – Un solo Dio, tre Persone   

La formula trinitaria ci conduce così dentro il mistero dell’unico Dio che si è rivelato in tre Persone distinte, ma inseparabili nell’Essere e nell’opera:

Il Padre è fonte della vita e di ogni bene, principio della creazione, autore della elezione e provvidenza. Il Padre: sorgente dell’essere e dell’amore. Il Padre è l’origine di tutto. Egli ha mandato il Figlio per amore del mondo (Giovanni 3:16) e ci adotta come figli e figlie (Romani 8:15). Vivere “nel nome del Padre” significa perciò: (1) riconoscere Dio come fonte della vita e della vocazione; (2) vivere da figli e figlie, non da orfani spirituali; (3) assumere un’identità filiale, radicata nell’amore.

Il Figlio, Gesù Cristo, è il mediatore della grazia, colui che rivela il volto del Padre, che ci redime attraverso il sacrificio che Egli ha compiuto sulla croce e la Sua risurrezione. Il Figlio è Dio fattosi uomo, l’Agnello che toglie il peccato del mondo. In Lui vediamo il volto di Dio e l’esempio perfetto di umanità. Gesù disse: “‘Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre; come mai dici tu: ‘Mostraci il Padre?’” (Giovanni 14:9). Vivere “nel nome del Figlio” significa: (1) accogliere la salvezza come dono immeritato; (2) seguire Gesù nel discepolato quotidiano; (3) annunciare con la vita e le parole il Vangelo del Regno.

Lo Spirito Santo è il dono del Padre e del Figlio, presenza viva che rigenera, guida e santifica. È presenza e potenza. Lo Spirito è il dono promesso, la presenza di Dio che abita nei cuori dei credenti e nella comunità. Vivere “nel nome dello Spirito” significa: (1) lasciarsi guidare, trasformare e santificare; (2) essere strumenti di consolazione, profezia e comunione; (3) vivere la vita cristiana come missione continua.

Gesù non dice “nei nomi”, ma “nel nome” (singolare): segno di unità e co-eternità delle tre Persone.  Calvino, nelle Istituzioni (I.xiii.17), afferma:  “Non è una sottile disputa quella che sosteniamo circa il Figlio e lo Spirito; anzi, finché non riconosciamo distintamente Dio Padre, il suo unico Figlio e lo Spirito, restano solo parole vuote quando si parla di Dio”. E aggiunge altrove (Commento a 2 Corinzi 13:13): “In questa breve formula è contenuta la somma della nostra salvezza: la grazia è del Figlio, l’amore è del Padre, la comunione è dello Spirito. Questo è il Dio che ci salva.”

Come pure ricordava il teologo riformato Herman Bavinck: “La dottrina della Trinità è la somma della rivelazione cristiana: non può essere derivata dalla ragione, ma è la conclusione necessaria della rivelazione di Dio nella storia della salvezza”. Il Dio che è Trinità è il Dio che ci ama, ci salva, ci trasforma. Non un’astrazione teologica, ma la realtà viva che fonda ogni nostra speranza.

Le implicazioni pratiche: identità, missione, comunione   

Essere battezzati nel nome di Dio in quanto Trinità implica un’identità nuova, un’appartenenza totale, una comunione trasformante e una missione condivisa. Ogni nostra azione, se fatta “nel nome di Dio”, deve riflettere il carattere del Dio trino: giustizia, amore, verità e pace.

Identità: Non ci apparteniamo più, ma siamo del Signore. La nostra vita è radicata nel Dio trinitario. Viviamo come figli e figlie adottivi del Padre, come fratelli e sorelle in Cristo, come tempio dello Spirito. Formare discepoli nel nome del Dio trino significa educare alla relazione con ciascuna Persona divina, non solo trasmettere contenuti dottrinali.

Missione: La chiesa non evangelizza per sé stessa, ma come rappresentante di Dio. Ogni atto missionario è fatto nel nome della Trinità: con la sua autorità, il suo messaggio, la sua presenza. La comunità cristiana è inviata, non da sé stessa, ma dal Dio Trinità. Annunciare il Vangelo significa estendere nel mondo la comunione che già vive tra Padre, Figlio e Spirito.

Comunione: La comunione con Dio non è un’idea, ma una relazione concreta con ciascuna Persona divina. John Owen, teologo calvinista, scrisse: “La comunione con Dio si esercita in modo differente con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ogni Persona ci comunica grazia, e noi rispondiamo in adorazione distinta”. La Trinità è il modello della comunità cristiana: unità nella diversità, comunione senza fusione, distinzione senza divisione.

Conclusione 

Abbiamo così contemplato oggi il mistero glorioso e vitale della Trinità. Non un’astrazione teologica, non un enigma da studiosi, ma il cuore stesso del Dio che si è rivelato in Gesù Cristo e che opera ogni giorno in mezzo a noi.

Siamo stati chiamati a essere e fare discepoli, battezzare, vivere e servire non nel nostro nome, non per conto nostro, ma nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Questo significa che ogni nostra azione come comunità cristiane – il nostro insegnamento, il nostro culto, la nostra testimonianza, la nostra comunione – deve riflettere l’identità di questo Dio trino: un Dio che è comunione, amore, dono. Il Padre ci chiama e ci accoglie come figli-Il Figlio ci redime e ci guida come discepoli. Lo Spirito Santo ci rinnova e ci rende capaci di vivere e testimoniare. Come dice l’Apostolo: “In Lui viviamo, ci muoviamo e siamo (Atti 17:28).

Chi è battezzato in questo nome non può più appartenere a sé stesso. Non può servire se non con gioia, e non può vivere senza rendere gloria a Dio in tutto ciò che fa. La Trinità è il fondamento della nostra fede, la forma della nostra vita e la forza della nostra missione. E allora, adoriamo questo Dio che è Uno e Trino. Non accontentiamoci di formule, ma invochiamo con fiducia il Padre, seguiamo il Figlio con fedeltà, camminiamo secondo lo Spirito con umiltà e potenza. Che le nostre comunità cristiane siano veramente, in ogni loro atto, comunità trinitarie: non solo per dottrina, ma per testimonianza viva.

“La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” (2 Corinzi 13:13). Amen.

Preghiamo: O Dio eterno e glorioso, Padre che ci hai creati con amore, Figlio che ci hai redenti col tuo sangue, Spirito Santo che ci rinnovi con la tua potenza, ti adoriamo oggi come l’unico vero Dio, uno nella sostanza, trino nelle Persone, sorgente della nostra vita, fondamento della nostra speranza, destinazione della nostra fede e del nostro cammino. Ti ringraziamo per la grazia che ci hai mostrato nell’averci chiamati per nome e ricevuti nel tuo Nome, quello santo, potente e glorioso: il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ma oggi, Signore, davanti a te riconosciamo anche la nostra indegnità. Abbiamo spesso portato il tuo nome senza onorarlo, abbiamo ricevuto il battesimo ma vissuto come se appartenessimo a noi stessi, abbiamo proclamato la Trinità ma ignorato la tua presenza nella nostra vita quotidiana. Per questo ti chiediamo: perdonaci, rinnova i nostri cuori, e donaci lo Spirito tuo Santo in misura abbondante. E ora, Signore, ti supplichiamo: se tra noi c’è chi ancora non ti conosce veramente, se c’è chi non si è mai arreso alla tua grazia, se c’è chi ha solo udito il tuo nome ma non ne ha mai gustato la potenza salvifica, toccalo oggi con la tua misericordia. Chiama, salva, rigenera, battezza nel tuo Spirito. E per tutti noi che abbiamo creduto, rinnovaci nell’anima e nella mente: fa’ che da oggi viviamo in modo coerente con il Nome che portiamo, non più per noi stessi, ma per Colui che è morto e risorto per noi. Donaci la gioia di servire, l’umiltà di seguire, la forza di testimoniare, la pace della comunione con te. E che tutto ciò che siamo e facciamo sia per la gloria del tuo nome trino e benedetto. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ora e per sempre. Amen.

Paolo Castellina, 6 giugno 2025

Note 

[1] La formula “In nome del popolo italiano”, utilizzata nelle sentenze dei tribunali italiani, ha radici storiche e giuridiche profonde, legate all’evoluzione del sistema giudiziario italiano e al principio di sovranità popolare. La formula deriva dal principio secondo cui la giustizia viene amministrata in nome del popolo, che è considerato la fonte della sovranità dello Stato. Questo concetto affonda le sue radici nel costituzionalismo moderno, influenzato dalla Rivoluzione Francese (1789), che sanciva la sovranità popolare come base del potere statale. In Italia, però, l’adozione formale di questa espressione si consolida solo con la nascita dello Stato unitario e, soprattutto, con la Costituzione repubblicana del 1948. Prima dell’unificazione italiana (1861), nei vari Stati preunitari (Regno di Sardegna, Regno delle Due Sicilie, Stato Pontificio, ecc.), le sentenze erano emesse in nome del sovrano o dell’autorità regnante (ad esempio, “In nome di Sua Maestà”). Questo rifletteva il principio dell’autorità monarchica, dove il potere giudiziario era un’emanazione del re o del principe. Con l’unificazione e la creazione del Regno d’Italia, il sistema giudiziario si evolve verso una maggiore centralizzazione. Le sentenze iniziano a essere emesse in nome dello Stato, ma la formula “In nome del popolo italiano” non era ancora formalmente adottata, poiché la sovranità era ancora formalmente attribuita al re. Tuttavia, con il progressivo rafforzamento delle idee liberali e democratiche, si inizia a percepire il popolo come fonte indiretta di legittimità. L’adozione definitiva della formula “In nome del popolo italiano” avviene con la Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948. L’articolo 101, comma 1, stabilisce che “La giustizia è amministrata in nome del popolo”, sancendo il principio che i giudici esercitano la loro funzione come rappresentanti della volontà popolare, non più del sovrano o di un’autorità superiore. La formula diventa così obbligatoria nelle sentenze dei tribunali italiani, come previsto dal Codice di procedura civile (art. 132) e dal Codice di procedura penale (art. 135, oggi abrogato e sostituito da altre norme). La formula non è solo una formalità, ma rappresenta il legame tra il potere giudiziario e la sovranità popolare, sottolineando che i giudici agiscono come delegati del popolo italiano, pur mantenendo indipendenza e imparzialità (art. 101, comma 2, Costituzione). Essa riflette i valori democratici della Repubblica, distinguendo il sistema italiano da quelli monarchici o autoritari del passato. Codice di procedura civile (1865 e successive modifiche): La formula è stata codificata come parte integrante delle sentenze civili, per garantire uniformità e solennità agli atti giudiziari. Codice di procedura penale: Analogamente, nelle sentenze penali la formula è obbligatoria, come stabilito dalle norme vigenti (es. art. 546 del Codice di procedura penale attuale). Corte Costituzionale: Anche le sentenze della Corte Costituzionale iniziano con la formula “In nome del popolo italiano”, ribadendo il principio costituzionale. La formula si inserisce in un contesto più ampio di transizione verso la democrazia. Dopo il fascismo e la monarchia, l’Italia repubblicana ha voluto sottolineare il ruolo centrale del popolo come fonte di legittimità di tutti i poteri dello Stato, incluso quello giudiziario. È un simbolo della rottura con il passato e dell’affermazione dei principi democratici. La formula “In nome del popolo italiano” ha origine nel principio di sovranità popolare, consolidatosi con la Costituzione del 1948, ma trae ispirazione dalle idee illuministiche e costituzionali del XVIII e XIX secolo. Passando da un sistema monarchico a uno repubblicano, l’Italia ha adottato questa espressione per sancire che la giustizia è esercitata in nome del popolo, riflettendo il valore democratico della Repubblica.

[2] la formula cristiana “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Questa formula, nota come formula trinitaria, ha radici profonde nella tradizione cristiana e si basa su testi e pratiche del Nuovo Testamento e della Chiesa primitiva. La formula trinitaria deriva principalmente dal Vangelo di Matteo (28:19), dove Gesù, prima di ascendere al cielo, dà il mandato missionario ai discepoli: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Questo versetto è il riferimento più esplicito per la formula trinitaria nel Nuovo Testamento. Sebbene il concetto di Trinità non sia ancora pienamente elaborato nei testi neotestamentari, Matteo 28:19 riflette una comprensione teologica che collega il Padre, il Figlio (Gesù Cristo) e lo Spirito Santo in un’unica realtà divina. Altri passaggi del Nuovo Testamento, come 2 Corinzi 13:13 (“La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”), suggeriscono una struttura trinitaria implicita, anche se non usano la formula esatta. La formula “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” divenne centrale nella pratica del battesimo nella Chiesa primitiva. Testi come la Didaché (fine del I secolo – inizio del II secolo), un manuale di istruzioni cristiane, indicano che il battesimo veniva amministrato usando questa formula: “Riguardo al battesimo, battezzate così: dopo aver insegnato tutto ciò che precede, battezzate nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo in acqua viva” (Didaché 7:1).Questo  dimostra che la formula era già in uso nelle comunità cristiane entro il I-II secolo, in linea con il mandato di Matteo 28:19. Durante i primi secoli, la formula trinitaria fu al centro delle discussioni teologiche sulla natura di Dio, culminate nei concili ecumenici come quello di Nicea (325 d.C.) e di Costantinopoli (381 d.C.). Questi concili definirono la dottrina della Trinità, chiarendo la relazione tra Padre, Figlio e Spirito Santo come tre persone distinte ma un unico Dio. La formula battesimale divenne un pilastro per esprimere questa fede. La formula trinitaria non si limitò al battesimo, ma fu adottata in molte altre pratiche liturgiche, come: La benedizione (es. nelle celebrazioni eucaristiche). L’invocazione all’inizio delle preghiere o dei riti. Nel corso del tempo, la formula è stata standardizzata nella liturgia latina e orientale, diventando un elemento fondamentale dell’identità cristiana. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che la struttura triadica della formula possa avere paralleli in altre tradizioni religiose o filosofiche dell’antichità, come le triadi divine pagane o i concetti triadici della filosofia greca (es. Plotino). Tuttavia, non ci sono prove dirette che colleghino la formula cristiana a queste tradizioni; la sua origine sembra radicata principalmente nel contesto ebraico-cristiano e nella rivelazione neotestamentaria. Alcuni studiosi moderni, specialmente nel campo della critica testuale, hanno discusso sull’autenticità di Matteo 28:19, suggerendo che la formula trinitaria potrebbe essere un’aggiunta successiva al testo originale. Tuttavia, la stragrande maggioranza dei manoscritti e la tradizione patristica supportano l’autenticità del versetto. Inoltre, l’uso della formula nella Didaché e in altri scritti cristiani primitivi conferma la sua antichità. La formula “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” ha origine nel Vangelo di Matteo (28:19) ed è stata adottata dalla Chiesa primitiva come parte integrante del battesimo e della liturgia. La sua formalizzazione è stata rafforzata dai concili ecumenici e dalla riflessione teologica sulla Trinità. La sua centralità nella tradizione cristiana ne fa una delle espressioni più antiche e durature della fede cristiana.

[3] Commento di Giovanni Calvino su Matteo 28:19.